Non c’era ai Golden Globe di gennaio, primo test dell’annata post-scandalo. E ci sta, si può anche saltare una premiazione, pure se era chiara l’intenzione di voler far calmare un po’ le acque. Ma, per la terza volta consecutiva, Blake Lively non c’era nemmeno ieri sera al MET Gala – lei, che per anni ne è stata una delle queen indiscusse. Due apparizione per tutte: nel 2014 aveva debuttato in coppia con Ryan Reynolds proprio su quel red carpet e nel 2022, da co-chair dell’evento, era entrata nella storia del fashion, trasformandosi in una specie di Chrysler Building vivente e cambiando poi abito e monumento (la versione Atelier Versace della Statua della Libertà) in una sola mossa in diretta, chapeau. Nel 2023 aveva partorito da due mesi e nel 2024 aveva scelto di stare a casa con i quattro figli piccoli, quindi tutto giustificato, tutto normale. Fino a quest’anno, in cui il dress code della serata, “Superfine: Tailoring Black Style”, sarebbe stato pure una naturale evoluzione dei completi che Lively indossa sullo schermo in Un piccolo favore (e quindi un ulteriore promozione per il sequel, ci torniamo), e in cui di conseguenza la sua non-presenza sembra mascherare un’altra narrazione (che poi è la parola chiave di tutto l’affaire Baldoni).
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Si sapeva da marzo, potrebbe obiettare qualcuno, non è mica una Kardashian, potrebbe sostenere qualcun altro, ma questo non toglie che nel mondo delle celebrity l’assenza sia essa stessa una dichiarazione d’intenti. E anche un vuoto che si riempie da solo. Di sospetti, di supposizioni, anche di ipotesi del tipo: “Non c’è perché sa che tutto ciò che dirà verrà usato contro di lei”. Oppure: “Non c’è perché ha scelto di disconnettersi”. Ma la verità, probabilmente, è più complicata. Non c’è perché non ha più il controllo del racconto. E – forse – non sa come riappropriarsene. Chi è adesso Blake Lively? E per adesso intendo ovviamente dopo quello che doveva essere il suo grande salto da “ex-Gossip Girl (scrivo da fan della prima ora) e moglie di” a “attrice da prestige drama“: It Ends with Us – Siamo noi a dire basta, tratto dal romanzo-fenomeno di Colleen Hoover, nelle intenzioni lanciato come filmone da lacrime e Oscar buzz (pazzi, ma tant’è), con Blake fioraia dal passato difficile e Justin Baldoni alla regia e al suo fianco. Cosa poteva andare storto? Tutto.
Prima le foto dal set diventate meme: look assurdamente costosi per il suo personaggio, capelli color rame, l’espressione di Lively che sembrava dire “perché?”. Poi il trailer – una roba che pare scritta da un algoritmo fan di Grey’s Anatomy prima stagione. E infine, il disastro: il tono troppo scherzoso nelle interviste per una storia che parla di violenza sulle donne, il tour che ha coinciso con il lancio della sua linea per capelli, i cocktail ispirati al film a base di Betty Buzz, l’azienda di bevande che ha fondato nel 2021, e, soprattutto, le accuse di molestie e abuso di potere contro Baldoni, l’interruzione della promozione, i social in fiamme, i giornali che pubblicano titoli su titoli e Blake che, puff, sparisce come Emily Nelson.

Anna Kendrick (Stephanie) e Blake Lively (Emily) in ‘Un altro piccolo favore’. Foto: Lorenzo Sisti/Prime Video
Fino all’uscita di Un altro piccolo favore (su Prime Video), il sequel del cultino del 2018 dove Lively trasformava l’incrocio tra Gone Girl e un tutorial di mixology in una performance sartoriale da noir couture. Emily era l’anti-eroina che non sapevamo di volere: spavalda, queer, over-dressed e under-emotional. Una che si smaterializzava e rispuntava come un fantasma col fiocco Windsor. Adesso torna di nuovo, con in programma un matrimonio da sogno (con Michele Morrone! Quello del porno-soft polacco 365 giorni) vista faraglioni, dove – indovinate – nulla è come sembra. Perché la vacanza con omicidio incluso è una comfort zone narrativa, così come lo è ancora una volta l’improbabile ma perfetta chimica dentro cui cui sguazzano Lively e Anna Kendrick.
Un altro piccolo favore è un film leggerino, più fashion che crime, ambientato a Capri (se sento ancora dire: “Caprì”, con l’accento sulla “i” all’americana, urlo), perché in Francia una Emily c’era già e l’Italia fa sempre la sua figura. Ma il fulcro non può che restare Blake: tutto quello che aveva reso quel personaggio irresistibile – l’ambiguità, la fluidità, la possibilità che stesse recitando anche con sé stessa – è ancora lì. Ma c’è qualcosa di diverso, una sorta di calcolo. È come se Lively stesse cercando, con tutte le sue forze, di ricordarci com’era prima (e, attenzione, è comprensibilissimo visto lo shitstorm che sta tutt’ora attraversando, ma dal punto di vista del risultato interpretativo tanto’è). Quando, pur nel suo essere bionda, bella, ricca, sposata con l’attore più potente di Tinseltown, c’era qualcosa di ironico, di giocoso, di apparentemente self-aware che piaceva a tutti, nessuno escluso. Nel secondo capitolo diretto da Paul Feig è sempre inverosimilmente elegantissima come un Martini servito nel bicchiere sbagliato, ma – e qui sta il nodo – quasi troppo cosciente del proprio personaggio. Se nel primo film riusciva a farci credere che Emily Nelson fosse una figura mitologica scesa su Instagram con lo scopo di sedurre, depistare e distruggere (il tutto mentre beveva gin come fosse acqua naturale), qui sembra più Blake che interpreta Blake che interpreta Emily.
E non è un caso se la scena di cui si parla di più – quella in cui Lively, nei panni di una delle tre gemelle che incarna, droga e bacia un’altra sorella – suona come un pastiche tra Black Swan, Orphan Black e Dynasty senza averne né l’audacia né l’ambiguità. Lei ci prova: si sdoppia, triplica, lavora sul tono, gioca con registri diversi, ma il risultato è più un’esibizione (Brava! Brava! Sono tanto brava!, cit.) che una vera interpretazione. Ogni sguardo ha l’aria di una didascalia, ogni battuta pare pensata per i reaction video su TikTok. È una performance che vuole piacere a tutti (again) e che proprio per questo perde il magnetismo ambiguo e indecifrabile che l’aveva resa così ammaliante nel primo capitolo.

Blake Lively (Emily) in ‘Un altro piccolo favore’. Foto: Lorenzo Sisti/Prime Video
E poi c’è la prima, vera intervista dal boomerang mediatico di It Ends With Us: per promuovere Un altro piccolo favore Lively è stata da Seth Meyers e inevitabilmente ha sfiorato – senza però mai nominarlo – il drama Baldoni. La sua ospitata (già ci immaginiamo la lista di domanda proibite dall’ufficio stampa al conduttore stile Call My Agent) pare una masterclass di evasione: “Quest’anno è stato pieno dei momenti più alti e più bassi della mia vita”, dice. Ma il problema, se ce n’è uno, è quello che non dice. Nel pieno dello scandalo che potrebbe quasi seppellire il #MeToo, con le accuse rivolte a Baldoni e la sua contro-causa (su questo si pronuncerà il tribunale, non dobbiamo né vogliamo certo prendere parti qui), Blake ha scelto la linea del silenzio dorato. Nessun post, nessuna presa di posizione, nemmeno un like strategico. Ha proseguito, semplicemente, come se niente fosse con interviste di routine, marketing istituzionale e red carpet strettamente necessari. E ci sta che dopo un periodo certamente traumatico voglia ricostruirsi una normalità e mantenere una sua identità che nulla c’entri con tutto qualunque cosa sia successa. Ma purtroppo se ti chiami Blake Lively, ti sei costruita un personaggio pubblico di donna forte, tosta, indipendente (cit.), sei la protagonista (e co-produttrice) di un film sulla violenza domestica e hai accusato tu stessa il regista di molestie e abuso di potere, be’, qualcosa il pubblico se lo aspetta, qualche squarcio nella tua narrazione personale, o anche soltanto un gesto, una frase, un “non ci sto più”. E invece nulla, anzi: il tentativo evidente di spostare il focus su un film da piattaforma. Come se potessero bastare una location mediterranea e un paio di spalline couture. Forse, nel 2025, non basta più essere Blake Lively per reggere tutto il gioco. Anche se il completo resta sempre impeccabile.