Il live di Lucio Corsi è una favola piena di difetti, proprio come il mondo che vogliamo | Rolling Stone Italia
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Il live di Lucio Corsi è una favola piena di difetti, proprio come il mondo che vogliamo

Chitarre che si scordano e aste del microfono che cadono, ma anche l'omaggio incompreso a Randy Newman e il teatro nel teatro. A Roma per il suo primo tour post-Sanremo abbiamo capito che a parte il rock'n'roll e il boogie stiracchiato da festa delle medie, di Lucio Corsi non siamo disposti a perdere le sfumature

Il live di Lucio Corsi è una favola piena di difetti, proprio come il mondo che vogliamo

Lucio Corsi

Foto: Francis Delacroix

Il primo tour di Lucio Corsi dopo Sanremo, che annuncia un’estate all’aperto nei festival, lo vediamo all’Atlantico di Roma. Capannone sold out, buono per provare a capire qualcosa del futuro della nuova icona pop italiana dal volto umano (con la maschera bianca addosso, come insegnavano i maestri degli anni ’70). Cartone animato a passo uno, tv dei ragazzi, nostalgia del cantautore, la ballotta degli amici, racconto maremmano di Niccolò Ammaniti con quell’idea del “giro del morte” in Altalena Boy (arriva nel finale, quello che regala la morale alla favola), prova di coraggio tra maschietti solitari. Due ore di spettacolo, tutte le hit, Volare e Maremma, anche Il lupo (con il leggio perché non la ricorda), oltre a La lepre, dal primo album.

“In un mondo senza difetti/ dove gli umani erano gli unici assenti” (ognuno aggiunga nomi e fatti, l’autore della canzone non ama parlare di politica) di fronte all’Astronave Giradisco, glam space age con qualche cambio d’abito in scena come ai tempi di Renatino Zero e del suo Carrozzone, però ma senza la solennità kitsch di quei tempi. E un sacco di difetti. Proprio come il mondo che vogliamo. I fili dei microfoni si intrecciano e probabilmente – come nella canzone che avrebbe potuto scrivere – si riuniranno da qualche parte al centro della terra. Le chitarre si scordano facilmente, i jack sfrigolano, gli altoparlanti fischiano. Cadono le aste dei microfoni che sono già caduti prima (di notte nei magazzini, come gli alberi nei parchi – questa è una poesia di Lucio Corsi, recitata a sorpresa – andranno a fare due passi come trampolieri?).

Foto: Francis Delacroix

Che l’idea di portare sul palco due chitarristi elettrici col drive a mille derivi dal live di Lou Reed con Ian Hunter (1974)? Quadruplicare le chitarre all’unisono con l’entrata in scena a metà spettacolo di Tommaso Ottomano e Francis Delacroix – teatro nel teatro – si ispirerà invece all’allegro casino della Rolling Thunder Revue di Bob Dylan 1975 (rivista in un documentario super di Scorsese)? È questione che potrebbe anche appassionare i palati fini. Non da oggi Corsi è di quelli bravissimi a frugare tra le balle, le magliette e camicette dei mercatini dell’usato e uscirne sempre con qualcosa di impagabile, introvabile, che tu non avevi capito. Ma la questione è scivolosa. Rischiosa lo fu già per Dylan figurarsi, che aveva Mick Ronson e Roger McGuinn, cioè un cortocircuito da fantascienza letteralmente. Rischio concreto di pallida imitazione degli assoli di Vasco, che erano già fumetto negli anni ’80. Velleità da sala prove di periferia. Amen.

Venghino signori. Tutti con le valigie in mano, pronti a partire per lo spazio. Nel dubbio, chiamate Houston, Musk non sappiamo chi sia. Adesso che al pubblico di coetanei che Lucio Corsi l’hanno scoperto e conosciuto “prima” si sono aggiunti i quadretti familiari di bambini e bambine in spalla a genitori stanchi ma felici di cantare Volevo essere un duro e Volare oh oh va benissimo, al netto di qualche dubbio nella direzione da prendere: se viaggio senza ritorno per salvare il salvabile (il rock, la canzone d’autore, la musica suonata con gli strumenti veri, l’infanzia, la provincia) oppure il lampo di una favola che non cambierà il corso dei pensieri. “E la bambina disse: mi ero innamorata/ E il nonno disse: lo hanno portato via gli alberi”. Curiosa preveggenza del pubblico futuro dell’Altalena Boy. Fa differenza se ti hanno portato via gli alberi, o se qualcuno pensa che siano stati gli zingari? Forse, chissà.

Foto: Francis Delacroix

Una cosa è certa. A parte il rock’n’roll, il boogie stiracchiato da festa delle medie, di Lucio Corsi non siamo disposti a perdere le sfumature. E le favole. Sarebbe un peccato. Al centro della scaletta che inizia con Sigarette, Amico vola via, La ragazza trasparente (le hit scientificamente disposte qua e là) con il piano elettrico – seduto di profilo, le spalle a mezza sala – l’evocazione più intima del cantautorato italiano sembra essere decisamente meno velleitaria e più d’effetto, per grandi per i piccini. Ivan Graziani, Dalla e De Gregori l’anno di Banana Republic. Il medley Rimmel, Maremma, E non andar via, forse è un po’ troppo facile, rispetto alla precisione vintage di tutta la messainscena, ma sempre affettuoso. Nel cuore della notte è già un classico minore, come il Venditti che imitava Springsteen. Le ombre, i graffi, i sensi di colpa, i coltelli, quasi una puntata di Chi l’ha visto?, lo strappo necessario nel fondale del piccolo circo.

E così il concerto vale anche soltanto per sentire l’omaggio di Lucio Corsi a Randy Newman, un altro strappo. Dopo Hai un amico in me (tradotta da Cocciante, appena accennata), la clamorosa Short People, qui diventata La gente bassa. Un miracolo di scrittura microteatrale contro gli uomini bassi di statura “che non hanno il diritto di vivere” dove la voce non è quella del cantante, ma di un infame della peggior specie. Pure il pubblico di ieri ci è rimasto male, quasi incredulo. Randy Newman ci passò i guai. «Odio le canzoni d’amore spacciate per canzoni di protesta», lo aveva detto Corsi a Rolling Stone anni fa, «invece come Randy Newman si potrebbe provare a dar voce a un leghista». Ecco, noi lo aspettiamo anche così Lucio Corsi. C’è bisogno di andare per il sottile.

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