A volte basta un’increspatura, un dettaglio fuori posto, per capire che qualcosa si muove nel sottobosco musicale. Quando Nick Cave, nel suo diario digitale The Red Hand Files, si lascia sfuggire che una sua mattinata inspiegabilmente luminosa è stata accompagnata — tra le altre cose — dal debutto solista di Cameron Winter, qualcosa si accende.
Non è il solito endorsement sbandierato con punti esclamativi e comunicati stampa: è una citazione detta di traverso, en passant, non fosse che a pronunciarla è un monumento vivente della musica. Heavy Metal, il primo disco da solista del frontman dei Geese è un album che non ti prende a schiaffi, non ti implora, ma ti gira attorno con l’eleganza ubriaca di un pianista da bar alle 6 del mattino, tra sogni, allergie e loop di Leonard Cohen.
Winter ha 23 anni, la faccia da studente di filosofia che non va mai a lezione, una voce che sembra uscita da una cabina telefonica rotta nel Bronx. Con i Geese ci ha già portato in territori indie-noise, punkettari e spigolosi. Ma qui è un’altra cosa. Heavy Metal non è heavy e non è metal. È un titolo ironico, certo, ma anche un manifesto: c’è pesantezza, sì, ma quella interiore. Il metallo qui è nelle giunture del cuore.
Il disco si apre con The Rolling Stones, e già ci siamo: il titolo più sbagliato per un pezzo così. Nessun riff, nessuna strada polverosa. Solo un pianoforte che barcolla, archi che sembrano stirati a mano, e Cameron che sussurra e confessa come se stesse lasciando un messaggio vocale troppo lungo. Poi c’è $0, il «cuore pulsante del disco», si leggeva nelle comunicazioni ufficiali di fine 2024. Sette minuti che sembrano nati in un sogno post-antistaminico: una specie di phantasmagoria piano-driven, con testi che fluttuano tra nonsense e tagli netti nell’anima. Quando dice “God is real”, non sai se credergli o se offrirgli un bicchiere d’acqua. Forse entrambe le cose.
Il bello è che il disco non fa mai il figo. Non cerca il concept. Si muove come una creatura notturna, tutta istinto, sbavature, dettagli che ti scappano ma poi tornano nei sogni. C’è Nausicaä (Love Will Be Revealed) che sembra una lettera d’amore scritta su un vecchio Game Boy; le suggestioni da film muto di Nina in a Field of Cops, Can’t Keep Anything che suona come un ultimo respiro e forse lo è.
La storia dietro l’album è già leggenda, alimentata dalla comunicazione legata al disco, che ha messo in circolazione diverse «verità o presunte tali» su Cameron Winter: si dice sia stato registrato tra hotel e Guitar Center e che il concept sia nato durante un ricovero per mononucleosi ascoltando Leonard Cohen; e ancora, che i brani siano stati scritti da Winter prima dei 15 anni e suonati da musicisti reclutati su Craiglist, tra cui un cugino diseredato di John Lennon. Vero o no, poco importa. L’estetica lo conferma: lo-fi ma preciso, fragile ma mai rotto del tutto. Prodotto da Loren Humphrey, che incolla, cuce, strappa e ricuce come un sarto per anime in esaurimento. Winter dice di aver perso la voce e 15 chili durante la registrazione. Ci crediamo, anche se non serve: quello che conta è che in mezzo a un mare di dischi progettati per l’algoritmo, Heavy Metal è un oggetto umano, troppo umano. È pieno di crepe, ma ci puoi passare attraverso e scoprire qualcosa di te.
Se la mattinata di Nick Cave è stata resa luminosa da Heavy Metal, non è perché è un disco perfetto, ma perché è vivo.