Il fine dining è morto, e noi alla fine non stiamo così male | Rolling Stone Italia
marx? pure

Il fine dining è morto, e noi alla fine non stiamo così male

Per tracciare una mappa della "cucina raffinata" di oggi siamo partiti da Firenze, tra panorama internazionale e grandi hotel. Ai quali non interessa più, sembra puntare alla stella (Michelin)

La Gamella Firenze

La Gamella a Firenze

Foto: press

«Dio è morto, Marx pure, e io non mi sento troppo bene», recita un celebre aforisma di Eugène Ionesco reso internazionalmente celebre da Woody Allen. Negli ultimi anni questa frase potrebbe essere tranquillamente riferibile a come il settore del fine dining percepisce se stesso e a come la stampa lo racconta.

È oggettivo che non siano più i bei vecchi tempi, signora mia, lo si può intuire e percepire da tanti sintomi, come per esempio dalla chiusura di numerosi ristoranti stellati in giro per la Penisola, o dalla riconversione (o cambio formula) di alcuni di essi per provare a intercettare le nuove preferenze della clientela. Se insomma da un lato l’alta cucina continua a rappresentare un punto di riferimento, dall’altro molti esperti e addetti ai lavori si interrogano sulla sostenibilità economica e sull’effettiva attrattività di questo modello.

Secondo un’analisi condotta dal Sole 24 Ore, molti clienti benestanti stanno progressivamente abbandonando i ristoranti stellati non tanto per il costo elevato dei menu, ma perché l’esperienza offerta viene percepita come rigida e poco coinvolgente.

In particolare viene criticata la formalità del servizio e il rituale della degustazione obbligata, che impone tempi lunghi. Un altro problema strutturale riguarda i margini di profitto ridotti. Il fine dining “classico” richiede ingredienti pregiati, personale altamente qualificato e ambienti curati nei minimi dettagli. Ma il prezzo del menu, per quanto elevato, non sempre è sufficiente a coprire i costi di gestione. Se poi si comincia a ragionare su quello che è il capitale immobilizzato sotto forma di bottiglie di vino, scopriremo che nelle cantine sono nascosti migliaia di euro pre-spesi che torneranno nelle tasche dell’imprenditore uno stappamento di sughero alla volta.

E anche se non tutti concordano con la narrazione della crisi del fine dining (Alain Ducasse per esempio, uno degli chef più influenti al mondo, ha dichiarato in una recente intervista che l’alta cucina non è destinata a scomparire e che, anzi, continuerà ad attirare clienti alla ricerca di esperienze culinarie uniche) è innegabile che qualcosa sta cambiando. Un esempio molto chiaro in tal senso è Firenze, da sempre culla di uno dei panorami ristorativi più pregiati d’Italia, che in questa primavera vedrà lo sbocciare di moltissime nuove aperture, e nessuna di queste ha ambizione di stella.

L’overtourism e il turismo del panino
Firenze è ovviamente al centro del dibattito sull’overtourism. Il capoluogo toscano attira ogni anno milioni di visitatori, e l’equilibrio tra il turismo e la vivibilità della città si sta facendo sempre più precario. L’afflusso massiccio di visitatori ha trasformato il centro storico, rendendolo un luogo spesso difficile da abitare per i residenti. Il tessuto urbano è stato profondamente alterato.

Uno degli effetti più evidenti di questa pressione turistica è ciò che è stato definito il “turismo del panino”. Il fenomeno si riferisce all’abitudine di molti turisti di consumare pasti veloci, spesso acquistati nei numerosi take-away e fast food che si sono moltiplicati negli ultimi anni, per poi sedersi a mangiare sui gradini delle chiese, lungo i marciapiedi o nei pressi dei monumenti. Questo comportamento ha suscitato lamentele da parte degli abitanti e delle istituzioni, non solo per motivi di decoro urbano, ma anche per il deterioramento degli spazi pubblici.

A introdurre pesantemente la tematica nel dibattito pubblico fu, nel giugno 2021, il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt (che poi non a caso si è candidato come sindaco alle ultime elezioni) che propose l’introduzione di una tassa aggiuntiva per i locali di street food che non offrono ai propri clienti spazi con tavolini, costringendoli a consumare i pasti per strada. Schmidt dichiarò che «l’olio del panino e il ketchup non fanno bene alla pietra serena», e che fosse necessario pulire frequentemente per evitare che le macchie diventassero permanenti, evidenziando come gli Uffizi dovessero provvedere alla pulizia del loggiato esterno due volte al giorno.

Tanti turisti, tanti hotel. Tanti hotel, tanti ristoranti
In principio fu Four Seasons, primo grande hotel dell’era moderna nel capoluogo toscano, a sdoganare un concetto reputato tanto semplice all’estero quanto difficile da scardinare qui da noi: in albergo ci può entrare chiunque, anche chi non ha una stanza per la notte, per usufruire del bar e del ristorante. Non a caso l’Atrium Bar, con ormai da anni alla guida Edoardo Sandri, è uno dei cocktail bar più premiati d’Italia (non nella categoria “d’hotel”, in generale). Ed è proprio con il Palagio, il ristorante stellato guidato da Vito Mollica prima e da Paolo Lavezzini poi, che si è creata innanzitutto la curiosità e poi l’abitudine, per i fiorentini, di frequentare i grandi hotel.

Negli anni a seguire ogni nuova apertura di livello in città ha portato con sé un ristorante “da stella”. O almeno, così è stato fino al 2024. Se il 2025 infatti segna un piccolo record con l’apertura o la ristrutturazione di moltissimi outlet, sorprende scoprire che nessuno di questi contiene al suo interno un ristorante fine dining. Facciamo qualche esempio.

Aperto a marzo 2025, The Hoxton Florence è situato in un quartiere residenziale nel cuore della città, offre 161 camere, suddivise tra un palazzo tardo-rinascimentale e una moderna struttura progettata negli anni ’80 dall’architetto Andrea Branzi. L’offerta gastronomica è articolata su più livelli: il ristorante Alassio si ispira alla cucina marinara mediterranea, mentre l’Enoteca Violetta offre un’ampia selezione di vini in un ambiente informale.

The Hoxton Florence

The Hoxton Florence, Alassio Restaurant. Foto: Heiko Prigge

Il nuovo Collegio alla Querce invece ospita diversi spazi dedicati alla ristorazione, per un totale di quattro tra ristoranti e bar. Dalla serra alla veranda, fino al giardino barocco sottostante, il ristorante La Gamella propone un menu stagionale di classici italiani, serviti in un ambiente conviviale. Il Conservatorio, invece, è lo spazio più raffinato (e luminoso), pensato in formula all-day. Per un’atmosfera più informale, ecco il ristorante-bar a bordo piscina, Café Focolare, con menu che include pizze, paste, crudi e pure i celebri panini fiorentini; mentre la sera ci si sposta al Bar Bertelli, un tempo l’ufficio del preside del collegio.

La Gamella Firenze

La Gamella. Foto: press

La primavera 2025 segnerà anche l’ingresso del brand W Hotels a Firenze, con 119 camere e 16 suite, tra cui la Penthouse Suite dotata di terrazza privata con una vista piuttosto mozzafiato. Il piano terra ospiterà invece la W Lounge, in un mix di spazi interni ed esterni attorno a un cortile centrale parzialmente coperto. Il rooftop vorrebbe candidarsi al titolo di “destinazione” per i ritrovi a base di cocktail e piattini. Non si sa ufficialmente nulla del ristorante, ma le voci ufficiose (per cui abbiamo una corsi preferenziale) sussurrano di un’offerta gastronomica interessante, ma ancora una volta non da fine dining canonico.

Parliamo dunque di grandi bar, e di scommesse sulla ristrutturazione e la rivalutazione degli spazi per dare più importanza ai cocktail. I quali offrono buona marginalità economica e rendono gli hotel mete interessanti per gli appassionati. Per celebrare il suo venticinquesimo anniversario, per esempio, l’Hotel Savoy ha ristrutturato il ristorante Irene, a cui si aggiunge la nuova apertura del Bar Artemisia, dedicato alla pittrice Artemisia Gentileschi, il cui cocktail menu è firmato dal celebre Salvatore Calabrese. Obiettivo: reinterpretare l’aperitivo fiorentino con drink audaci che combinano ingredienti inaspettati come tartufo, Chianti e cuoio.

Hotel Savoy Firenze

Hotel Savoy, Firenze. Foto: press

Anche un altro storico hotel, il Balestri, affacciato sull’Arno a pochi passi da Ponte Vecchio e dalla Galleria degli Uffizi, ha appena aperto il proprio cocktail corner, Fede Cocktail Lab. Un omaggio all’arte della mixology ispirato alla figura di Fede Balestri Witum, dove ogni cocktail vuol parlare di sperimentazione. Anche grazie all’ambizioso laboratorio a vista che consente di sperimentare con tecniche più innovative.

Ma quindi nessuno apre più fine dining?
Quanti indizi servono per fare una prova? Il futuro di Firenze è già presente? Non lo sappiamo, ma per capirne di più siamo andati proprio dove tutto è cominciato, ovvero a Four Seasons, che ancora una volta ha anticipato tutti.

L’hotel infatti ha inaugurato a fine estate un nuovo ristorante dall’altro lato del Giardino della Gherardesca, e lo ha fatto proprio con un una proposta informale di pesce al ristorante Onde, i cui spazi ospitano DJ set ogni sera. Il progetto nasce dalla visione dello chef Paolo Lavezzini, legato alla Versilia dove la famiglia risiede. Il menu, ispirato alla costa toscana, è pensato per essere condiviso, con una selezione di piatti che spaziano dai crudi di pesce alla paranza fritta, passando per ostriche e champagne, e poi spaghetti alle arselle e altre ricette pescate dalla cucina anni Ottanta.

Onde Four Seasons Firenze

Il ristorante Onde del Four Seasons Firenze. Foto: press

«Siamo spettatori di un cambio di tendenza, e operando all’interno di un hotel di lusso come il nostro ho una posizione privilegiata per osservare i nuovi trend», così ci ha detto lo chef. «Senza dubbio le nuove generazioni (ma non solo, direi che si può osservare questo approccio in modo davvero trasversale) preferiscono un’esperienza a tavola più leggera, breve, divertente e dal servizio attento ma poco invasivo. Ai menu degustazione da oltre cinque portate viene spesso preferita una selezione à la carte, e l’ambiente ha sempre più una posizione protagonista nell’esperienza generale. Forse complici i tempi incerti, a tavola si apprezza sempre di più la spensieratezza, la nostalgia, l’emozione, la condivisione». Insomma, se aveste fatto una chiacchierata con lui avreste potuto evitare di leggervi tutto l’articolo sareste giunti alle medesime conclusioni.

In sunto: «Ciò che si cerca di trasmettere non è più la sola visione dello chef ma una connessione umana, un sorriso, un aneddoto, un momento di leggerezza che porta con sé una parentesi per ritrovarsi a fine di una giornata dai ritmi sfrenati. Ed ecco quindi la rivalsa dei bistrot, delle osterie, in pieno revanscismo. Soprattutto in luoghi come gli hotel, che sono sempre più frequentati anche da un pubblico esterno, la priorità è intercettare nuova clientela e saperla fidelizzare e trattenere, con un’esperienza che possa far sentire tutti a casa. Per non dimenticarsi mai che il nostro obiettivo condiviso è offrire un momento da ricordare, dove l’ego dello chef si metta da parte per lasciare sempre più spazio all’ospite”.

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