Dire qualsiasi cosa su Post mortem è innanzitutto un esercizio di equilibrio e autocontrollo, necessari per trattare come un disco qualunque uno dei lavori più attesi nella storia recente della musica italiana. Si tratta innanzitutto di distinguere le impressioni correlate all’attesa e al culto di Niccolò Contessa sviluppato negli ultimi nove anni – la legge di Nanni Moretti per cui a volte si viene maggiormente notati quando non si è presenti – e quelle derivate dall’ascolto vero e proprio del disco. Un avviso ai naviganti che fortunatamente è facilitato dalle scelte artistiche dello stesso Contessa: i quasi dieci anni da Aurora si percepiscono fin dal primo secondo del disco, e chiunque decida di approcciarsi a questo lavoro dovrebbe per prima cosa togliersi quelle canzoni dalla testa, così come qualsiasi precedente lavoro de I Cani, non solo per formulare un giudizio meno viziato, ma anche per non rimanere delusi.
Innanzitutto, rispetto ad Aurora, ma anche a buona parte della tradizione musicale italiana correlata, Post mortem non è un disco che ruota attorno alle canzoni. Non c’è traccia della cantabilità pop/cantautorale che aveva reso grande il cantautore nel 2016, e che proprio in quegli anni portava a compimento il suo percorso di imposizione sulle varie correnti interne dell’indie italiano. Non c’è nemmeno traccia, manco a dirlo, degli altri due dischi (Il sorprendente album d’esordio de I Cani e Glamour); per rintracciare la linea di parentela più diretta nell’ambito della musica italiana bisogna forse risalire agli anni Novanta di Bluvertigo e Subsonica, ad eccezione delle (auto) reminiscenze di Tutti Fenomeni in Buco nero e Nella parte del mondo in cui sono nato.
Per il resto, le fonti più tangibili all’interno di questo lavoro, che in ogni caso ha un suono molto ricercato e personale, vanno ricercate all’estero. Per quanto riguarda la scrittura, l’approccio al cantato e la composizione da un punto di vista armonico, Post mortem ricorda forse di più la tradizione lo-fi americana di un Elliott Smith o più di recente di un Perfume Genius, piuttosto che qualsiasi cantautore italiano contemporaneo e del passato: melodie semplici, timbro vocale flebile valorizzato da un’effettistica improntata alla saturazione, preziose imperfezioni e appoggi armonici ripetitivi ma ricercati e rari, per altro molto funzionali al concept del disco. La ricorrenza di progressioni cicliche attorno a un unico accordo e aperture modali che ricordano quasi la tradizione della musica liturgica (Felice, Post mortem) rievocano anche armonicamente l’idea della morte, contribuendo alla forza del disco come opera di insieme.
Sempre in funzione di questa idea, un’altissima percentuale della massa sonora del disco è affidata alla sezione ritmica, con bassi e batterie protagonisti assoluti – in diversi momenti del disco addirittura unici – e scritti, composti e trattati da un punto di vista di sound design con una cura e una consapevolezza che raggiungono livelli maniacali e forse inediti nella produzione de I Cani e che tessono un’atmosfera lugubre e incalzante, approccio che ricorda una certa dark wave gotica anni ’80 di gruppi come Bauhaus o i Joy Division di Closer, per il peso affidato alle linee di basso e per il modo di suonare le batterie, soprattutto nella seconda parte del disco. Per certi versi, liberandosi del peso delle grandi canzoni memorabili, Contessa ha fatto emergere come mai prima nella sua produzione solista la sua vocazione di produttore, arrangiatore, amante del suono e compositore, con il contributo di Andrea Suriani per la produzione e per mix e master.
A scanso di equivoci, è inevitabile che le sfumature più inconsce del modo di scrivere di Niccolò Contessa emergano comunque, e in alcuni brani come Colpo di tosse o Madre si percepisce in maniera più evidente la firma storica del Contessa autore: la differenza rispetto a qualsiasi lavoro pubblicato prima sta proprio nel peso attribuito a questo aspetto nell’economia del disco. Tendenza sottolineata anche dall’inusuale scelta di mix: le voci sono “politicamente” basse, spesso ai limiti dell’intelligibilità, in netta contrapposizione con le rese contemporanee della musica italiana in fatto di missaggi, e molto più imparentate con vari sottogeneri del rock indipendente e alternativo in voga negli anni Novanta. Una scelta che, di nuovo, si presta a essere letta in termini di funzionalità rispetto al concept del disco nell’insieme, oltre che a un semplice fatto di gusto: Post mortem, per tematiche trattate e per struttura, è un disco di disincanto e svuotamento, di rinuncia allo scioglimento dei grovigli e delle contraddizioni, appunto di perdita della voce intesa come deposizione delle armi nello stallo tra sé stessi e la propria inadeguatezza rispetto al mondo.
Il brano di apertura, Io, è una canzone angosciante per chiunque abbia sperimentato l’autocoscienza dei propri limiti, il disarmo rispetto all’autosabotaggio volubile e la perdita di fiducia rispetto alle proprie stesse promesse, e riesce perfettamente a fornire le istruzioni emotive per affrontare il resto dell’album, che in tutte le sfaccettature conferma la capacità di Contessa di cogliere lo spirito della sua generazione o forse più che altro di un certo tipo di carattere, nonostante il passare degli anni. Alcuni esempi: Felice disintegra l’idea stessa di felicità, che con il passare degli anni tende ad assomigliare alla sindrome di Stoccolma rispetto alle psicosi e alle rinunce; Carbone è l’amore stanco figlio degli anni e dell’abitudine. In generale il disco è pieno di quotidianità, tratto – questo ultimo – in comune con l’indie delle origini, ma molto più maturo e totalmente privato di poesia e di feticizzazione, in una lunga sfilata di piccole inettitudini che ricorda la letteratura di inizio Novecento piuttosto che qualsiasi altro precedente musicale, o se proprio un Fantozzi veramente tragico e senza nessuno strato di ironia o di voglia di ridere.
Tornando infine al dilemma iniziale: Post mortem, senza stilare una classifica dei dischi de I Cani, è probabilmente il lavoro più complesso, internazionale, originale e raffinato dell’intera storia artistica di Niccolò Contessa. Proprio per questo potrebbe deludere qualcuno, ma con più di una mano sul fuoco l’impressione è che il tempo possa consacrare questo disco come il lavoro più rilevante – anche se non necessariamente il più influente – de I Cani.