In osteria con Giorgio Poi: una non intervista sul nuovo album | Rolling Stone Italia
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In osteria con Giorgio Poi: una non intervista sul nuovo album

E basta le solite interviste: ci siamo abbuffati col cantante romano parlando del nuovo disco ‘Schegge’ e di molto altro

In osteria con Giorgio Poi: una non intervista sul nuovo album

Giorgio Poi

Foto: Glauco Canalis

Quella che segue, non fosse abbastanza chiaro il titolo, non è un’intervista a Giorgio Poi. Semmai un tabulato, un po’ come quelli che redigono dopo che la chiamata tra due manigoldi viene intercettata, che stavolta però riguarda un piacevole pranzo insieme. A Milano, in un posto magico che si chiama Cooperativa Liberazione, e alla cortese presenza di Giorgio, Glauco (il fotografo), Alessandro (uno dei Bomba Dischi boys), Giulia (che si occupa dell’ufficio stampa) e il sottoscritto.

Ciò di cui abbiamo parlato per la maggior parte del pranzetto non riguarda necessariamente il nuovo album del cantante romano, Schegge, che tra l’altro esce proprio oggi, 2 maggio. «Anche perché alla fine le interviste non so quanto senso abbiano», racconta GP mentre raccoglie una generosa cucchiaiata di zuppa di fave e cicoria dal suo piatto. «Se mi chiedi perché ho scritto quel pezzo o quell’altro, io non so cosa dirti. Perché il modo migliore che ho per esprimermi è proprio la musica. Non so dirtelo a parole».

Qualcosa sul disco comunque si può dire: è il quarto ed è forse uno dei più intimi nella sua ormai decennale storia da solista. Dalla morte del padre alla fine di una relazione importante, fino al ritorno nella sua Roma dopo 17 anni di latitanza, Giorgio srotola lungo le nove tracce tante cose importanti che gli sono capitate negli ultimi anni. Il tutto, con il suo solito gusto sublime in testi, scrittura e arrangiamenti, aiutato anche dalla supervisione dell’amico Laurent Brancowitz dei Phoenix, che conferma ormai un solidissimo asse Roma-Parigi. Tra Lucio Dalla e Sébastien Tellier, tra i Daft Punk e Gino Paoli, Giorgio Poi mette insieme cose che abbiamo bene o male ascoltato tutti, ma lo fa con la cristallina originalità di chi la musica deve farla, non è che può

Mentre ci sediamo al tavolo, osserviamo la quantità considerevole di cimeli e poster a tema socialista, dai più solenni come i ritratti di Mao o Gramsci ai più cazzari, come una prima pagina di giornale che strilla “Ugo Tognazzi è il capo delle BR”. Uno dei tanti scherzi architettati da uomo incredibile che dimostra (come se ce ne fosse bisogno) l’inettitudine eterna della stampa italiana, che all’epoca ’sta gag se l’era proprio bevuta a gran sorsi.

Foto: Glauco Canalis

Sei vegetariano?
No, però mi piacciono molto le verdure. Le mangio sempre volentieri. E quando sto in giro è più difficile trovarle buone. Per cui, se vedo un piatto che m’ispira lo prendo.

Mi piace questo nuovo look con l’occhiale tartarugato e il ricciolo selvaggio.
Grazie! Io dovrei portarli sempre gli occhiali, ma non mi ci vedo molto. Questi sono un po’ da sole, nel senso che si scuriscono quando c’è la luce. Io li occhiali li porto da quando avevo 14 anni ma ancora non mi sono abituato a vedermeli addosso. Questi sono ok. Li terrò anche sul palco. Anche il ricciolo, è stato parte di una transizione del tutto naturale.

Però, passare dall’ultimo Gommapiuma al nuovo Schegge è un bel salto semantico di titolo. Dal morbido al tagliente.
Gommapiuma evidentemente non ha funzionato, nel senso che qualcosa è caduto, si è rotto in mille pezzi e ora rimangono le Schegge

In effetti il primo singolo, Uomini contro insetti, parla di apocalisse.
Sì, un’apocalisse autoinflitta dall’uomo.

«È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo», disse Slavoj Žižek.
Effettivamente è così. Madonna che genio che è lui: è una grande verità. Per noi ormai è accettabile l’idea che a un certo punto l’umanità finirà per nostra stessa colpa. È una di quelle cose che ormai abbiamo accettato come inesorabile. Per esempio, io fumo. Tu mi puoi dire che questa cosa mi ucciderà, ma io non riesco a smettere.

Foto: Glauco Canalis

Eh ma fumare è bello però, il capitalismo no. In Uomini contro insetti canti “Su isole sospese / Tra il Polo Sud e il Polo Nord / Dove si arriva soltanto coi soldi”.
Ma anche quando ti arrivano dei soldi e siamo tutti tranquilli, si. È il modo con cui trattiamo le nostre vite, le nostre città, il nostro quotidiano. Ed è anche tutto ciò da cui poi puntualmente vogliamo fuggire. Ha tutto a che fare con la stessa cosa. La vacanza è un concetto sbagliato. Cioè, non dovrebbe proprio esistere. Vacanza da cosa? Non dovrebbe essere l’eccezione ma la norma. La vita dovrebbe essere piacevole e appagante. Le persone meritano di avere un lavoro piacevole, che non diventi una croce. E quand’anche non sia il lavoro dei propri sogni, che almeno sia dignitoso. Nel 2025 non può più essere un sacrificio, come in un mondo contadino di secoli fa. Già ora ci sono i mezzi per far sì che tutti possano lavorare un po’ meno.

Stai parlando di piena automazione?
Anche. 

(Alessandro di Bomba Dischi interviene: «Se ne parla spesso di questa cosa. La tecnologia dovrebbe alleggerire la vita, invece nel concreto è il contrario. Con ‘sti smartphone il lavoro ce l’hai sempre in tasca con te, ovunque vai. Non devi manco sederti alla postazione. È un paradosso. Poi, dipende dai singoli individui»).

Mi ricorda la vecchia immagine profilo di WhatsApp di Brizio (altro cofondatore di Bomba Dischi, nda). Com’è che era la frase in spagnolo?
Ah, sì: «Amo el Internet pero me está consumiendo». Ma poi l’alleggerire il lavoro significa anche che, nel momento in cui tecnicamente non ti serve più una persona in una catena di montaggio perché hai trovato una macchina che lo fa molto meglio e più in fretta, tu non puoi lasciare a casa questa persona. Dovrai dargli un altro ruolo, pagarla dignitosamente. Non è che «ah, quello che spendevo per te ora me lo tengo io!». I vecchi discorsi del lavoratore e del padrone purtroppo sono ancora attualissimi. 

(Glauco il fotografo interviene: «Semplicemente, oggi è tutto più astratto. Quella working class, che per carità esiste ancora nelle fabbriche, oggi comprende anche tutto il cosiddetto lavoro creativo»).

E per quanto riguarda i musicisti?
In Italia non esiste alcun tipo di tutela. La Francia invece è molto avanti su queste cose. Se tu non fai un disco per due anni, in base al tuo reddito lo Stato ti manda la mensilità. C’è anche in Germania. Non bisogna affamare le persone perché lavorino meglio. È sbagliato.

È l’atmosfera di questa osteria che ci fa fare ‘sti discorsi politici?
Secondo me sì. Fossimo altrove a Milano forse (con accento milanese, nda) ti starei raccontando delle vacanze con Briatore in Sardegna. Tra l’altro siamo nati lo stesso giorno, il 12 aprile.

Anche io sono di aprile.
Se ci pensi, un botto di gente è nata in quel periodo perché siamo figli delle vacanze estive. Sempre per ricollegarci al discorso di prima sulle vacanze. 

E per ricollegarci invece alla Francia, ormai è un asse solido quello tra Roma e Parigi. 
Sì, è nato tutto da un rapporto di amicizia. Dopo il mio primo disco, Fa niente, Laurent mi ha scritto. Frequentava spesso Roma, quindi la prima volta buona ci siamo incontrati. Era evidente da subito che avessimo una grande affinità, non solo musicale. Anche a livello personale c’erano molti punti di contatto. Ci siamo trovati molto bene insieme e siamo diventati amici. Quindi questa mano che mi ha dato in questo disco è qualcosa di molto naturale e spontaneo. Ma attenzione: tutto ciò di squisitamente francese che senti nelle tracce deriva da un mio gusto personale. Lui ha dato un contributo più formale che sostanziale. Io avevo le canzoni fatte: lui semplicemente arrivava a casa mia e le ascoltava due o tre volte a orecchie fresche. E magari mi diceva: «Ok, secondo me bisogna lavorare su questa parte della canzone». Oppure: «Qui in questo passaggio prima del ritornello ha tre accordi ma non ci canti sopra, che ci sta a fare?».

Foto: Glauco Canalis

Quindi nemmeno una produzione esecutiva.
No, è stata proprio una supervisione. Avevo bisogno di orecchie fresche e di gran qualità. Ho molta fiducia in lui. Magari sei mesi a lavorare su una canzone e ti perdi in una spirale. O la molli lì e la riprendi in mano in un secondo momento, senza avere la certezza del risultato. Oppure chiedi un consiglio da una persona skillata come Laurent. Ha una sensibilità tale di riconoscere i punti su cui lavorare ancora. 

Vedi te. Aveva la band coi Daft Punk prima dei Phoenix. 
Sì, non si chiamavano ancora Daft Punk ma Darlin’. Il nome Daft Punk poi l’hanno preso da una recensione negativa che li aveva definiti «a bunch of daft punk», un gruppo di stupidi straccioni. E lì poi hanno preso il nome.

Poi vabbè i Phoenix qualche anno fa questo amore per l’Italia l’hanno proprio messo su disco.
Ti amo, certo. Gran bel disco.

Perché comunque i fratelli Brancowitz sono per metà Mazzalai. Il buon Panizza mi aveva raccontato che sono originari di un paese poco sopra Trento.
Vero, tant’è che lui vive a metà tra Roma e Parigi e ormai parla perfettamente in italiano. Io invece il francese non ce l’ho proprio, non ci riesco. 

Hai ancora quella chitarra acustica degli anni ’60?
Sì, ma sto valutando se prenderne un’altra perché sta cominciando a diventare fragile e anche molto di valore. Io l’avevo pagata 600 euro a Londra, ma adesso vale molto ma molto di più. Non scrivere quanto costa sennò me la fottono. 

E il piano lo suoni?
Malissimo. Guarda, il pianoforte e il francese purtroppo sono due cose che mi riescono male. Sono entrambe cose che mi piacciono e mi attraggono molto, ma per qualche motivo non mi riescono a entrare in testa. 

Ho letto nel comunicato stampa…

(Interviene ridendo Giulia, l’ufficio stampa: «Sicuramente avrai letto una bellissima frase!»).

Sì, ho letto che sei tornato a vivere a Roma dopo 17 anni.
Sì, dopo Londra, Berlino e Bologna sono tornato nella mia città. Fino a due anni fa sono stato lì.

Foto: Glauco Canalis

E mi ricordo che convivevi con la tua compagna, giusto?
Eh, sì, poi è finita quella cosa e sono tornato a Roma. Non aveva senso per me stare a Bologna. Roma ha comunque avuto un ruolo in questo nuovo album. È la mia città, anche se non ci sono nato.

Tu sei nato a Novara!
Il grande equivoco! Qualche anno fa era uscito un articolo intitolato tipo “La scuola piemontese”. C’erano vari artisti tipo Cosmo e poi ci avevano messo anche me, che ok sono nato a Novara ma a due anni di vita sono andato a Roma e non ci sono mai più tornato. Ma neanche di passaggio. Ma ci devo andare assolutamente. È anche vicina a Milano, no? Forse è anche questo il motivo. Si suona a Milano, non a Novara. Però giuro che tornerò presto a visitare la mia città natale. So che c’è c’è un bel jazz festival.

Di solito un feat ce lo metti nei dischi, stavolta no?
Stavolta no. Ma perché non ne ho sentito l’esigenza. Ho pensato che in questo momento della mia vita non avevo bisogno di coinvolgere qualcuno. Se non in un’altra forma, come con Branco. Avevo un’esigenza d’espressione molto personale. Cazzo! Questo vino sta bene anche sul tortino pere e cioccolato!

Concordo. Ma poi dovremmo farle sempre così le interviste. A tavola e paga Rolling Stone.
Ma più che altro io sono in difficoltà ogni volta che devo raccontare quello che ho fatto. Non è semplice. Qualsiasi cosa che io ti dico sul disco e le canzoni è riduttiva. Proprio perché il modo più efficace che ho di dirti questa cosa è proprio il disco stesso! È vero che ho studiato musica, ma sono una persona che segue molto l’orecchio. Come fai a domandare qualcosa al mio orecchio e ricevere una risposta?

Tu non hai mai scritto musica per film? Perché è musica molto cinematografica secondo me.
Ho scritto una colonna sonora di una serie Netflix qualche anno fa. Però poi non è più capitato. In realtà mi piacerebbe tantissimo. 

Tu scrivi tutti i giorni?
Dipende. In questo periodo per forza di cose, no. Stiamo preparando il tour estivo e ora parte quello europeo. Inizia il 9 maggio a Berlino e poi Bruxelles, Londra. E ci sarà poi la prima data del tour italiano al MI Ami. Quindi stiamo provando molto con la band. È cambiata molto la mia routine, ma fa parte del gioco. Mi piace molto questo implodere ed esplodere tra gli anni di scrittura da solo e quelli in giro in tour. È perfetto. Ovviamente alla fine di uno dei due processi non vedo l’ora che inizi l’altro e viceversa.

Sei una persona che si annoia?
Mai. Da bambino mi annoiavo molto. Fino alla fine del liceo mi sono annoiato un sacco. Non che fossi un tipo schivo, anzi. Ho sempre avuto molti amici e ho sempre suonato. Anche se mi è sempre piaciuto anche passare tempo per i fatti miei, da solo. Non ero infelice, però non mi piaceva la scuola. Non ho mai avuto un professore che fosse davvero illuminante al liceo classico. Ma neanche alle medie o alle elementari. 

Foto: Glauco Canalis

In eterno conflitto con l’autorità?
Nemmeno, perché quella dei miei genitori l’ho sempre riconosciuta e osservata. Però a scuola non ho mai trovato quello che cercavo.

Nella prima traccia, Giochi di gambe, parli di tuo padre.
Sì. Mio padre è morto due anni fa. È stato un momento importante che è entrato molto nel disco.

È una bella metafora quella che usi nel testo: “Entra un raggio di luna dalle finestre / È mio padre che dice che mi protegge / In questa grande esplosione siamo le schegge”.
Quando una persona non c’è più la senti paradossalmente più vicina. Perché la senti dentro di te. A volte ti arrivano delle robe molto belle, cambia proprio il legame che avevi con quella persona. Oltretutto questa è l’ultima canzone che ho scritto del disco, ma ha riassunto tutto quello che era stato quel periodo difficile, quando per me è saltato tutto. Quindi ci tenevo che fosse la prima del disco. Tra la fine della relazione, la morte di mio padre e il cambio della città è stato tutto abbastanza repentino e intenso. Infatti c’è stato un periodo in cui non ho proprio scritto. Magari avevo anche lo stimolo e le emozioni di scrivere, ma non avevo l’energia. 

Di solito parti dallo strumentale tu per comporre, no?
Sì, il testo tendenzialmente arriva sempre per ultimo. Più che altro perché le canzoni sono alla fine delle improvvisazioni su cui poi a una certa inizio a blaterare parole. Le canzoni prendono forma così, con dei versacci che magari manco sono parole.

(Glauco: «Io soffro sempre molto che in italiano leghiamo ancora troppo la parola al significato, mentre dovrebbe essere molto più leggera e musicale»).

Vero, ma secondo me dovrebbe esserci un senso sia musicale che letterale. Un grande scrittore è anche una persona che ha un grande intuito musicale. Quando leggi una frase deve scorrere, deve suonare. Le parole sono suoni prima di tutto. 

E comunque un po’ di francese alla fine l’hai usato in Les jeux sont faits. La pronuncia è buona, te lo dice un valdostano. 
Ah ma sei valdostano? Tu pensa che io ho passato la prima estate della mia vita a Extrepiéraz, una frazione di Brusson. I miei con me neonato avevano affittato una casa lì. Avevo tipo due mesi, quindi è impossibile che io mi possa ricordare qualcosa. Nemmeno mio fratello che è più grande di me di due anni penso abbia ricordi di quel posto. Però pensa che ci sono tornato quattro o cinque anni fa perché un amico stava lì a Brusson in vacanza. E io ti giuro che ho sentito degli odori, i profumi di quei boschi che mi hanno riacceso la memoria. Non ho mai dormito così bene in tutta la mia vita come in quei giorni di quattro anni fa. 

Foto: Glauco Canalis

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