Guè non è più solo un rapper, ora deve diventare icona | Rolling Stone Italia
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Guè non è più solo un rapper, ora deve diventare icona

Con il primo concerto del suo nuovo tour partito ieri sera da Milano, il ‘Ragazzo d'Oro’ ha ricordato a tutti, ancora una volta, che dietro il suo personaggio c'è prima di tutto un grande artista. Ma qualcosa ancora manca.

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Cosa ti rimane da fare, dopo che hai mandato sold out dieci Unipol Forum milanesi di fila e ci hai aggiunto sopra pure una data a San Siro, per un totale di paganti che non sarà duecentomila ma nemmeno ci va troppo lontano? Poi chiaro, non nascondiamoci: questo risultato semplicemente sbalorditivo (e, fidatevi, inaspettato per tutti, a partire dai protagonisti) è figlio anche dell’effetto-nostalgia e/o celebrazione, ovvero di ciò che i Club Dogo hanno rappresentato e rappresentano: si è cristallizzato nel tempo e stratificato per generazioni un vero e proprio idealtipo weberiano perfettamente riassunto dall’icona del cane. Idealtipo dove anche le persone normali (sì, ok, da vicino nessuno è normale, ma ci siamo capiti, no?) possono identificarsi nella ricchezza, nella potenza, nell’arroganza, nella realtà dei codici di strada più autentici e più crudi, nell’intelligenza, nella strafottenza, in una vita che sognerebbero di avere ma che non hanno la capacità o il coraggio di inseguire.

Questo è la vera chiave del successo del Dogo – e di Guè in primis, che dei tre è sempre stato il più attento ad essere iconico e sfrontato, e il meno autoironico, almeno pubblicamente, perché l’ironia e l’autoironia non la capiscono tutti – ed è una chiave che per certi versi riprende i meccanismi che stanno dietro al successo epocale di Vasco Rossi, oh sì, in cui centinaia di migliaia di persone vedono la possibilità di avere una vita da rocker sopravvivendoci pure, magari senza le seccature da arresti e dipendenze, da amici morti, da pressioni insostenibili della fama. Già: ti immedesimi in Vasco, a partire dagli anni ’80, perché vuoi la sua vita malamente ed esagerata, senza pagarne il prezzo, senza indossarne la fatica, oltre ad apprezzarne la poetica e il piglio; ed è successo lo stesso, da metà anni 2000 in poi, coi Dogo. Ecco spiegati i dieci Forum sold out. Ecco spiegato il San Siro subito dopo. Una spiegazione a posteriori: perché nessuno l’ha vista arrivare, ‘sta cosa, ma ecco, è arrivata. È successa.

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Foto di Edoardo Anastasio

Questo lungo preambolo è necessario per spiegare la tournée partita ieri di Guè, che torna ad attivarsi da solista e lo fa con un tour che è una produzione piuttosto grossa: non poteva essere altrimenti, del resto. Difficile ormai tornare indietro. Cosimo Fini in arte Guè è un monumento del pop italiano, questo è il punto, e non può (più) limitarsi a ramazzare soldi facili, facendo marchette su marchette con gli showcase nelle discoteche di provincia, quelle situazioni in cui fai mezz’oretta facile tu al microfono e Dj Tayone ai piatti, sciorini i tuoi successi bignamizzandoti senza impegno, scenografie zero, costi zero, personale al seguito zero, e voilà, tutto fatturato.

Oh, facile che Guè continuerà a farlo tutto ciò, una volta esaurito questo tour e prima che parta il prossimo: il nostro comunque è giustamente sensibile al guadagno ed ha uno lifestyle ed una ‘Fastlife’ da mantenere, e badate bene, questo lo diciamo come una constatazione neutra e finanche affettuosa, non come una colpa, non siamo moralisti. Anzi, questo essere sensibili alle foglie (nel senso di banconote e fatture…) è perfettamente coerente al personaggio che Guè ormai da due decenni si è disegnato addosso. Un personaggio che è faticoso sia da indossare che da mantenere, ancora di più quando – come nel suo caso – lo si vive anche veramente, ovvero nella vita reale. E Guè lo fa. Perché nell’hip hop la realness resta la cosa che fa la differenza, contrariamente al pop o all’indie o al rock più arty, dove l’artificiosità e/o la sofisticazione sono moneta più spendibile. Nel rap devi essere vero. Anche quando fai schifo. O anche quando ostenti, e ti autocelebri.

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Guè in concerto all’Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Una cosa però non si sottolinea mai abbastanza di Guè, anzi, due: la prima, è un vero amante e conoscitore della cultura hip hop come pochissimi altri (e quindi ne conosce&adora anche i lati oscuri, crassi, discutibili, quelli che i benpensanti di sinistra e i rimastoni anni ’90 fanno finta di non vedere); la seconda, è un grande, grandissimo lavoratore, uno che fatica, uno che fa le cose con cura.

Lo si dà per scontato, Guè. Dieci album solisti in quattordici anni, oltre ad una quantità semplicemente mostruosa di featuring sparsi su dischi di colleghi rappusi o anche non rappusi: quanti altri artisti in Italia, anche al di fuori del rap, sono così produttivi, tra l’altro restando sempre ad altissimi livelli come impatto sul mercato? Ve lo diciamo noi: nessuno. Semplicemente, nessuno. Epperò, la sua figura da guascone arrogante (che è appunto attentamente disegnata, profondamente voluta, maniacalmente curata) mette questa cosa in secondo piano, mette in secondo piano questa sua incredibile consistenza artistica. Male.

…male, sì: perché è invece fondamentale per capire tutto della figura di Guè. Tutto. Il suo successo da solista, l’impatto coi Dogo (prima strisciante, crescente ed endemico e poi, con la reunion, trionfale e nazionalpopolare), anche il modo in cui ha costruito questo tour-della-maturità, perché questo è La G La U La E, una manciata di date nei palasport (sold out quella ieri di Milano ed anche quella del 15 maggio, restano biglietti per Napoli l’8 maggio e Roma il 10), che poi avrà una coda lunga estiva e più easy con La Vibe Summer Tour. C’è infatti una grande etica del lavoro dietro a tutta la carriera di Cosimo Fini, così come dietro a come è stato pensato questo concerto. In quest’ultimo, non ci sono colpi d’ala – e questo è il suo limite – ma c’è comunque una certosina attenzione a mettere dentro tutto, sì, e a farlo bene. La band è essenziale ma potente; la presenza dell’hip hop è costante nei momenti facili come in quelli difficili (e qualora ci fossero dubbi, arriva il turntablism di Tayone a ricordarcelo in modo esaltante); il palco è geometrico ma appropriato; i visuals didascalici ma funzionali; le varie anime di Guè (in ordine cronologico per apparizione sul palco: il playa elegante, palestrato e strafottente, lo zarro da club vincente, l’amante delle striature caraibiche più o meno commerciali, il padre nobile biancovestito della scena urban) sono tutte dovutamente e precisamente rappresentate. Insomma: tutto quadra. E per far quadrare tutto, bisogna essersi applicati. Tanto.

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Foto di Edoardo Anastasio

Un messaggio, questo, che speriamo facciano proprio anche le giovani leve che hanno prima aperto il concerto come opening act e poi hanno raggiunto Guè per qualche traccia sul palco durante lo show principale: Rasty Kilo ed Artie 5ive hanno dimostrato infatti tutta la loro inadeguatezza live. Un palco così grosso – non appunto la marchettata in discoteca, ma dodicimila persone al Forum – ne ha evidenziato il rap ancora sguaiato, ancora impreciso, ancora arrancante, almeno messo di fronte alla prova dell’esibizione dal vivo in contesti veri, probanti. Se sono queste le nuove leve e i nuovi campioni del rap – Artie 5ive lo si sta lanciando come tale, e non certo solo per la liason con Anna Pepe – devono ancora farne di strada, devono ancora faticare per domare a modo la non-così-semplice arte di fare rap. Devono imparare da Guè, ecco. Che il rap lo ama e lo rispetta veramente. Che cura ogni singola rima ed ogni singola strofa in modo maniacale, anche quando sembra che non lo faccia e stia solo pensando a fare swag.

Cura e rispetto così come etica del lavoro sono una cifra fondamentale per capire l’efficacia sua, la figura sua: i superficiali posano l’attenzione sulla strafottenza, sui testi spesso formalmente sessisti (…ma amati dalle donne tanto quanto dagli uomini: segno che, più che sessisti, sono veri), sull’elogio del denaro, sull’empatia verso il peggio cinico e qualunquista; ma tutto questo è fatto con cura e rispetto, in primis verso l’arte del rap.

E sempre cura e rispetto, badate bene, sono anche ciò che generano il secondo livello di lettura nel suo rap e nel suo essere Guè: ovvero il fatto che in realtà i suoi racconti e le declinazioni dei suoi atteggiamenti siano spesso anche riflessivi, analitici, critici. Tutto questo, in questo tour a nome La G La U La E, c’è, c’è eccome, c’è in abbondanza e profondità, diffuso in quasi due ore di concerto, tour che ha avuto la sua prima in un Unipol Forum milanese esaurito fino all’ultimo posto (…già, un sold out vero, non farlocco: esistono ancora).

Guè in concerto all'Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Guè in concerto all’Unipol Forum di Milano. Foto di Edoardo Anastasio

Non tutto è stato ed è perfetto, però. Il concerto e la sua narrazione complessiva sono al 100% appropriati ma, come si accennava prima, manca il colpo d’ala, manca l’invenzione (musicale, scenografica), manca la sorpresa, manca lo scarto improvviso che ti resta impresso e che ti fa pensare che Guè possa essere anche altro da quello che già è. Beh: forse non gli interessa esserlo. E ci sta. Resta però che per colpa di questo limite lo show alla fine risulta un po’ lungo e il pubblico resta un po’ provato: alla fine si arriva non per crescendo ed apoteosi, ma quasi per consunzione. È palpabile, questa cosa. Forse andrebbe ripensata la scaletta. Forse poteva essere valorizzata più la presenza di Alborosie e meno quella di Rose Villain (che, tra tutti i guest, ha avuto il triplo dello spazio). Forse Guè più che rappresentare tutto se stesso doveva focalizzarsi solo su alcuni aspetti, ed usarli come detonatore parossistico al momento più opportuno. Forse semplicemente non ha l’esperienza live di un Salmo, che al momento nella categoria concerti-da-palasport gli è superiore.

Ma appunto: dopo che – che sia l’effetto-Dogo o meno – hai fatto dieci sold out di fila al Forum, non puoi più tornare indietro. Tocca lavorare ancora. Tocca restare a questo livello. Se lo metta in testa Guè: e si diverta, senza paura, così tira fuori il meglio di sé. E se lo mettano in testa pure quelli che lo detestano e/o lo irridono, magari pure per giustificati motivi (almeno alcuni): piaccia o non piaccia, Guè è un’icona assoluta della musica e cultura reale italiana degli ultimi due decenni. Merita di stare dove sta. Perché ci è arrivato con lucidità, con dedizione, con etica del lavoro.

…anche con cinismo, certo: un cinismo che gli fa da scudo protettivo. Il cinismo che Marracash ha invece abbandonato, buttandosi senza rete in dischi enormi ed avventure live enormi. Ed è questa, forse, la cosa che Guè più gli invidia. Aver messo in questo concerto così attentamente studiato come penultimo brano e quindi climax assoluto una versione monca – solo con la strofa del Fini – di Infinite Love, il brano che suggella l’amicizia e il legame tra i due e il loro background comune, è per certi versi più di un indizio in tal senso.

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