Nel maggio 1975 Garbo registrava i suoi primi demo. Cinquant’anni dopo, guardandosi attorno, vede una preoccupante «desertificazione». Come ci ha raccontato in questa intervista, dove ripercorre la sua carriera, osserva la scena musicale contemporanea con disincanto. «È come se, nonostante il gran rumore, fossimo immersi in un vuoto dove non accade nulla. Musicalmente riciclano continuamente quel che è già accaduto. Non conta il brano che porti, ma il personaggio. Si punta a coprire un buco emotivo più che artistico».
Non manca la critica ai nostalgici che rimpiangono epoche che non hanno vissuto: «Ci sono ventenni che hanno nostalgia degli anni ’80 o ’90. Ma come fanno ad averla se non erano ancora nati? È gravissimo dal punto di vista esistenziale». In quanto ai giovani che hanno provato a riesumare la new wave, «è come se io all’epoca avessi replicato Nilla Pizzi e Gino Latilla».
Dopo 50 anni di musica, che cos’è per te la new wave?
Intanto è una cosa a cui non sono particolarmente legato. Quando me lo chiedono, rispondo sempre: io ho fatto semplicemente musica. Ho scoperto dopo che qualcuno ha cominciato a chiamarla new wave. Chi la faceva allora non ne era consapevole.
C’erano caratteristiche comuni agli artisti all’epoca?
Forse il modo di percepire i suoni e le parole inserite in quei suoni. Era nell’aria. A 16-17 anni non sapevo cosa accadeva oltremanica e oltreoceano. Non è vero come dicono che mi sono ispirato agli Ultravox o a David Sylvian. Non c’era internet, men che meno i social, quindi la musica non circolava con facilità a meno che non si avesse un amico o un parente che, viaggiando, ti portava i dischi dall’estero. Per me quell’onda era nell’aria, tanto che si è sviluppata contemporaneamente in Italia, in Francia, in Germania, in Giappone, in Inghilterra e in America. Diciamo che, per una questione anagrafica, sono stato tra i primi a cogliere quelle sonorità.

Garbo nel 1978. Foto press
Bisogna avere una particolare sensibilità per cogliere quello che c’è nell’aria e svilupparlo in modo credibile, no?
È necessario essere portati a farlo. Per me, evidentemente, la musica unita alla parola rappresentava un bisogno come alimentarsi e dormire. A un certo punto, da ascoltatore passivo, ho sentito la necessità di diventare attivo: comporre accordi, lavorare sulle melodie, aggiungere le parole. Un vero bisogno, che viene per forza di cose da una predisposizione.
C’era forse nell’aria anche una stanchezza verso un certo tipo di cantautorato?
Hai centrato il punto. Da ascoltatore, da ragazzino, ascoltavo la radio, certi programmi come Supersonic o Per voi giovani, trasmissioni dove si potevano sentire le musiche in voga. O la musica nazionalpopolare e cantautorale. In quel momento ho avvertito l’esigenza di dare a quella musica un respiro più ampio, sia al suono che alla parola.
Così hai e avete cambiato il modo in cui ci si poteva esprimere in musica.
In qualche modo sì. Perché non sono il classico cantautore, non ho mai raccontato storie. Mi sono sempre mosso attraverso testi con una attitudine più vicina alla fotografia o al cinema. Descrivevo momenti esistenziali con le immagini, più che con il racconto. E sentivo che quella era una direzione nuova e ricca di spunti. Non mi interessava la cronaca, mi annoiava. Non ho mai apprezzato i grandi cantautori, con il rispetto che meritano. Avevo bisogno di altro e me lo sono creato in autonomia.
Come reagiva chi ascoltava la tua musica, all’inizio?
Credo di essere un caso raro, perché non ho mai fatto il giro dei discografici. Un giorno mi trovavo in uno studio di registrazione a Lecco di proprietà dei figli di un negoziante di strumenti musicali. Andavo lì con amici e compagni di scuola a registrare. Prima a casa su un quattro tracce a cassetta, poi con qualche soldino in più, invece di andare in vacanza a Riccione, sono andato a registrare qualche pezzo. Lì ho conosciuto Giuseppe Banfi, il tastierista dei Biglietto per l’Inferno, un ottimo gruppo prog che andava in studio a fare il fonico. Ha ascoltato una mia registrazione e mi ha chiesto se poteva farla sentire a qualcuno in ambito discografico. Io non sapevo neanche cosa fosse la discografia.
E poi?
Dopo un mese mi ha chiamato Gianpiero Scussèl, allora direttore artistico della Fonit Cetra e in seguito della EMI in Italia. Mi ha convocato nel suo ufficio in via Meda a Milano: «È tua questa roba?». Eravamo in un megaufficio, era il 1980, circolavano molti soldi. Dandomi le spalle, ha lanciato la cassettina con le mie registrazioni su un mobiletto mentre si faceva il caffè. Ho fatto qualcosa di male, ho pensato. E invece ha detto: «È interessante quello che fai, vorrei presentarmi alla EMI con un artista nuovo come biglietto da visita, ti va?». Avevo 20 anni, appena finito il militare, andava bene tutto. Ed è andata benissimo.

Garbo nel 1981. Foto press
È vero che Antonello Venditti, quando ha sentito la tua musica, ha detto: «Ma dove vuoi andare?».
Sì. Inizialmente c’era molta curiosità tra i cantautori, era come se percepissero in questi pochi nuovi artisti un cambiamento in atto. Qualcuno comunque me lo disse, non solo Venditti ma anche Gino Paoli. Avvertivano che il cambiamento avrebbe potuto spiazzarli. Poi Franco Battiato mi portò in tour con lui. Eravamo entrambi artisti EMI, un gioco in famiglia, ma lo stesso Franco me lo disse che voleva mostrare al suo pubblico, in grande crescita, che lui era attento alle novità che avrebbero modificato il modo di ascoltare la musica.
Era il tour di una pietra miliare della musica come La voce del padrone.
In quel tour mi sono accorto subito che non si sarebbe più tornati indietro, sia nell’arrangiare che nell’ascolto del suono da parte del pubblico. Forse non è stato un caso se abbiamo pubblicato i nostri dischi lo stesso giorno: il 21 settembre del 1981.
Da quella data niente sarebbe più stato come prima.
Effettivamente, tutta la musica è cambiata e ha risentito di certe influenze.
Un altro artista che, come te, ha cavalcato l’onda della new wave, è Faust’O, che su Battiato è stato molto critico: «Ha scritto qualche bella canzonetta».
Conosco bene Faust’O, ma non ci siamo più frequentati perché è estremamente polemico e abbiamo avuto diversi contrasti. Non condivido quell’atteggiamento, come quello che ha detto di Battiato. Ciò che mi sento di dire, invece, è che con intelligenza e consapevolezza, Franco ha raggiunto i suoi obiettivi. È vero che ne è stata molto caricata l’immagine mistica, ci sono state delle esagerazioni e lui le ha sfruttate a proprio vantaggio. Fa ridere chi lo considera un maestro intoccabile. Era estremamente ironico e autoironico.
Come ricordi l’esperienza del tour insieme a Battiato?
Spesso stavo dietro al palco nella zona buia per vedere il suo concerto. Una sera, a un certo punto Battiato si è lanciato in uno pseudo assolo chitarristico ai limiti dell’assurdo, poi si è voltato, mi ha visto, si è avvicinato e ridendo mi ha fatto capire che non sapeva neanche lui cosa stesse facendo, anche se il pubblico era entusiasta. Giocava molto su queste cose. Una rivista lo inserì in una classifica dei migliori chitarristi al mondo. Ci giocava e ci rideva.

Garbo nel 1984. Foto press
Dopo anni di sperimentazioni, dove per sua stessa ammissione il pubblico scappava dai concerti, è riuscito a trovare una formula in grado di unire profondità e popolarità, no?
Ha trovato con intelligenza una sua strada per il successo. Quindi è tutt’altro che un non-musicista. Per questo non concordo con Faust’O. Ha usato vari linguaggi in modo notevole per ottenere quello che desiderava. E da un certo punto in poi si è messo in testa di vendere, anche per necessità. La EMI dopo un po’ non lo voleva più. Allora si vendevano molti dischi, lui invece vendeva poco. Così ha trovato una sua personale concezione commerciale. Ha piegato la materia in funzione di ciò che voleva ottenere. Ricordiamo che Franco ha fatto la fame. In quel periodo viveva ancora grazie alla pensione della mamma. Quando eravamo in tour, io avevo 20 anni e lui 37. Fino ad allora guadagnava poco.
In seguito la percezione di Battiato nel mercato si è completamente ribaltata.
Me l’aveva detto: «Lo faccio per vendere e vendicarmi». Ci rideva, ma era tutto vero. Un giorno, dopo qualche mese dall’uscita dei nostri album, ci trovammo alla EMI dove lui sapeva che fino a quel momento lo prendevano in giro, anche per la grandezza del suo naso. Abbiamo percorso insieme il corridoio della sede, in fondo l’ufficio dell’amministratore delegato. Mentre camminavamo mi disse: «Vedrai adesso, altro che nasone…». Si spalancò la porta, uscì l’amministratore delegato che si inginocchiò ed esclamò: «Ben arrivato maestro!».
Un percorso che invece tu non hai voluto seguire. Hai detto: «Ho capito da subito che non sarei stato nazionalpopolare». Perché?
Intanto me l’ha fatto capire la discografia. Cioè che, per esserlo, avrei dovuto ampliarmi cercando strade più facili dal punto di vista sonoro. Più commestibili per il pubblico. Ma non era nelle mie corde. Un po’ come se qualcun altro ti dicesse di fare una cosa che non ti senti di fare. Ci soffriresti, staresti male, perché è contraria alle tue reali predisposizioni. Invece di accettare una forzatura ho preferito percorrere una strada più personale. Ero consapevole di non essere nazionalpopolare fin da quando la EMI mi ha dato il mio primo disco finito.
Come mai?
Finito l’ascolto ho pensato: amico mio, questa roba è buona ma non potrà mai arrivare a tutti.
Brian May dei Queen nel 1984 a Sanremo ti ha detto: «Ma tu che ci fai qui?». Credeva che fossi un artista straniero.
Questo la dice lunga. Nei due giorni dei Queen a Sanremo li ho frequentati e loro si guardavano intorno, vedendo gli artisti passare, erano divertiti e stupiti. Si domandavano: «Ma dove cazzo siamo finiti?». Nel momento in cui mi hanno sentito, a parte la coincidenza non voluta della loro Radio Gaga e della mia Radioclima, pensavano che fossi diverso da tutti gli altri e quindi immaginavano che venissi anch’io dall’estero. Anche gli italiani mi consideravano quello strano. Ricordo l’interesse dei Duran Duran e dei Frankie Goes to Hollywood, ma nel panorama della musica italiana ero considerato una sorta di alieno.

Garbo nel 1993. Foto press
È per non scendere a compromessi che, successivamente, hai fondato la tua etichetta discografica Discipline?
Per non scendere a compromessi, ma anche per le tempistiche. In una multinazionale, che è paragonabile a un Diplodoco, cioè a un dinosauro con una piccola testa e un corpo enorme, se avevi un’idea sapevi che, bene che ti andasse, avresti potuto pubblicarla un anno e mezzo dopo. Per me era impensabile. Io dopo un anno e mezzo avevo bisogno di scrivere altro. Da indipendente ero libero di scrivere e di pubblicare più velocemente.
È una libertà creativa che si sente per esempio nel disco del 1991 Il presidente, tutto registrato in presa diretta.
Sentivo fortissima questa urgenza. La new wave era finita, ormai già decaduta, e dovevo trovare nuove vie e creare condizioni diverse, anche personali e filosofiche. Quindi i tempi dovevano essere più stretti, e una multinazionale non mi avrebbe permesso di averli.
E hai potuto sperimentare anche ispirandoti a sonorità orientali, come negli album Macchine nei fiori e Cosa rimane… rivisitazioni.
Ero affascinato dall’Oriente. Ma, a differenza di Battiato, ero attratto dal mondo dell’estremo Oriente, come Giappone e Cina. Lui dal medio Oriente, anche per le origini siciliane.
Di sperimentazione in sperimentazione, arrivi addirittura a fondare un nuovo movimento, il Nevroromanticismo, che si è avvalso della collaborazione degli scrittori più innovativi dell’epoca, quelli della gioventù cannibale: Aldo Nove, Isabella Santacroce, Tommaso Labranca, Tiziano Scarpa e Niccolò Ammaniti.
Fu qualcosa di molto spontaneo. Ero attratto da certa nuova letteratura. Ricordo che mi colpì molto Aldo Nove e la sua scrittura senza punteggiatura. Sono stati loro a chiamarmi. Erano insieme e mi dissero che la loro generazione era stata investita dalla mia musica e che ero un loro riferimento. Ci incontrammo e pensammo a una pubblicazione su una rivista di poesia. In pratica questi artisti avrebbero scritto, ognuno col proprio stile, qualcosa su di me. Io stavo iniziando a occuparmi dell’album Up the Line, che era quasi totalmente strumentale, di ricerca, e spaziava da Ryūichi Sakamoto a Philip Glass.
Un progetto che, mi pare, non ha mai visto la luce.
Visto che non c’erano testi nel mio disco, mi venne l’idea di coinvolgerli: io non li canterò, ma pubblicherò i vostri testi nel disco. Ognuno di loro prese un brano e scrisse quello che sentiva. Avrebbe dovuto uscire anche un volume per Bompiani, grazie a Elisabetta Sgarbi, ma ci fu una protesta da parte di tutti gli altri editori di ogni autore, quindi il progetto sfumò.

Garbo nel 1999. Foto press
Oltre agli scrittori, hai affascinato anche i musicisti, dai Bluvertigo ai Subsonica per arrivare ai Baustelle. Quel sound riecheggia ancora oggi.
Mi fa piacere, perché alcuni di loro mi hanno confidato che hanno preso ispirazione da ciò che facevo e che ho rappresentato. Francesco Bianconi mi ha detto che aveva 14 anni quando mi ha visto a Sanremo con Radioclima e ha pensato che anche lui voleva fare qualcosa del genere. Lo scopo di ogni artista è quello di lasciare un tratto sul tavolo del tempo. Qualcosa che rimanga anche per gli altri. L’unico modo per trovare l’eternità nell’arte è che sopravviva a noi stessi.
Mi sembra che oggi sia un atteggiamento rarissimo da trovare in giro, almeno nella discografia mainstream.
Ti dirò di più: il mio ultimo album del 2023 si intitola Nel vuoto. Un pretesto per raccontare, più che l’omologazione, la desertificazione di oggi. Come se, nonostante il gran rumore, fossimo immersi in un vuoto dove non accade nulla. Musicalmente ci sono cose che riciclano continuamente ciò che è già accaduto. Non solo tra i sanremesi. È triste perché ci sarebbe ancora margine per sperimentare, infatti nell’ultimo disco sono riuscito a fare qualcosa di inedito: una sorta di curvatura spazio-temporale.
Spiegati meglio.
Se ascoltate il disco, sono certo che non troverete una identità temporale. Ci sono riferimenti al mio percorso, ma è impossibile collocarlo temporalmente.
È anche vero che sono cambiati i supporti: oggi la musica si ascolta sullo smartphone.
È stato un grandissimo danno. Ma il primo grande danno è stato l’avvento di Internet. Dicono che ci si può trovare tutto, ma equivale al trovare nulla. All’assenza. Una volta dovevi andare a cercare, a scoprire, e poi, dopo quegli sforzi, ti sedevi ad ascoltare un album con attenzione.
Oggi i tempi medi di attenzione variano dai 15 secondi di una storia Instagram al minuto di un reel.
Certo, ma già David Bowie ci mise in guardia: «Il potenziale di ciò che Internet sta per fare della società è inimmaginabile». Era il 1999. Ci siamo arrivati. Un vero massacro della creatività e dell’arte. Penso che la figura del musicista come rockstar sia destinata a sparire.
In questo processo c’entra anche la trap?
Il genere musicale non è un problema, la questione è generale. Sono sicuro che esistano ragazzi che, anche con la trap, stanno facendo cose fenomenali. Purtroppo, però, rischiamo di non sentirli perché non avranno i mezzi per emergere, per poter comunicare col pubblico. Lo vediamo a Sanremo, dove non conta neanche più il brano che porti ma il personaggio. Si punta a coprire, con il proprio personaggio, un buco emotivo più che artistico. Ti riassumo il concetto ancora più all’estremo: non circola talmente un cazzo di nuovo che se arriva uno sincero funziona. Non importa che musica fa. Basta la sincerità a rivestire il ruolo di rockstar.
Nell’ultimo Sanremo, a parte il vincitore Olly, la nuova rockstar emersa è Lucio Corsi.
Lo conoscevo già da qualche tempo, per alcuni dischi precedenti che erano stati poco ascoltati. Me ne parlò qualcuno che conosco e lui scrive con sincerità. Un cantautore-puzzle con vari richiami e riferimenti, sia cantautorali che estetici verso il glam. Nulla di nuovo.
Sembra tornare anche la new wave…
È come se io, quando avevo 20 anni, anziché provare a produrre materiale nuovo, mi fossi messo a replicare Nilla Pizzi e Gino Latilla. Forse, per la prima volta nella storia, siamo in una fase dove si è fermata l’evoluzione.
Il revival ha preso il posto della ricerca?
Esatto, ma non solo. È in corso un paradosso, nuovo e imbarazzante, che è quello della nostalgia di un periodo che non hai vissuto. Ci sono ventenni oggi che hanno nostalgica degli anni ’80 o ’90. Ma come fanno ad averla se non erano ancora nati? È gravissimo da un punto di vista esistenziale. Addirittura siamo arrivati alla nostalgia di un non vissuto.
Sarà che il futuro, le nuove generazioni, non lo percepiscono né migliore né semplice?
Questa visione nasconde un grande buco culturale, sociale ed esistenziale. È preoccupante per i giovani. Non provo io la nostalgia degli anni ’80, che li ho vissuti e durante i quali ho avuto un ruolo privilegiato. Quel periodo mi ha permesso di occuparmi di sviluppare il mio sogno, che ho realizzato. Adesso continuo a esibirmi dal vivo, sono estremamente fortunato, eppure non ho nostalgia di quel passato. La new wave è morta e sepolta da tempo.

Garbo oggi. Foto press
Non c’è proprio più niente che si può recuperare?
Ma no, perché sono passati 50 anni. Un’intera esistenza. Se poi ci penso ho attraversato un secolo, non fa impressione? Da artista del Novecento c’è stata una mutazione che mi ha portato verso la metà degli anni 2000. Dovrebbe far capire ai ragazzi che le cose devono andare avanti, con nuove soluzioni e linguaggi, non si può far finta di nulla e recuperare il passato.
D’altronde, se delle nuove soluzioni non le troveranno i giovani, a breve le troverà per loro l’intelligenza artificiale.
Forse si rendono conto anche di questa drammaticità che li attende. Hollywood è in crisi, attori e sceneggiatori scioperano perché capiscono che il cinema così muore. Costa meno rievocare artificialmente qualcosa che pagare qualcuno per farlo. Mick Jagger e Keith Richards sono ancora vivi, e gli auguro di avere ancora tanti anni di fronte, ma i Rolling Stones sono morti tanto tempo fa. Che oggi esca un loro nuovo disco, come uno dei Pink Floyd o di David Gilmour, ormai a chi interessa? Se le persone li vanno a vedere, come i Depeche Mode o i Cure, alla fine vogliono sentire i primi album.
Morgan disse: «In un certo senso anche Vasco è morto a 27 anni, almeno musicalmente». Tu Vasco l’hai conosciuto?
Posso aggiungere al pensiero di Morgan una postilla: «E Vasco questo lo sa perfettamente». Solo che è diventato un’azienda, dà lavoro a centinaia di persone con relative famiglie. Si diverte, finché c’è la salute continua, però si rende perfettamente conto della realtà. Io lo conosco da 40 anni Vasco. È sempre stato un ragazzo intelligente e molto consapevole.
Ricordi un aneddoto che vi ha visto protagonisti?
Un pomeriggio eravamo a una manifestazione, non ricordo esattamente quale, ma era estate. Ci trovavamo nei camerini e su una porta c’era un cartello coi nomi degli artisti. Nel nostro c’era scritto “Garbo” più in grande e sotto “Vasco Rossi” in piccolo. In quel periodo, l’inizio degli anni ’80, non era così famoso. Abbiamo condiviso il camerino. Vasco, prima di salire sul palco, si è scolato una bottiglia di whisky, perché era molto timido. Ci siamo poi rivisti anni dopo, quando era finalmente esploso. Quando mi ha visto, certamente ricordandosi di quel cartello, ha detto: «Ehhh Garbo, c’è chi va su e chi va giù…». Era ironico naturalmente e io non me la sono presa. Lui, infatti, ricordo che ha sempre apprezzato la mia musica e me l’ha anche testimoniato. Mi ha detto, senza tanti giri di parole, che il suo non è rock ma musica nazionalpopolare. Fa canzoni per la gente. Mentre io più sperimento e più mi allontano dalla massa. È una legge non scritta: l’arte è inversamente proporzionale al mercato. Più sei vicino al capolavoro più ti allontani da ciò che è popolare.
Quale sarà la prossima sperimentazione di Garbo?
Dopo aver raggiunto l’obiettivo nel disco precedente, di cui ti parlavo prima, sono tornato a esibirmi nei live (il 31 maggio sarà al Legend di Milano, ndr) e non ho ancora con precisione idee su nuove produzioni. Ma sono sicuro che c’è sempre la possibilità di ricercare e sperimentare per provare a cambiare le cose e proiettarsi nel futuro. Dovrebbero farlo i giovani, ma non mi sembra che lo stiano facendo. Li invito a farlo, perché di strade ce ne sono tante da aprire, sia musicali che nel linguaggio.