Com’è il nuovo album di Damiano David? Carino. Abbastanza. Pieno zeppo di ritornelli, poche strofe, grandi giri di do, volume a manetta, canzoni che sai esattamente dove vanno a parare dopo le prime quattro battute, massimo rispetto per la comfort zone di chi ascolta – resa ancora più comfort dallo stile internazionale e dai testi inglesi. Affetti. Algoritmi. Lavoro d’équipe. Reference: Harry Styles e Paul Anka, Beatles e Queen, anni ’50 e anni ’80, le età d’oro della canzonetta. Los Angeles, l’invenzione della musica pop. Don Henley, Bryan Adams.
Al meglio ci troverai il motivo che ti farà svoltare l’estate. Si piazza bene il nuovo singolo Zombie Lady col sequencer che pompa e una bambina che ti mangia il cuore (“con te l’aldilà sarà brillante”), perché c’è sempre qualcosa di macabro, dark, nel romanticismo maschile del personaggio. Bel tenebroso che ha tatuato un cuore spezzato sotto l’occhio sinistro e una stella sotto il destro, liebe und tod, love and hate, uno che conosce il sapore della solitudine, la fragilità, la malinconia. “Una canzone che mi fa piangere / e tutte le droghe che mi sono fatto / non mi faranno di più della prima volta che ti ho incontrato”. Ancora quella folle storia della cocaina all’Eurovision, chissà perché. Il tifo per la Roma. A Roma, ieri tutti parlavano del nuovo Papa che tifa Roma, per dire.
«Avevo appena visto La sposa cadavere, uno dei miei film preferiti», dice Damiano per spiegare Zombie Lady nella conferenza stampa che annuncia il suo esordio Funny Little Fears, una domenica all’ora di pranzo, a Roma in uno degli studi tempio della musica italiana coi fantasmi di Morricone e di Profondo rosso (per i più suggestionabili). E questo è il meglio. Il peggio, la cosa più fastidiosa: ti girerai a metà di uno dei dieci ritornelli e qualcuno approfitterà del picco dell’estasi per venderti un gelato, una scheda telefonica, una qualsiasi felicità. Non è la musica commerciale che dovrebbe preoccupare, è il commercio a suon di musica. “Nuova casa nuovo me nuovo stato / nuovo look nuova macchina targa nuova / ma ti sento ancora vicina”, canta in Voices, uno dei singoli che già conosciamo. “Queste voci mi troveranno”. A volte chi canta l’amore nelle canzoni intende molto di più che l’amore soltanto.
Il disco nasce da «un’esplorazione di me stesso», spiega Damiano, «avevo un senso di sconforto e tristezza e non sapevo perché». Segue quella che potrebbe perfino essere una rivelazione: «La rottura è partita dalla fine di una relazione, una cosa segreta. Mi sentivo depotenziato e non sapevo chi ero. Mi era stata portata via la mia identità». Accidenti. Il silenzio tra le file dei giornalisti impedisce di domandarmi se non ne so niente io o non ne sa niente nessuno, qui, del segreto. “Chiamami quando lui ti spezzerà il cuore / la prossima estate baby io ti aspetterò qui”, forse era già tutto in Next Summer, altro singolo. Quattro quelli già ascoltati. Ci si sarebbe potuti anche fermare: l’ispirazione non viene un tanto al chilo, dieci canzoni non sono nemmeno poche. Damiano rivela che soltanto alla settima ha sentito l’ansia della prestazione. Dicono che di canzoni il gruppo di lavoro ne avesse pronte almeno 70.
Prima di cominciare l’ascolto, un trailer di buona fattura ce lo mostra durante due settimane di retreat a Joshua Tree in California, dove il disco sarebbe stato scritto. Usiamo il condizionale perché il peso dello stotytelling è evidente: sopra uno di quei caravan da film americano, mentre guida un macchinone americano tra i cactus americani (secondo i mormoni erano le braccia di Giosuè che indicava la terra promessa), alla sera Damiano scrive i testi su un quadernetto vecchio stile. Lo stesso quadernetto nero copertina rigida che l’ufficio marketing ci infila nella borsetta coi gadget. Speravo che fosse la copia anastatica di quello visto nel trailer ma i fogli sono tutti bianchi, a righe. Peccato.
«Joshua Tree, le dune, il cielo limpido», azzarda lui quando qualcuno con l’età per farlo prova a obbiettare che Joshua Tree era l’albero degli U2. Era il 1987, 40 anni fa, e Bono aveva infilato il piano inclinato del profeta, altri tempi. Bono e gli U2 non sono una reference dell’album. Forse solo il primo singolo Silverlines aveva qualcosa di sospeso, secondo lo stile di allora: “Tutte le mie paure scompaiono (…) / perché la pace mi appartiene”. Natalizio, uscito l’anno scorso. E se invece Joshua Tree fosse come i Måneskin, la profanazione dei segni del rock? Ci si scopre a chiedere se per ipotesi il sottotesto di questi pieni e di questi vuoti sentimentali (e musicali), ansie, paure piccole, amori finiti e in bilico, malattie, distanze, metaforiche morti non stia in una specie di sindrome dell’impostore – che ci faccio io qui e perché – più che nella generica fragilità richiesta all’artista pop maschio di questi tempi.
Cioè nello stesso statuto dell’essere artista, ai tempi dei talent show e della cancel culture, dell’aggressività dei social, del gioco pericolosissimo della celebrity. Il peccato originale di X Factor e di quella “cocaina” all’Eurofestival dove – dice – non sarà tra i superospiti. Emigrato a Los Angeles («Vivere a Hollywood mi ha influenzato molto, è un’estetica che ho sempre amato»), Damiano sperimenta qualcosa per tutti noi, la sua fragilità ci appartiene profondamente. È il significato vero di tutte le sue canzoni. “Sono nato con un cuore spezzato / se fossi un cactus saresti un palloncino” (Born with a Broken Heart). “Quando sono malato di me stesso / tu sei la medicina” (Sick of Myself). “Mia ballerina ti sento ancora qui / quando ballo il tango con le mie paure” (Tango). Eccetera.
In partenza per una tournée mondiale. C’è una canzone, la più sorprendente di tutte, che si chiama Mars, Marte. “Il mondo è finito”, dice, “ma niente di nuovo / Faremo l’amore in una stanza più grande / Adamo ed Eva, Ross e Rachel, i Beatles e gli Who / quel che resta dell’umanità/ io e te”. È la cosa più politica del disco, la diserzione dal futuro. «Tutti parlavano dei razzi» spiega infine Damiano «e io pensavo: non ci voglio andare. Non voglio essere l’Adamo della nuova civiltà, sarebbe bello restare da soli sulla Terra che finisce, tanto dobbiamo morire prima o poi».