La scena è: un ritmo che risuona nella testa. Mueve la colita, mamita rica, mueve la colita. Somewhere in Puglia. Il bacino che si estende verso destra, poi sinistra. Nessuna vergogna, alla fine si è tra amici. Parte Rossetto e caffè e le cose cambiano: ti chiedi quanto in basso possa crollare la tua dignità. La mia si lascia ricattare facilmente da un buffet di dolci e una pastiera napoletana a cinque centimetri dalla mia faccia.
Mettiamola in breve: il matrimonio pugliese è una prova di sopravvivenza. Mi sento per un momento come Joel di The Last of Us, mi viene da ridere: chissà se ferisce di più un buffet di crudo o una mazza da golf.
Il matrimonio in Puglia è un fatto serio: la sala cerimonie si prenota con largo anticipo, almeno due anni prima. A sposarsi, oggi, mentre mi immolo per voi, è la mia migliore amica delle superiori, Sabina. Lei e il suo futuro marito, Francesco, me lo dicono una sera a Roma, con la faccia di chi ancora non ci crede. Osservo il biglietto: sotto l’IBAN c’è il nome della sala ricevimenti. “Villa Carafa. Ma pure voi?”.
View this post on Instagram
È giusto darvi qualche spiegazione. Ad Abby piacciono le mazze da golf (scusate, non mi sono ancora ripreso), ai Take That piace sciogliersi e ricongiungersi, a Topo Gigio piace prendersi il palco di Sanremo, agli abitanti della BAT (provincia di Barletta-Andria-Trani) piace Villa Carafa. È un fatto di cuore: le ostriche appena aperte, il cocktail di benvenuto, il sushi e il prosciutto crudo di Faeto tagliato al momento. Non un brutto posto, in effetti. C’è una quantità così sconsiderata di cibo che si inizia a mangiare ancor prima di conoscere il numero del proprio tavolo.
Il pranzo inizia in un giardino zen nel quale alcuni camerieri servono un piccolo aperitivo nell’attesa che tutti gli ospiti arrivino. Intorno al tavolo passano continuamente camerieri con bottiglie di Prosecco sempre nuove e ghiacciate. Si beve, si brinda, arrivano gli sposi ma si continua lo stesso a mangiare. È il cibo a far da protagonista, gli sposi diventano semplici invitati di una festa più grande. Sono le due del pomeriggio e finalmente inizia il buffet di antipasti, i primi di una lunga serie di aperitivi che servono solo ad aprire lo stomaco.
“L’importante è mangiare senza pane” è il mantra di queste occasioni. Tra pesce crudo, mortadella arrostita e taralli fatti in casa, iniziano a formarsi le prime file di persone in attesa di accaparrarsi il taglio migliore. “Chi è l’ultimo?” sento dire dietro di me, e allora mi convinco che la fila alle Poste nel giorno delle pensioni non è poi così male. Si va avanti per un’ora piena; nel mio piatto un nodino sta iniziando a spurgare il suo latte, mi implora di mangiarlo. Io che non ho dignità lo divoro appena gli sposi ci invitano nell’altra sala, per le foto di rito.

Foto: Mohamed Maalel
Sono classiche: prima gli anziani, poi tutti gli altri. Ci spostiamo in quella che sarà la sala principale, almeno per le prossime sei ore. Il DJ ha già sistemato le casse, alcune ragazze invitano a provare un aggeggio per le foto istantanee, ma io mi siedo al mio tavolo e sfoglio il menu. Due antipasti, due primi, un secondo e poi un generico “buffet di dolci”. Arrivano gli sposi, primo ballo a ritmo di Il mio inizio sei tu (sì, proprio quella di Anastasia), qualche lacrima (forse è il latte del nodino che cerca di fuoriuscire dal mio corpo) e finalmente ci accomodiamo per l’antipasto.
Si parla del più e del meno, dei vecchi ricordi di scuola, di quella volta in cui mi finsi etero ma nessuno mi credette. Alle tre, finalmente, viene servito un crudo di mare che ammiro per qualche secondo, prima di divorare. Mi ricordo uno degli insegnamenti più importanti di mia madre: ai matrimoni si mangia lentamente, altrimenti ti gonfi e non hai più fame. Nell’attesa del secondo antipasto, osservo due paninetti alle olive messi su un piattino. Tentatori: “Dài, nell’attesa assaggiami”. Presenza oscena. Rifiuto, cercando con gli occhi gli sposi che intanto vengono disturbati continuamente dagli invitati.
In Puglia è così: il cibo è per gli invitati, non per gli sposi. Mentre chiedo a una mia amica della sua ultima relazione tossica, il DJ invita tutti al centro della sala. È il momento delle danze: dividono le varie portate nell’attesa che tutto venga preparato à la minute. La musica è fortissima, esco a fumare (non sono un grande ballerino). Il matrimonio è anche memoria. I ricordi vengono a galla. Il cibo, in fin dei conti, accompagna.
Tutto si ferma: è pronto il primo. Risotto ai crostacei con brunoise di verdure al Pernod. Alcuni tentennano. Le interazioni del tavolo non riescono a scollarsi dal cibo: e chi non digerisce, e chi non ama il pesce… Arriva un altro primo, mezzelune con le melanzane e caciocavallo podolico. Mi dico che non posso esagerare, e infatti divoro sia il mio che quello di un’amica. Si fanno le cinque e un quarto: una cameriera, dietro di me, mi spinge sul fatto giusto un assaggino di pasta. E se fossi in chetogenica?

Foto: Mohamed Maalel
Secondo ballo, tre B: britpop, Britney e bagno. Selfie tattico con le luci fluo. Primo trenino, secondo trenino, una bambina crolla a terra ma nessuno ci fa caso, si riprende con il biscione. Sono le sei. Arriva il secondo, orata con panko stesa sugli spinaci, pure io vorrei stendermi su qualcosa di morbido. Sopravvivo ma la musica riparte, com’è più possibile, ancora più aggressiva. Va avanti così per un’ora, però nessun trenino.
Ci sono i primi caduti. Le persone più anziane se ne stanno sedute, i bambini giocano in disparte. A un certo punto sto ballando anche io, Rupaul’s Drag Race. È quel momento, fantomatico buffet di dolci. Cambiamo sala, naturalmente, a dieci minuti di lenta camminata. Al termine, torte colorate, vassoi di frutta fresca, angolo gelato, angolo crêpe, angolo alcolici e angolo cioccolato e sigari. Insomma, in ogni angolo era possibile assumere il proprio fabbisogno calorico giornaliero.
E perché non un po’ di frutta? I camerieri ne portano due vassoi a ogni tavolo, e poi tre piatti di dolci misti, e poi una torta. Intera. A noi tocca una pastiera napoletana, che ovviamente divoro con un certo charme (quel che resta). L’assunzione di zuccheri complessi e grassi dura un’altra ora. Mentre lavoro su una crêpe suzette alla Nutella, butto giù un caffè. Gli sposi si trasferiscono all’esterno per il taglio della torta. Sono quasi le nove. Si scambiano un bacio appassionato (in pratica un mezzo limone), mentre stanno già portando via la torta da distribuire ai tavoli. Le gambe ormai, paralizzate. Mi siedo con riguardo verso la doggy bag in carta con i dolci, ce li siamo divisi.

Foto: Mohamed Maalel
Ok, dobbiamo parlarne: lo spreco alimentare. Ho festeggiato moltissimi matrimoni, sembra che tutti vogliano sposarsi solo per invitarmi. Di eccesso ne ho visto, eccome. Se ne soffre, pure. A questo ultimo giro, però, ho notato qualcosa di diverso: portate più piccole, doggy bag di carta a ogni tavolo, nessuna mossa eclatante. Abbiamo divorato più del dovuto, certo. Da quando viviamo con l’idea di dover giustificare la nostra felicità, come se l’essere felici sia necessariamente qualcosa di nocivo, di eccessivo di per sé? Il cibo è una forma di felicità, almeno per me. Allora perché non festeggiarlo? Torneremo morigerati, ai panini confezionati, ai piatti da riscaldare per la pausa di mezzogiorno. Gioire con il cibo è un atto privato con il nostro corpo. E durante i matrimoni, per esempio, si trasforma in rito comunitario.

Foto: Mohamed Maalel
Comunque abbiamo finito la torta, quella vera. Mi allontano per una sigaretta. Dal taschino estraggo un Gaviscon, ogni pugliese in fuga da un matrimonio sa. Subito è una bella sensazione. Poi mi sale un forte malessere. Una sensazione che non riesco a decifrare. Forse un attacco di panico, un’ansia incomprensibile. Facciamo già parte gli uni dei ricordi degli altri. Festeggiare un matrimonio, in Puglia soprattutto, con tutto questo cibo che tira fuori delle cose, vuol dire fare a pugni con il proprio passato e il proprio presente. Chi siamo stati e chi siamo ora, a cosa brindiamo e perché lo facciamo.
Comincia l’ennesimo ballo. Finalmente, mi lascio andare. Abbraccio Sabina e Francesco, è ora di andare. Fuori ci sono fuochi d’artificio. Quanto tempo passerà? Cammino a testa bassa verso il parcheggio. Sento ancora la musica. Amicizie, affetti, litigate, compiti in classe, promesse fatte, rotte, mantenute. Tempo perso e tempo recuperato. E uno poi si chiede: vale la pena? Dopo tutto questo tempo? Sempre.