Dal 10 maggio all’8 giugno Milano accoglie una mostra dedicata alla storia dei festival organizzati da Re Nudo al Parco Lambro tra il 1974 e il 1976. Curata da Fabio Maria Minotti presso la Fabbrica del Vapore, la mostra presenta 80 scatti in bianco e nero, molti dei quali inediti, che catturano l’essenza di quei giorni di musica e controcultura.
Il Festival al Parco Lambro è stato più di un evento musicale, un raduno di giovani provenienti da tutta Italia desiderosi di vivere una Woodstock nostrana, alla ricerca di nuove forme di espressione artistica e sociale. Le fotografie di Minotti degli artisti e del pubblico raccontando storie di impegno politico, sociale e culturale prima del crollo di ogni utopia. La mostra anticipa la seconda edizione di Le notti dell’underground – Il festival di Re Nudo che si terrà dal 5 all’8 giugno sempre alla Fabbrica del Vapore. Quest’anno il festival si propone di esplorare il tema “Change Engagement”, invitando giovani artisti a esprimere e implementare cambiamenti concreti nella società contemporanea.
La storia del Festival del Parco Lambro è una sorta di crescendo destinato a una brusca cesura. Tutto comincia nel 1970 nella periferia di Milano. Qui nasce l’idea di Re Nudo, rivista underground fondata da Andrea Valcarenghi che in poco tempo diventa il punto di riferimento per una generazione di giovani rivoluzionari (una rivoluzione politica, artistica, sociale, umana riguardante musica, droghe, sessualità, diritti delle donne, ecc). Prendendo spunto dai grandi festival esteri a base di pace, amore & buone vibrazioni, Valcarenghi e i suoi mettono in piedi nel settembre del 1971 il primo raduno firmato Re Nudo. Vista la dimensione agreste delle esperienze d’oltreoceano (o d’oltremanica) il raduno prende vita nelle campagne di Ballabio, vicino a Lecco. Più che di un festival si tratta di un happening comunitario, gratuito, libero, senza biglietti né polizia. Non c’è nemmeno un palco, né una scaletta, ma un forte desiderio di autogestione totale, fuori dai confini della società capitalista. Risultato: circa 10 mila persone montano le proprie tende per assistere agli spettacoli dei musicisti. Tra di essi spiccano nomi di Claudio Rocchi, Donatella Bardi e Garybaldi.
Vista la buona riuscita della prima edizione l’anno successivo si bissa. Il secondo festival si tiene a Zerbo nei dintorni di Pavia dal 16 al 18 giugno 1972: un evento epocale per l’Italia dell’epoca. Sono circa 30 mila le persone che raggiungono lo spiaggione sul fiume dove si svolge la manifestazione. Oltre alle esibizioni musicali, il festival ospita una cucina macrobiotica e la performance di un gruppo di freak proveniente dagli Stati Uniti. Carnet musicale più ricco con, tra gli altri, Amon Düül, Banco, Capsicum Red, Francesco Guccini, Jumbo, Giovanna Marini, Claudio Rocchi, Stormy Six, Nuova Idea e gli esordienti de Il Pacco (con dentro Eugenio Finardi e Alberto Camerini).
L’evoluzione continua: il terzo festival organizzato da Re Nudo si tiene dal 15 al 17 giugno 1973 all’Alpe del Vicerè, nel comune di Albavilla, sopra Como. Le autorità, preoccupate per l’ordine pubblico, revocano all’ultimo momento le autorizzazioni concesse per l’uso del suolo pubblico e per l’allaccio a luce e acqua. Si decide quindi di annullare il festival. Ciò però non ferma il popolo della controcultura: migliaia di giovani che hanno già lasciato le città, in cammino verso le alture comasche, giungono ugualmente sul posto. Pur mancando palco e impianto audio, la musica risuona lo stesso, in forme spontanee. I gruppi si adattano, suonano in mezzo alla gente con gli strumenti acustici. Ma non tutto è perduto: l’ultimo giorno arriva Franco Battiato portando con sé un generatore di corrente messo a disposizione del festival. E lì scatta la vera festa: Aktuala, Area, Claudio Rocchi, Acqua Fragile, Come le Foglie, Yu Kung, Latte e Miele, Ivan Della Mea, Lucio Dalla, gli inglesi Atomic Rooster e lo stesso Battiato garantiscono ore di godimento. Accanto alla musica, il festival si apre inoltre al teatro. Una presenza su tutte: quella di Dario Fo, in scena col suo Mistero buffo.
Visto il successo di questa edizione il collettivo di Re Nudo decide di tentare il colpaccio: portare il festival nel cuore di Milano, all’interno degli spazi del Parco Lambro, chiaramente senza alcun permesso. Dal 13 al 16 giugno 1974, il parco diventa il cuore pulsante dell’utopia giovanile: 100 mila persone si accampano tra gli alberi e le colline per cinque giorni di musica, arte, politica e vita collettiva. Il festival assume da questo momento una nuova identità e viene ribattezzato Festa del proletariato giovanile.
Ecco una selezione di immagini dalla mostra che saranno saraccolte nel catalogo Parco Lambro – Si giocava a fare Woodstock, con prefazione di Eugenio Finardi. «L’edizione del Parco Lambro del 1974, rappresentò per me che avevo iniziato a fotografare pochi mesi prima l’occasione di realizzare il primo reportage: un’occasione unica e irrepetibile per ritrarre quei musicisti che ascoltavo alla radio o sui dischi», ricorda Fabio Maria Minotti. «Seguii poi anche le successive edizioni cercando di riportare momenti di quel mondo musicale, e non solo, che hanno caratterizzato quel periodo».
Jenny Sorrenti, 1974

Foto: Fabio Maria Minotti
Una trasognata Jenny Sorrenti, sorta di Grace Slick partenopeo/gallese, sul palco con i suoi Saint Just nell’edizione 1974. Quell’anno vede l’ingresso di forze nuove nel festival: Lotta Continua si affianca agli organizzatori fornendo supporto logistico e politico, mentre Gianni Sassi, la mente lucida e provocatoria della Cramps trasforma il festival in qualcosa di più strutturato, senza snaturarne l’anima. Il risultato è un cartellone musicale di grande pregio: Battiato, Alan Sorrenti, sua sorella Jenny con i Saint Just appunto, Area, PFM, Pino Daniele, Acqua Fragile, un giovane Angelo Branduardi e artisti stranieri come Peter Hammill, Hawkwind e Pink Fairies.
Demetrio Stratos, 1974

Foto: Fabio Maria Minotti
Gli Area erano il simbolo della Festa del proletariato giovanile: estremi, liberi, scevri da ogni compromesso. Demetrio Stratos (fotografato nel 1974), Fariselli e gli altri non temevano di scuotere il pubblico con suoni urticanti e sperimentali. La via alla rivoluzione e l’apertura delle menti sarebbe stata agevolata anche dalla comprensione e assimilazione dei linguaggi più ostici.
Franco Battiato, 1974

Foto: Fabio Maria Minotti
Battiato nel 1974, capellonissimo, alle prese con i sintetizzatori in un uno dei suoi happening sonori. Si rifiutava di eseguire brani dai suoi dischi, preferiva dare al pubblico l’inaspettato: improvvisazioni radicali, suoni in libertà, musica inedita che sarebbe germogliata e appassita nel giro di un’esibizione. È la consacrazione. Peccato che la presenza della Cramps, simbolo di un legame – per quanto alternativo – con la macchina discografica scateni le ire di Stampa Alternativa. L’underground milanese si divide: da un lato c’è chi cerca un dialogo con strutture capaci di amplificare il messaggio, dall’altro chi difende la purezza originaria dell’autogestione e del rifiuto di ogni compromesso.
Eugenio Finardi, 1975

Foto: Fabio Maria Minotti
Eugenio Finardi un anno prima di Musica ribelle, che diventerà manifesto del movimento. È la seconda edizione dal 29 maggio al 2 giugno 1975. È un momento di passaggio, in cui le contraddizioni della controcultura italiana iniziano a manifestarsi. Altre 100 mila persone tornano a popolare il parco, questa volta accedendo tramite una tessera a prezzo popolare, mentre un servizio d’ordine regolamenta per la prima volta gli ingressi. Rispetto all’anno precedente, il sostegno delle forze politiche si allarga e si moltiplica: a Lotta Continua e a Sassi si affiancano la Federazione Giovanile Socialista, Autonomia Operaia, gruppi anarchici e i Circoli Proletari Giovanili. Il festival diventa una galassia di sigle, bandiere, militanze e linguaggi. Milano risponde in massa, ma l’energia spontanea delle prime edizioni pare sempre più un ricordo. Musicalmente, però, è l’apice: Area, Finardi, Bennato, De Gregori, Battiato, la PFM, Antonello Venditti e Giorgio Gaber offrono performance memorabili.
Francesco De Gregori, 1975

Foto: Fabio Maria Minotti
In mezzo a tanto clangore sperimentale, nel 1975 arrivano le canzoni di De Gregori, fresco dal successone di Rimmel. Deve avere rischiato grosso, le lame affilate di Stampa Alternativa erano pronte ad affettarlo. Per fortuna non successe nulla, ma da lì a un anno se la sarebbe vista brutta al Palalido.
Edoardo Bennato, 1975

Foto: Fabio Maria Minotti
In manifestazioni del genere poteva mancare un cantautore incazzato? Certo che no ed ecco Bennato dylaneggiare nel 1975 (anche nel look). Sono gli anni di Meno male che adesso non c’è Nerone ed Edoardo non la manda a dire.
Don Cherry, 1976

Foto: Fabio Maria Minotti
Cosa c’era di più open minded di un bell’happening jazz aperto a 360 gradi su diverse influenze e culture? Don Cherry e la sua colorata band promettevano un viaggio che dalle radici dell’Africa nera si apriva alle più raffinate contaminazioni.
Il pubblico, 1976

Foto: Fabio Maria Minotti
La pioggia è una caratteristica di molti festival, ma anche sotto gli ombrelli la voglia di fare comunità, di condividere e di confrontarsi non manca. Sarà l’ultimo scorcio di gioia prima del disastro. In quella qualità musicale così alta c’è qualcosa che non torna: la distanza tra il palco e la platea si fa evidente. I musicisti sono le star, il pubblico rimane sotto il palco. E la cosa infastidisce coloro che cercavano l’abbattimento di ogni barriera.
Patrizio Fariselli, 1976

Foto: Fabio Maria Minotti
Nel marasma paranoico dell’edizione 1976 un barlume di luce: gli Area danno vita a una jam session che coinvolge musicisti e gente a caso del pubblico, desiderosa di dare il suo contributo. Le tensioni si sciolgono, nasce un grande e gioioso casino. Ma è proprio nell’edizione che si tiene nei giorni tra il 26 al 29 giugno 1976 che il sogno si sgretola definitivamente. L’atmosfera è completamente mutata. Migliaia di giovani tornano ad affollare l’area che era stata teatro di speranze collettive e sogni lisergici, ma vi trovano degrado, assenza di servizi essenziali, tensioni sempre più accese. Giorno dopo giorno il festival è squassato da rabbia, droga, disagio sociale e aggressività diffusa. È un momento che più di ogni altro resterà impresso nell’immaginario collettivo, non per la qualità della musica o per l’intensità dei dibattiti, ma per le immagini sconvolgenti che lo rappresentano. Quelle catturate dal regista Alberto Grifi nel film che documenta in presa diretta i frigoriferi assaltati, i polli congelati usati come palloni da calcio, le aggressioni fisiche verso femministe e omosessuali, i bastoni in mano al servizio d’ordine. Sul palco Don Cherry, Finardi, gli Area, Pino Masi, Claudio Rocchi e il Living Theatre cercano di stemperare l’atmosfera paranoica. Le registrazioni live finiranno su un doppio album intitolato Parco Lambro 1976, vera reliquia sonora, residuo di una stagione alla deriva. Le condizioni sociali sono mutate, la rabbia giovanile è diventata cieca e disordinata, il raduno collettivo si trasforma in sfogo incontrollato. Il festival muore tra i polli rubati e le sirene della polizia.
L’alba, 1976

Foto: Fabio Maria Minotti
L’ultimo risveglio sulle macerie della controcultura. La fine di un sogno. Nelle due edizioni successive Re Nudo tornerà alle origini: niente musica, niente palchi, solo stare insieme e coltivare stili di vita salutisti, in linea con la svolta mistica della rivista. Guello nel 1977 e Alpicella nel 1978 sono i luoghi della ritirata, del ritorno alla terra, della ricerca interiore. Questo fino al ritorno di interesse degli ultimi anni, alle celebrazioni e alle nuove iniziative che una sempre attiva Re Nudo non manca di mettere in campo. Ma i festival organizzati tra il 1971 e il 1976 resteranno testimonianze di momenti di vera libertà creativa.