A quanto pare la libertà d’espressione è sacra per i Kneecap, ma sacrificabile per Jonny Greenwood. In tempi di guerra la musica diventa campo di battaglia e la difesa appassionata dei diritti di chi la pensa come noi non c’impedisce di ignorare gli stessi diritti di chi percepiamo come avversario. Chiunque abbia detto, a quanto pare non Voltaire, che «non sono d’accordo con quel che dici, ma darei la vita affinché tu lo possa dire» era un povero illuso.
La comunità musicale “alternativa” s’è mobilitata per difendere il trio rap di Belfast sotto attacco sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito per gli slogan mostrati al Coachella e per le frasi dette in passato in concerto, quando i tre hanno esaltato Hamas ed Hezbollah e hanno invitato il pubblico a uccidere i deputati conservatori perché «l’unico Tory buono è un Tory morto».
Fuori della retorica del palco, dove i toni sono accesi e certe provocazioni dovrebbero essere ammesse se il contesto contasse ancora qualcosa, i Kneecap hanno fatto marcia indietro sul supporto ad Hamas ed Hezbollah, deludendo alcuni fan per i quali la distruzione dello Stato di Israele è auspicabile o per lo meno la difesa dei diritti dei palestinesi può passare legittimamente dalla lotta armata. I tre hanno condannato «ogni attacco ai civili, senza eccezioni», evocando ma evitando di citare esplicitamente i massacri del 7 ottobre 2023. Hanno anche chiesto scusa alle famiglie di Jo Cox e di David Amess, parlamentari del Regno Unito assassinati per motivi politici, per poi contrattaccare scrivendo che «alcuni frammenti video volutamente decontestualizzati sono stati strumentalizzati e presentati come appelli all’azione».
È una giusta battaglia. In ballo c’è la libertà d’espressione, visto che alcuni conservatori britannici hanno chiesto l’esclusione del gruppo dai festival estivi. Il fatto che l’antiterrorismo del Regno Unito stia indagando, come pare, sulle parole dette dal trio è un fatto allo stesso tempo pericoloso e ridicolo tanto quanto i file che l’FBI raccoglieva su John Lennon negli anni ’70. I Massive Attack hanno scritto che la notizia non sono i Kneecap, ma «il silenzio, l’acquiescenza e il sostegno ai crimini contro l’umanità». Decine d’artisti hanno sottoscritto una lettera della Heavenly Recordings dalle intenzioni ferme e dal carattere moderato. È così riassumibile: il fatto che si condividano o meno le idee dei Kneecap è irrilevante, siamo tutti chiamati a salvaguardare il loro diritto a esprimersi.
Non si registrano per ora prese di posizione simili a favore di Jonny Greenwood dei Radiohead e dell’israeliano Dudu Tassa a cui è stato negato quello stesso diritto. I due e altri musicisti e cantanti provenienti da Siria, Libano, Kuwait e Iraq vanno in giro a suonare le canzoni di Jarak Qaribak (che significa più o meno: il tuo vicino è un tuo amico). O meglio, andrebbero in giro perché due concerti previsti a giugno a Bristol e Londra sono stati cancellati. Secondo la Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, che fa parte del movimento Boycott, Divestment and Sanctions (PACBI-BDS), la cancellazione è il risultato di pressioni pacifiche. Secondo Greenwood e Tassa, invece, i locali che avrebbero dovuto ospitarli sono stati oggetto di minacce tali da mettere in pericolo la sicurezza di musicisti, lavoratori, pubblico.
Frustrated that their well-documented complicity in artwashing genocide has led to the cancellation of their UK concerts, Jonny Greenwood and Dudu Tassa have turned to unsubstantiated claims, attempting to divert attention from this ongoing complicity.
— PACBI – BDS movement (@PACBI) May 6, 2025
Secondo la campagna per il boicottaggio culturale di Israele, Greenwood e Tassa farebbero whitewashing e artwashing del genocidio, userebbero cioè la musica per sviare l’attenzione o addirittura coprire i crimini compiuti dall’esercito israeliano. I due, così come i Radiohead in passato, si sono esibiti più volte in Israele, sordi alle richieste di boicottaggio culturale ed economico. Lo hanno fatto anche di recente, durante l’invasione a Gaza, suonando al Barby. Proprio l’esibizione nel club storico di Tel Aviv, che per la cronaca di recente ha cambiato sede, sarebbe per gli attivisti di PACBI-BDS prova della complicità dei due artisti. Il locale, scrivono, è «noto per aver celebrato il massacro dei palestinesi nella Striscia di Gaza assediata dalle forze armate israeliane distribuendo magliette con la scritta “Fanculo, veniamo da Israele” ai militari coinvolti nei massacri del 2014 in cui hanno perso la vita più di 2200 palestinesi, tra cui 500 e passa bambini».
Greenwood evidentemente non vuole la cancellazione dello Stato di Israele, e questo lo qualifica come sionista, ma non risulta si sia mai espresso esplicitamente a favore dell’invasione di Gaza, meno che mai ha lodato i massacri di civili. È stato visto a una manifestazione in Israele in cui si chiedevano il rilascio degli ostaggi nelle mani di Hamas e nuove elezioni nel Paese. Il significato del progetto con Tassa sta nella convivenza e nella miscela di tradizioni diverse provenienti dal Medio Oriente, nell’unione pacifica e dichiaratamente apolitica di musicisti e musiche arabe ed ebraiche, scritte da autori di religione musulmana, ebrea e cristiana. Quando lo scontro si radicalizza, la voce di chi è moderato e chiede pace e integrazione senza assumere una posizione politica netta viene considerata controproducente, ipocrita, complice. Forse non a caso Greenwood nota che il suo progetto con Tassa è stato preso di mira sia da destra, ovvero da chi lo considera troppo inclusivo, sia da sinistra, da chi pensa che sia solo un modo per «assolverci dai nostri peccati collettivi».
— Jonny Greenwood (@JnnyG) May 6, 2025
Oltre a non avere aderito singolarmente e coi Radiohead alla campagna di BDS, Greenwood ha un altro grande problema agli occhi di chi ne chiede la cancellazione: è sposato con un’israeliana orgogliosa d’esserlo e che ha un nipote morto servendo nell’IDF. Si chiama Sharona Katan, è un’artista e non manca di difendere le ragioni del suo Paese dopo il 7 ottobre. Accusata in un articolo del Guardian di essere a favore della campagna militare israeliana, l’anno scorso si è difesa scrivendo su Haaretz di essere «a favore della pace», aggiungendo che «non dovrebbe esserci bisogno di dirlo, eppure eccoci qua». Nell’articolo Katan racconta la storia della sua famiglia, difende gli israeliani dall’accusa di essere colonialisti («siamo profughi del colonialismo, degli infiniti pogrom e dell’odio antiebraico in Europa e in Medio Oriente»), punta il dito contro la crescente ostilità verso gli ebrei nel Regno Unito. «Il 7 ottobre ha dato il via alla guerra contro Hamas a Gaza», scrive ribadendo un punto chiave di chi difende le ragioni di Israele, indipendentemente dal giudizio sul carattere drammaticamente sproporzionato della risposta. Aggiunge che «l’uccisione di civili in questa guerra non è tollerabile, sono vicina a tutte le vittime innocenti di questo lungo conflitto».
Tassa è nipote di Daoud Al-Kuwaity (1910–1976), compositore figlio di ebrei Mizrahì emigrati dall’Iraq al Kuwait e da lì a sua volta emigrato col fratello Saleh in Israele nel 1951, diventando cittadino israeliano. Quando l’anno scorso si è trovato coinvolto in una polemica simile, Greenwood lo ha ricordato aggiungendo che le composizioni dei fratelli Al-Kuwaity «sono ancora oggi colonne portanti della programmazione radiofonica in tutta l’area araba, anche se purtroppo la loro ebraicità non viene menzionata».
Fa un certo effetto vedere Tassa cantare alla fine del 2023 di fronte ai soldati dell’IDF che agiscono su mandato del governo di Benjamin Netanyahu, sul quale pende un (vano) mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale. Non si capisce però perché inneggiando ad Hamas i Kneecap non avrebbero fatto artwashing dei crimini del 7 ottobre, degli stupri, dei massacri. Il punto è che la libertà d’espressione è una, non la si può difendere o negare a seconda delle posizioni e delle convenienze. Lo scrivono Greenwood e Tassa dicendosi delusi dal fatto che chi ha difeso la libertà d’espressione dei Kneecap è «tra i più determinati a limitare la nostra».
Si possono fare appelli a non andare a vedere Greenwood e i Radiohead, se mai questi ultimi tornassero a suonare in giro per il mondo. Si può cercare di convincerli che stanno sbagliando (Roger Waters ci ha provato senza successo con Thom Yorke). Se si impedisce loro di esibirsi, si diventa come Sharon Osbourne che dopo il “Free Palestine” al Coachella ha chiesto il ritiro del visto di lavoro dei Kneecap negli Stati Uniti. Anzi, peggio.
Se nessun artista in vista sta difendendo Greenwood è perché questa non è una battaglia sulla libertà d’espressione, ma una guerriglia tra indignati in cui è lecito silenziare la voce di chi viene considerato un avversario. Mi viene un mente una canzone d’una trentina d’anni fa di Fabrizio De André che c’entra e non c’entra. S’intitola Disamistade e racconta una faida tra due famiglie costrette alla convivenza in un piccolo paese. La si può leggere come metafora di ben altri conflitti. Viene in mente in particolare una massima contenuta nel testo, quella secondo cui “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. Il doppio standard applicato a Kneecap e Greenwood ci dice che anche i diritti degli altri sono diritti a metà.