Eravamo ragazzi nel 2011. Scaricavamo la musica come rubavamo ai supermercati: questioni entrambe prioritarie. Musica e cibo in quest’ordine. Arrivammo a The Island Chainsaw Massacre grazie a Pino Scotto, che conduceva una trasmissione musicale su un canale gratuito. Pino Scotto insultava come sempre: lo faceva per disperazione, e quella disperazione era anche nostra. Una sera insultò Salmo. Non sapevamo chi fosse e andammo a cercarlo: spesso chi riceve contro un urlo è uno che vale la pena conoscere. E così fu. Quanto era incazzato Salmo. Quanto ci somigliavamo. Il senso dell’odio, Yoko Ono. Tutte cose che pensavamo anche noi – anzi sapevamo – ma che qualcuno doveva dire – anzi urlare.

Foto: Paolo Emanuele Barretta
In Ranch c’è ancora quel sentimento, ma è come se la rabbia fosse diventata interna. Spifferi dentro il corpo. È un disco rancido, tra i trilobiti e nel catrame, riflessi specchiati e zozzi. Un album da cantautore in alcuni brani, i migliori secondo noi. Quelli in cui si racconta una storia arrugginita accanto alle ombre di una casa vuota. Crudele, Sangue amaro, Il figlio del prete, Mauri sono lo scheletro poetico di questa figura sghemba che si aggira per i campi, sputa e bestemmia un Dio che s’è perso lì attorno da giorni. Un solo featuring, seguendo quel ritrovato pensiero di essere gli unici testimoni, senza sfilze di canzoni con tutti invitati – canzoni quindi di nessuno. Il senso del nuovo odio è rintanarsi. O forse è una forma di amore, l’unica che non sia contro natura: quella verso se stessi, dopo troppo tempo sotto luci abbaglianti e falsi consigli adulanti. È bello spegnere la luce, il buio di giorno ha ragione.
Abbiamo ascoltato The Island Chainsaw Massacre quasi 15 anni fa e Ranch più o meno un’ora fa. Eravamo ragazzi e ora siamo bambini. Eravamo soli e, come Salmo, siamo ancora solissimi.
Si ritrovano su Zoom una domenica sera: Salmo è a casa a Olbia, nel suo ranch, mentre i Fratelli D’Innocenzo sono nell’appartamento di Fabio all’Esquilino, Roma. L’aneddoto di Pino Scotto aggancia subito l’attenzione del rapper, che nel corso della conversazione troverà più di un punto di contatto artistico con i due registi.
Salmo: Mi ricordo il giorno che Pino Scotto mi diede della testa di cazzo. In una vecchissima canzone del primo album lo avevo citato pensando che non l’avrebbe sentita nessuno, e invece gli è arrivata dritta. Io lo prendevo per il culo e lui si è vendicato nella sua trasmissione. Giustamente, mi ha blastato.

Salmo indossa: canottiera Cocci archivio, pantaloni GRK10, scarponcini Timberland
Fabio: Dell’album mi hanno colpito tantissimo i brani in cui ti sei messo alla prova col cantautorato. Mi ricordano lo storytelling di De André, tipo Storia di un impiegato. I brani che raccontano una storia sono sempre più rari ed è coraggiosissimo quello che hai fatto. A questo punto mi sembra limitativo definirti un rapper, sei un musicista..
Salmo: Credo di sì, ci provo.
Fabio: In più l’album è praticamente in piano sequenza, è un assolo, c’è un featuring di Kaos e basta, e questo rende l’ascolto ancora più immersivo.
Salmo: Grazie! Il cantautorato è venuto fuori in maniera molto naturale. Le canzoni di De André come Il pescatore sono bellissime. Quel tipo di storytelling manca molto oggi, credo di averne sentito l’esigenza. A 40 anni ho voluto fare un disco maturo, senza scorciatoie. Dieci anni fa se volevi far sentire a tutti una tua canzone rap dovevi farla secondo certi canoni, doveva avere il ritornello con la tipa, parlare d’amore e cose del genere. Ora fortunatamente nove ragazzi su dieci ascoltano rap, c’è così tanta roba in giro che c’è da mangiare per tutti. La prima canzone che ho fatto uscire, On Fire, è estrema, mega hardcore, per nulla radiofonica, ma è andata molto bene. Anche se non me ne frega niente dei numeri, mi è servita come termometro per capire quanto siamo liberi a livello artistico nella musica in questo momento. C’è una libertà assoluta anche nel raccontare una storia e infatti alcuni artisti della mia età, come Marracash, stanno prendendo questa strada.
Fabio: A un certo punto nell’album dici una cosa stupenda, “ho fatto l’amore la prima volta a 17 anni”. Credo che una frase così in un brano hip hop, genere dove di solito si celebra il machismo tipo “mi trombo quella, mi scopo quell’altra”, celebri uno degli aspetti più importanti dello storytelling, la sincerità. È fondamentale essere sinceri per non correre il grande rischio di eliminare una fetta importantissima dalla vita, l’adolescenza, vivendola con imbarazzo, sentendosi fuori posto in ogni posto. Quel verso m’ha colpito, mi ha veramente parlato, come se tu ti fossi messo da un’altra parte, nel tuo ranch appunto, mentre tutti stanno andando in un’altra direzione, folle e sbagliata. È coraggioso andare su un’isola deserta dove non c’è nessuno…
Salmo: Isolarsi, allontanarsi dai riflettori è stata un’esigenza, perché sono praticamente 15 anni che martello sui social e ho in qualche modo costruito un personaggio che non sempre sono io, perché comunque su Internet è tutto un gioco di intrattenimento, no? Questa roba sicuramente ha sporcato anche l’arte, la musica. Ora la gente conosce i personaggi e la musica viene in secondo piano. Dopo 15 anni ho sentito l’esigenza di sparire: non ho più i social, non li guardo, stavano facendo male alla mia salute mentale, non stavo bene. Svegliarti ogni giorno e leggere che tante persone ti augurano di morire non è bello: oggi non me ne frega niente, domani non me ne frega niente, il terzo giorno inizia a pesarmi. Ho sentito l’esigenza di isolarmi anche perché mi sono accorto che i social rovinano la creatività: sono una perdita di tempo, una distrazione. Da quando me ne sono liberato c’è stata un’esplosione di creatività. Ho scritto il libro, ho recitato nella serie Gangs of Milano, di cui ho fatto anche la colonna sonora, ho iniziato a lavorare all’album. Il ranch è uno stato mentale, un’isola felice che vai a cercare nella testa quando non stai bene e capisci che certe cose non le vuoi più fare. Torno alla sincerità di cui parlavi prima: quando sei un ragazzino il rap è una cosa molto fica. Io ero un ragazzo molto timido, avevo i denti storti, non riuscivo a parlare con nessuno, ero chiuso. Il rap mi ha dato la possibilità di sentirmi qualcuno. Però poi con la consapevolezza dei 40 anni mi sono reso conto di chi sono realmente. Non volevo né fingere, né gonfiare il mio ego, e quindi ho detto la verità. Dicendo la verità posso anche passare come uno sfigato, perché i rapper non dicono mai davvero come stanno, se stanno male o bene, se si sentono dei falliti.

Salmo indossa: pantalone Stone Island
Damiano: È molto raro e bello quel che dici. Sento che quando parli di isolarti sottintendi: tornare a comunicare con te stesso. Io sono come te: sei anni fa ho levato i social e mi sono ritrovato per la prima volta a ricordarmi cos’è la noia, cos’è il silenzio. Ho ritrovato il rumore del mio respiro, il cuore che batte quando mi corico sul lato sinistro. Tutte cose che avevo dimenticato, perché vivevo per 24 ore con una sorta di rumore bianco in sottofondo. Quando ci mettiamo in connessione con noi stessi ci permettiamo di essere creativi, è inevitabile. Quando ho ascoltato Ranch l’ho fatto a occhi chiusi sul letto, individuando una serie di canzoni che considero lo scheletro del disco: Crudele, Sangue amaro, Il figlio del prete e Mauri. Mi sembrava di sentire un Johnny Cash arrugginito e febbrile, ho sentito un artista pacificato che diceva a tutti «adesso vi fermate in questo piazzale di sosta, in questa pompa di benzina davanti a questo laghetto, e io vi racconto una storia, vi faccio vedere il mio ranch, ovvero quello che sta dentro di me».
Salmo: Grazie, non aggiungerei nient’altro a quello che hai detto. Hai fatto un’analisi molto bella. A proposito delle canzoni che hai citato, posso dirti che Crudele è molto dolorosa. Non tanto per me, ma per la mia famiglia. Si riferisce a un fatto di cronaca, si parla di un omicidio in famiglia, è successo realmente. Proprio oggi stavo facendo delle riprese in Sardegna nei luoghi di mio padre. I suoi fratellastri sono tutti dei pastori, dei contadini. Non hanno sentito la canzone e non so che cosa succederà in famiglia quando la sentiranno… La verità ha un prezzo enorme. Ce l’avevo in testa da un sacco di anni, questa canzone, alla fine ho detto: ok, provo a farla. Non l’ho fatta prima perché era pericoloso, perché sto facendo odorare le mutande della mia famiglia a tutti. Non so come spiegartelo, è una cosa molto intima. Alla fine mi sono dato il coraggio di farlo. L’ispirazione me l’ha data De André. Inizialmente non c’era il beat, ma solo la chitarra. L’ho scritta in 20, 30 minuti, perché ce l’avevo in testa da un paio d’anni… Aggiungo che Crudele è romanzata, ci sono fatti inventati. È come se fosse un libro ispirato a una storia vera.
Crudele e Sangue amaro sono stati i primi pezzi che ho scritto, quando pensavo che stessi facendo un disco chill, anche se poi non è andata così. Il concept e il titolo dell’album li capisci solo alla fine. Per ritrovarmi creativo son dovuto rientrare in Sardegna e rivivere quello che avevo vissuto ai tempi del primo album. Ho cercato quella luce lì. Con Il figlio del prete volevo fare un pezzo techno, poi la creatività mi ha portato altrove. Mi ero appuntato la frase “Il figlio del prete: scrivere canzone”. È venuta fuori d’istinto, un De André 2.0, immaginando una sorta di killer che è appunto figlio di un prete. Avevo appena visto la serie Vatican Girl, forse il più spaventoso film dell’orrore che abbia mai visto. Non ci sono mostri, ti basta immaginarli. Quando ho visto il documentario ho iniziato a immaginare che il figlio del prete fosse il vero killer di Emanuela Orlandi o il tipo che l’ha sequestrata. Mi sono fatto tutto questo volo mentale. Mauri è il pezzo più personale del disco. Nella prima strofa un amico mi parla: dov’è finito Mauri? Vive in collina, è sparito, ci ha mollato tutti. Nella seconda strofa gli rispondo, spiego perché sono sparito, dico che va tutto bene, che ho trovato la pace.

Salmo indossa: canottiera Cocci archivio
Fabio: Amo tantissimo i libri che si fondano sui rapporti epistolari, come Lettere a nessuno di Antonio Moresco, che è uno scrittore meraviglioso e quindi purtroppo sconosciuto: sono le lettere che mandava alle case editrici, che gli rispondevano che non lo avrebbero pubblicato. Moresco è un altro che s’è costruito il suo ranch, il suo spazio. In Ranch ho sentito tante cose musicalmente belle che fanno parte della mia discografia personale, i Portishead, i Massive Attack. Aprire un album con un brano corto e molto aggressivo come On Fire mi ha ricordato quando Kanye West aprì Yeezus con On Sight.
Salmo: È l’album più bello che ha fatto Kanye. L’ha prodotto dopo aver incontrato Travis Scott, c’è molto dello stile dark di Travis. L’album l’hanno fatto quando si sono incontrati, ma secondo me era in programma da qualche anno.
Fabio: Ascoltando il disco ho capito quanti artisti ti sono debitori musicalmente. Ti fa piacere influenzare gli altri?
Salmo: Credo che alla fine il succo di tutto sia questo, riuscire a fare delle cose e tramandarle. Ci sono molti artisti attuali, tipo Lazza o Blanco, a cui spero di aver insegnato qualcosa. Lazza è venuto a un sacco di miei live e mi ha detto di aver capito molte cose, come la tecnica per respirare col diaframma.

Salmo indossa: pantalone e giacca Stone Island
Damiano: Vorrei tornare alla sincerità. Un pezzo come Dubbi di Marracash è un racconto vero delle difficoltà e delle debolezze del vivere e non può non colpirti, rimanerti addosso. Sono sicuro che lo stesso succederà con Crudele. È evidente che non menti, è come se avessi smesso di dare del lei a chi ti ascolta cercando un rapporto più intimo e diretto.
Salmo: Wow. Grazie bro, siete dei veri ascoltatori. Sentire esaminare la musica che faccio con questa cura è una bella gratificazione.
Fabio: In Conta su di me c’è un’altra frase che mi è rimasta impressa: “quando non sapevano il nome”. Rimpiangi i tempi in cui gli ascoltatori non conoscevano il tuo nome e magari ti ascoltavano in maniera casuale o distratta? Oppure sei felice di essere qualcos’altro adesso?
Salmo: Dipende cosa si intende per qualcos’altro. Penso di essere rimasto lo stesso per non impazzire. È difficile, però, cogliere la chiave del pezzo: Conta su di me è una canzone d’amore per la musica. Nelle strofe dico “tu sei l’unica che mi ha portato fino a qui, ci sei sempre stata, anche quando non sapevano il nome”.
Fabio: I pezzi li devi sentire almeno tre o quattro volte per capirli bene, ma il preascolto che mi ha inviato la casa discografica si bloccava…
Salmo: Effettivamente quello che rimane nel tempo sono le parole, non tanto la melodia. La melodia piano piano inizia a sfumare, mentre le parole a volte ti bucano il cuore e te le porti dietro tutta la vita. Io ancora oggi mi ricordo le parole di Kaos e le sue rime che ascoltavo quando ero ragazzino.
Damiano: Un’altra cosa che ho sempre amato del tuo modo di fare musica è l’intenzione. È come se l’intenzione ti portasse a seguire un dettame in quello che fai, come se avessi a che fare con qualcosa di sacro.
Salmo: Mi levate sempre le parole di bocca, è una roba che dico sempre agli amici, mi sembra di conoscervi da un sacco di tempo. L’intenzione è tutto, è magica perché è come un’antenna, capito?

Salmo
Damiano: Ripercorrendo mentalmente la tua discografia, ci sono moltissimi riferimenti al cinema. Che spazio dai al cinema nella tua vita rispetto alla musica? Lo chiedo perché io che faccio cinema riservo uno spazio di purezza alla musica. Passo il 90% della giornata a cercare musica e paradossalmente soltanto il 10% pensando al cinema.
Salmo: Il cinema mi ha attratto per via del desiderio di comunicare. Mi sono avvicinato all’acting coi videoclip, ho voluto fare sin dall’inizio video che potessero avvicinarsi al cinema. Il cinema mi sta cambiando, anzi mi ha cambiato la vita. Ranch è legato alla serie che ho fatto per Sky, Gangs of Milano, e ancora prima Blocco 181. Nella serie il mio personaggio si isola completamente: dopo che ha sparato, va a vivere in una comunità di cinesi e si chiama fuori dal mondo in cui viveva in precedenza. Sapevo che se fossi andato fino in fondo a questo personaggio probabilmente me lo sarei portato nella vita, quindi me lo sono scelto megapulito, no droghe, no alcol. Il tipo si sveglia la mattina presto, si allena, lavora, e questa cosa me la son portata nella vita. Mi ha aiutato un sacco perché negli ultimi due anni non stavo andando tanto bene, avevo bisogno di una raddrizzata. Ormai sono entrato con tutti e due i piedi dentro questa cosa, del cinema, dell’acting, sono curioso di vedere dove mi porterà. Forse il cinema in questo momento mi sta gratificando di più perché a livello musicale le cose che volevo fare le ho fatte. Sono contento che continuino a uscire dischi, continuo a esprimermi e ne sono felice, però il fatto di aver trovato un altro veicolo per farlo mi piace un sacco. Voglio arrivare alla fine del tunnel, vedere che cosa c’è. Questa cosa che riesce a cambiare le persone è veramente magica.
Fabio: Il finale del disco con te che ti auto-dissi mi ha fatto volare. Se fosse uno sport, l’hip hop sarebbe il calcio e il dissing i calci di rigore, divertenti, immediati, non meritori. Quello di un paio d’estati fa tra te e Luchè è stato straordinario.
Salmo: Il dissing è un pratica del rap che esiste da tantissimo tempo. È grottesca e divertente allo stesso tempo. Non la devi prendere sul serio, ma in quel momento la gente prova una sorta di disagio a specchio, cioè si sente a disagio per la persona che viene insultata. È una magia particolare, però dà una bella sensazione. Cioè provi disagio, ma poi ti piace. In Italia la gente non sa nulla di rap e quindi dicevano che io e Luchè non eravamo un buon esempio per i giovani perché ci insultavamo violentemente. Avrebbero dovuto farsi una risata, io mi sono divertito. È stato faticoso solo perché ero in tour. Ricordo che a Genova ho fatto un live di merda per un mindfuck: dimenticavo le parole perché in quel momento stavo scrivendo la risposta al dissing e avevo il cervello diviso in due.
Damiano: Qualche giorno fa ho ricevuto il messaggio di un amico che mi diceva che ci avevi nominato in On Fire: “Hanno ucciso il rap, no non scherzo / Non abbiamo colpe, Fratelli D’Innocenzo”. Sono entrato in panico, pensavo ci avessi dissato e ho pensato: e ora come gli rispondiamo? Non siamo rapper…
Salmo: Ma non era un dissing, era un omaggio.
Intervista raccolta da Giovanni Robertini.
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Photographer: Paolo Emanuele Barretta
Interview curated by: Fabio e Damiano D’Innocenzo
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art director: Alex Calcatelli per Leftloft
Fashion editor: Francesca Piovano
Rs graphic designer: Stefania Magli
Talent manager: Sebastiano Pisciottu, Filippo Agostinelli
Talent label management: Eleonora Romanò, Manuel Nicoli per Columbia Records Italy e Sony Music Italy
Talent press office: Ilaria Melotti per Goigest
Talent mua: Eleonora Volpi using Make Up For Ever
Director/dop: Riccardo Sergio
Camera operator: Valentina De Rosa
Photographer assistant: Marco Arici
F.e.assistant: Elisa Brunello