Sophie Auster è di una delicatezza rara. Quando accende la telecamera su Zoom emana subito una sensazione di dolcezza e di calma innate, di quelle che o ci nasci o che neanche dopo vent’anni in un tempio buddhista riesci a raggiungere. L’occasione per sentirci è l’uscita del suo terzo album Milk for Ulcers che racchiude sentimenti ambivalenti e opposti: il dolore e la guarigione, la vita e la morte, la complessità del mondo contemporaneo e la sua decodifica.
Il titolo contiene tutta l’ironia dei rimedi veloci e fatti in casa che ci inventiamo per alleviare la sofferenza: quel latte che dà sollievo nell’immediato, ma alla lunga peggiora la situazione. Ma Sophie, che di recente ha dovuto affrontare la perdita del padre, lo scrittore Paul Auster, di scorciatoie ne ha cercate davvero poche. Ha usato la musica come cura, per lei e per noi tutti. Tirando fuori un album alternative pop pieno di intimismo e sentimenti universali.
Ho ascoltato Milk for Ulcers e mi è sembrato di entrare direttamente nella tua vita. Quanto è autobiografico questo disco?
Tutto ciò che ho cercato di fare con la musica è sempre partito dalle mie esperienze o da cose che ho letto o visto. In passato forse era un po’ più nascosto come processo. Come se fosse stato in codice. Adesso avevo bisogno di dire qualcosa di personale e di farlo in maniera semplice, anche se c’è comunque una sorta di poesia nelle parole, ma è più semplice rispetto a tutto ciò che ho fatto prima. Ho cercato di capire chi fossi lungo il percorso e, quando l’ho capito, mi ci sono adattata.
Sei tu sulla cover dell’album?
Sì, sono io. Ci sono i miei genitori che mi stanno tenendo per mano e pensavo fosse un’immagine divertente. È stata scattata tanti anni fa, ma sono riuscita a rintracciare il fotografo per chiedere il permesso di usarla. Ci sono una serie di foto scattate in quella giornata, ma mi piaceva questo esatto momento in cui sembra che mi stiano trascinando, e ho pensato fosse un’immagine emblematica: vedermi piccola in mezzo a queste due paia di gambe.
E trasmette anche la sensazione di qualcuno che ti supporta, che ti aiuta a camminare.
Sì, esattamente.
Per quanto riguarda il titolo, l’ho trovato insieme ironico e interessante. Immagino sia riferito all’ultimo periodo della tua vita in cui hai dovuto affrontare la morte di tuo papà. Sei riuscita a trovare il tuo personale “latte per le ulcere”, un’abitudine, una persona, un’azione, qualsiasi cosa che potesse darti sollievo in un momento difficile?
A un certo punto, quando ero in post-produzione dell’album, ho avuto questo terribile dolore allo stomaco. E ho pensato: «Ecco, sta succedendo, ho delle ulcere!». Ovviamente c’è ironia nel titolo, perché le persone usano il latte per cercare di alleviare il dolore di un’ulcera, ma è un rimedio che non funziona. Ero interessata a indagare con questo disco tutte le cose che facciamo per sentirci meglio. Penso che quando si tratta di tragedie, di morti, di dolore, cerchiamo sempre scorciatoie per stare meglio, guardiamo in direzioni sbagliate, come andare in un bar a sbronzarci, o guardiamo in direzioni migliori, come nel mio caso, che mi sono circondata di persone che mi hanno supportata davvero. Ci sono altre cose, come fare giardinaggio, che per me sono state terapeutiche. Ma anche muovere il corpo, che sia ballando o allenandomi. Ovviamente fare musica è stato estremamente curativo. Ma il più grande aiuto di tutti è arrivato dalla terapia. Penso che, soprattutto quando bisogna affrontare la fine della vita, bisogna dedicarsi alle cose che ci rendono davvero felici.
C’è una canzone del disco a cui sei particolarmente legata?
Oh, è una buona domanda. Provo qualcosa per tutte le canzoni. C’è un pezzo, però, che ho scritto per mio padre e che è molto speciale per me perché l’ha ascoltata poco prima di morire. È riuscito ad ascoltare tutto il disco prima di morire, cosa che mi fa sentire davvero bene, ma anche triste. Penso che tra tutte le canzoni Flying Machine occupi un posto speciale perché l’ho scritta molto tempo fa, e l’ho scritta con un’intenzione completamente diversa, prodotta da qualcuno di completamente diverso, e ne ho davvero odiato la produzione quindi non l’ho mai fatta uscire. Quando sono tornata a lavorare all’album, è come se la canzone fosse tornata nel luogo che avevo immaginato per lei, ed è stato molto gratificante recuperare qualcosa che avevo scartato.
Hai iniziato esibendoti in alcuni jazz club di New York. È una scena nella quale sei ancora coinvolta, anche solo come fan? Credi sia una scena con un certo appeal per l’ascoltatore americano? Ad esempio in Italia stanno emergendo tanti gruppi piccoli che contaminano il pop e l’indie com elementi jazz.
Non ritengo di far parte della scena jazz, è una scena molto specifica a New York, ma ho amici che ne fanno parte e ho suonato con alcuni musicisti che sono anche degli ottimi musicisti jazz. Direi che faccio parte più di una scena di pop alternativo, anche se abbiamo vissuto a pochi minuti da un ottimo bar jazz e ho visto tanti amici suonare lì. Sono cresciuta cantando e amando il jazz, è assolutamente una parte di me e sento che c’era qualcosa nella mia voce che poteva lasciare un segno all’interno del genere. Ma credo che nessun musicista a New York possa davvero definirsi parte della scena.
Parlando della scena pop invece, considereresti di lavorare con artisti più mainstream come Billie Eilish o Chapell Roan? O non ti piacciono questo tipo di contaminazioni?
Sì, potrebbe cambiare tutta la mia vita. Funzionerebbero bene col mio stile ed entrambe stanno facendo un ottimo lavoro nel pop mainstream.
Che artisti ci sono nella tua playlist in questo momento?
Ultimamente ho ascoltato in rotazione Don McLean. Le persone conoscono quasi sempre la sua canzone più famosa, American Pie, che è bellissima, ma il suo repertorio è molto ampio e ha tantissime variazioni. Con mio marito stiamo ascoltando questa band australiana che si chiama Tropical Fuck Storm. Sono davvero divertenti e hanno fatto una cover di Stayin’ Alive dei Bee Gees che amo. Ho ascoltato Feist ultimamente, poi ascoltiamo un sacco Nina Simone e Tom Waits. Non mancano mai neanche i classici, Mozart, Beethoven, Bach che faccio sentire al piccolo di casa. Ma amiamo anche Raffi, che scrive musica per bambini: Bananaphone la ascoltiamo per giornate intere. Io inizio a ballare e mio figlio mi segue, alza le mani e mi imita. Dovremmo creare più canzoni per bambini perché a nessuno interessano, ma in realtà sono tutto il giorno nella vita di noi genitori, occupano il nostro spazio.
Com’è la tua relazione coi social invece? Li usi per diffondere il tuo lavoro o cerchi di starne lontana?
Dovrei migliorare su questo aspetto. Quando ho iniziato a curarli durante il Covid, mi sono resa conto che, mettendoci impegno, c’è un ritorno e ho sentito una comunità attorno a me. Mi piaceva l’idea di avere dei feedback perché sono abituata a suonare e ad avere riscontri. Allora ho iniziato a suonare online, ma quando sono tornata al mondo reale e ho potuto suonare di fronte alle persone vere, il mio interesse verso i social è completamente sfumato. Uso i social soprattutto per permettere ai fan di trovarmi, vedere dove suono, posso postare gli show e il tour. Ho anche usato TikTok per un po’, ma non ho postato nulla. Ho pensato di inventarmi qualcosa, ma è molto difficile, bisogna imparare il linguaggio dei nuovi media. Al momento mi diverto più su Instagram che su TikTok. Su TikTok ci sono cose molto disturbanti per le quali non sono preparata, ma trovi anche cose straordinarie per i bambini.
Andrai in tour dopo l’uscita di Milk for Ulcers?
Sì, stiamo cercando di capire anche quando posso venire in Italia a fare qualche show. Ora sto andando in Spagna e Germania, ho qualche data in Danimarca e poi stiamo cercando di attaccare qualche altra data. Potrei tornare a settembre perché ora l’estate è troppo vicina.
Suonerai in piccole venue o nei festival?
Farò un festival ad agosto, in Danimarca, che è davvero bellissimo. Il resto sarà un mix di teatri e di club. Amo suonare nei teatri, c’è qualcosa di intimo. Vedi questi vecchi teatri con le balconate in alto, mi piace guardare su e vedere le persone sopra di me, è magico.
Ho una domanda che probabilmente che ti fanno tutti. Qual è il lavoro di tuo padre a cui sei più legata? Non per forza il migliore, ma quello che ha impattato di più sulla tua persona e sulla tua arte.
Di solito non scelgo mai i lavori preferiti di mio padre, ma mi piace come hai posto la domanda. Il suo primo libro che ho letto è stato Nel paese delle ultime cose e sono impazzita all’idea che avesse come protagonista una ragazza di 19 anni. Io ero giovanissima all’epoca ed era incredibile che mio padre potesse riuscire a farla sembrare così vera. Per me è stato un libro speciale, anche per le circostanze politiche in cui ci troviamo, consiglio a tutti di leggerlo.

Foto: Spencer Ostrander
Quand’è che hai realizzato quanto è importante tuo padre nella letteratura americana? Tu sei cresciuta vedendolo semplicemente come genitore, ma c’è stato un momento in cui ti sei detta «O mio Dio, mio padre è Paul Auster»?
A casa, nelle dinamiche familiari, queste cose sono difficili da capire, specialmente quando sei bambina. Poi una volta, ero più grande, mio padre ci ha portati tutti al Festival del Cinema a Cannes. Avrò avuto 9 anni o qualcosa del genere e intorno a noi c’erano persone che stavano urlando per lui. Poi a un certo punto è salito sul palco insieme alle star dei film e e ho capito che questo non era molto normale. Ero circondata da tante celebrità che per me erano dei miti. Ricordo di aver visto Christina Ricci, che faceva un sacco di film per bambini, e io mi trovavo nello stesso posto dove si trovava lei.
Ti piacerebbe unire la tua passione per il cinema e la musica dedicandoti alle colonne sonore? Credo che la tua musica calzerebbe a pennello su certi film più intimisti.
Mi piacerebbe assolutamente.