Arrivo sotto la piramide luminosa del Cocoricò verso l’una di notte. C’è una lunga fila di macchine che punta al parcheggio e dei ragazzini che consumano furtivamente dei beveroni appena prima dell’ingresso. Per entrare dobbiamo parlare con il ragazzo delle liste, poi la ragazza delle liste, e infine il buttafuori, al quale delle liste non importa nulla, perché il suo compito è quello di controllare che non vengano introdotti oggetti non permessi all’interno del locale. Io in tasca ho solo il cellulare e dei tappi per le orecchie. In Nord Europa sarei nella norma, in Italia sembro solo un anzianotto da serata con un problema di acufene, essendo l’unico a indossarli in pista. Il buttafuori mi guarda con disinteresse. Tant’è.
Non essere mai stato al Cocco in 35 anni di vita e quasi 20 da dj (sì, faccio subito coming out così potete capire meglio il taglio di questa esplorazione culturale) era una lettera scarlatta che volevo togliermi di dosso per rientrare nelle conversazioni dei vecchi clubber che ricordano con la lacrimuccia chimica gli anni d’oro dei ’90 della storica discoteca della riviera adriatica. Sarà per la scelta di costruire la main room sotto una piramide di vetro a conferire un senso quasi divinatorio a questo locale, ma aver mancato un pellegrinaggio alla Mecca della musica dance mi sembrava un comportamento da cattivo fedele. E almeno una volta nella vita bisogna recarsi alla Mecca.
È il weekend di Pasqua – così per continuare a mischiare simbologie religiose – che da queste parti significa Mutonia Easter Experience, ovvero la joint venture tra il Cocco e la Mutoid Waste Company, la comunità anarchica di artisti giunta in Romagna nel 1990 a bordo di stravaganti camion e mezzi di trasporto, e da cui è nata Mutonia: un villaggio artistico, una TAZ lunga 35 anni, «un luogo libero per persone libere». Un villaggio, certo, ma anche un parco aperto a tutti i visitatori – ora al centro della cronaca a causa di una nuova ingiunzione di sfratto – dove i mutoidi dedicano la loro vita all’arte del recupero, con un particolare fetish per i rottami di automezzi. La loro Mutonia è piena di opere a cielo aperto che, nelle ultime tre Pasque, sono diventate scenografia del Cocoricò, tra mostri metallici e totem retro-futuristici che troviamo dentro e fuori dal locale. A cascata, l’estetica post-apocalittica è arrivata anche allo staff, negli outfit e nel trucco, anche questo preparato da questi particolari vicini di casa, a metà tra Mad Max e uno strano carnevale. Essendo due realtà altre rispetto alla normalità del territorio di costiera, vedere un supporto ancora oggi simbiotico («quando nei ’90 andavamo al Cocoricò non pagavamo mai da bere perché eravamo così strani che a loro piaceva averci lì in giro», ricorda Debs Wrekon, una mutoide dal giorno zero) è rincuorante, soprattutto in un momento in cui il governo si è di nuovo messo di traverso verso una comunità amata dal territorio circostante (anche da sindaci o giunte) e che ha trasformato la riva di un fiume in luogo di un altro (differente) pellegrinaggio culturale.

Il Cocoricò con le opere della Mutoid Wasted Company. Foto: press

Il Cocoricò con le opere della Mutoid Wasted Company. Foto: press
Poco dopo l’una la Piramide (qui con la P maiuscola) è già piuttosto piena e, nelle prossime due ore, quasi raddoppierà fino a completare un sold out annunciato nel pomeriggio. Tra outfit più canonici (la maglietta monocolore o la camicia) e altri più espliciti (in varie gradazioni di nudismo), c’è chi in adorazione balla rivolto ai dj e chi è intrigato dalle infinite possibilità che una notte può regalare. Nonostante la dimensione, e la quantità di testosterone giovanile, noto con piacere che non c’è il clima teso da discoteca – proprio Discoteca, e non Club, differenza spesso complicata da individuare ma che concettualmente racconta di due ambienti differenti: uno più popolare e commerciale, l’altro più corporale e intellettuale. Così, mentre sbircio nelle varie sale – la Piramide, Titilla, la T-Room e Ciao Sex – inizio a domandarmi: ma cos’è la discoteca oggi?
Il Cocoricò è fiero di definirsi discoteca, e lo sottolinea con il primo museo di arte contemporanea all’interno di un club: il MUDI, Museo Discoteca. Alle pareti, nei vari spazi, troviamo infatti oggettistica, ritratti, sculture che vogliono celebrare e ricordare la lunga storia del Cocco, e non solo. E mentre il clubbing si trincera dietro l’inclusività esclusiva (l’idea dietro alla selezione feroce del Berghain), il Cocoricò rimane apertissimo (nei limiti delle possibilità economiche). Non ci sarà il pubblico da PhD del clubbing, ma l’ambiente umano mantiene le sue stravaganze, come da tradizione del Cocco. Per il giovane pubblico, infatti, è un’occasione per sperimentare, per spingersi un po’ più in là in un ambiente safe, differente dalla consueta discoteca di provincia. È un accesso, che può essere più o meno indagato successivamente, volta dopo volta, nella notte e nell’elettronica. È come entrare in un castello: questo non farà di te un medievalista, ma la storia in cui è immerso il luogo potrebbe farti scattare qualche scintilla. Certo, qui non ci sono le spade, gli elmi, gli scudi, ma i costumi preparati dai mutoidi fanno comunque un buon lavoro.
Non da meno l’occasione di ballare/ascoltare dj internazionali come Amelie Lens, Danny Tenaglia, Seth Troxler (per citare dei nomi in programma questa stagione), o artisti più laterali che, nelle salette più piccole come la T-Room o Titilla, possono raccontare storie differenti dall’hard techno o dalla musica dedita al drop, è una buona premessa per entrare a contatto con il mondo dell’elettronica, del ballo, dei corpi. In un periodo storico in cui si parla della morte del clubbing nelle nuove generazioni, il Cocoricò sembra raccontare una storia differente. Non sarà più la discoteca dell’avanguardia, ma rimane un eccezionale portale d’ingresso in quello che in un certo passato chiamavamo magnificamente il mondo della notte. Non sarà più il posto più giusto per i più giusti, ma anche solo ripensare alla storia del Cocco (magari recuperando il documentario Cocoricò Tapes) resta un possibile stimolo in un momento storico soffocato da leggi anti-rave e decreti sicurezza al limite della follia.

L’interno della piramide al Cocoricò. Foto: press
Mentre ballo rilassato in Titilla, la sala all’aperto più groovy, penso che anche se la discoteca non ha mai davvero un’età, superati i 30 è normale e giustificato sentirsi vecchi, in alcuni momenti fuori posto. C’è sempre la paura che qualcuno ci dia del lei, come succede oramai quando scendiamo le scale del nostro condominio, ma qui magari per chiederci un accendino o dell’MD: «Signore, lei per caso ha dell’MD da vendere?». Una paura che può avverarsi, sarà il fascino delle occhiaie da lavoro. Nonostante questo, il Cocco, anche da rinnovato, mi fa sentire il suo fascino. L’ho percepito all’ingresso quando, nel caotico sciamare al di fuori delle entrate, scorgere la piramide illuminata a ritmo di beat mi ha emozionato. Sapete quell’emozione mista tra eccitazione e paura di quando andavate a ballare per le prime volte la notte da teenager? Ecco, la stessa. E in un attimo l’età era tornata puramente un numero (ma ahimè i capelli non erano tornati, ho controllato). Che un locale, si voglia per la scelta artistica o per la sua storicità, riesca ancora nell’impresa di emozionare sulla soglia di entrata è qualcosa da non sottovalutare, qualcosa che dentro di noi annulla la differenza tra giovane e vecchio, tra musica giusta e musica sbagliata, tra discoteca e clubbing.
Sapere che c’è un locale in Italia che anche solo per la sua presenza racconta una storia di controcultura, proprio come succede poco distante, a Mutonia (anche qui lontana dagli splendori iniziali degli anni ’90), è qualcosa a cui dovremmo dare più importanza, attenzione, e soprattutto rispetto. Long live the Cocco.