Non (più) moda, non tendenza effimera né fenomeno circoscritto. Per coinvolgimento ed eterogeneità si potrebbe definire movimento. Di certo si può affermare che la “cosa” del vino naturale è qui per restare e, soprattutto, per crescere. Lo abbiamo verificato partecipando al festival Baccanal x Karakterre che, alla vigilia del Vinitaly, ha riunito decine e decine di vitivinicoltori, enotecari o semplici appassionati a Villa Ca’ Vendri, appena fuori Verona. Tra una degustazione e l’altra, abbiamo avuto conferma del fatto che questa tipologia enoica incontra sempre più il favore del pubblico e, di conseguenza, che il numero dei produttori è in continuo aumento.
Passo indietro: Karakterre è il salone internazionale del vino naturale creato nel 2011 da Marko Kovac, personaggio poliedrico e nome di spicco del settore che si muove tra l’Austria e gli Stati Uniti. Originario di Zagabria, ci racconta del suo primo mentore, il “guru” sloveno Valter Kramar, patron con Ana Roš del ristorante Hiša Franko a Caporetto (o Kobarid in sloveno). Nei primi anni 2000 Kovac ha cominciato a sconfinare in Friuli e da lì a girare nel resto d’Italia, trovando nel nostro paese chi potesse assecondare la sua passione per un modo diverso di produrre, bere e vivere il vino.
«Portare Karakterre a Verona è la chiusura di un cerchio», ci dice. «Qui c’è una scena interessante: il movimento è molto forte. Ma a poche ore di viaggio in auto, in Austria o in Repubblica Ceca, in Slovenia o in Croazia, ci sono validi produttori che non hanno rappresentanza e sono interessati al mercato italiano». Da qui la collaborazione con Francesco Martinelli, organizzatore di Baccanal. Lui ha un’azienda in Soave e, come Kovac, una passione che viene da lontano: entrambi dichiarano di aver iniziato a bere con i vini naturali, senza mai alcun trasporto per quelli convenzionali.

Foto: Morethanstudio
Martinelli e Kovac, insieme all’amico Niko Dukan (produttore tra Sebenico e Spalato), snocciolano uno dopo l’altro i nomi di chi ha, nei fatti, creato il movimento naturale in Italia. A partire dal visionario Joško Gravner, padre putativo dei vini arancioni (i macerati che vanno per la maggiore) di casa nostra e (ri)scopritore delle anfore di terracotta georgiane, da lui portate per la prima volta nel Collio Goriziano. E poi Angiolino Maule, artefice dell’associazione VinNatur (300 aziende rappresentative di tutta Europa), che di recente ha battibeccato con Oscar Farinetti, reo di aver apostrofato il vino naturale come roba “fascista” e “da fighetti”.
Si ricordano i grandi vecchi: Emidio Pepe, la cui cantina conserva ancora oggi 40 annate vintage, un’enciclopedia del Montepuliciano d’Abruzzo. E i compianti Lino Maga, Gianfranco Soldera, Stanko Radikon. La loro eredità è stata raccolta dai nuovi vignaioli, popolo variopinto e per lo più giovane: a Villa Ca’ Vendri, a occhio, la media è quarant’anni o poco più.

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A guardarli, ci viene da reinterpretare una frase celebre: Stay thirsty, stay foolish. I vignaioli “matti” contemporanei sono esattamente come te li aspetti: non vedi azzimati sommelier, bianche camicie inamidate, giacche nere e tastevin al collo, come nei banchi di degustazione tradizionali, ma uomini e donne in jeans e salopette, felpe e T-shirt, piercing e tattoo. Post grunge o new hippy, quando non bevono vino sorseggiano tisane (Wilden Herbals) e caffè filtrato (gli specialty di Luta, coffee shop a Zagabria). Arrotolano sigarette e hanno una passione per i formaggi e i salumi artigianali (portati al festival da Bu Cheese Bar e Macelleria Cazzaniga). Come secchiello del ghiaccio, qualcuno usa una bacinella di alluminio, qualcun altro una pentola vintage.
Pure i calici sono stupendi: firmati Zalto, l’azienda austriaca di vetri soffiati a bocca che ha legato il suo nome ad Hans Denk, il “sacerdote del vino”, parroco nella vita (è mancato nel 2016) e tra i massimi e più influenti esperti di enologia al mondo.
A dispetto di un’apparente omologazione anche estetica, a tratti vagamente folkloristica, chiacchierando con alcuni dei produttori si coglie un pensiero preciso a guidare il lavoro in vigna e in cantina. Ci sono Martina Panarese e Maurizio Carucci (sì, quel Carucci) di Cascina Barbàn, collettivo piemontese rannicchiato in una piccola valle quasi al confine con la Liguria: hanno salvato vigneti abbandonati di 50, 60, forse 70 anni e uno in particolare, il Muetto, che era scomparso e che oggi, grazie a loro, è stato registrato tra le varietà autoctone.
C’è Shun Minowa, giapponese approdato nei colli piacentini che fa fatica a pronunciare Ortrugo ma poi lo mette benissimo in bottiglia, sotto lo sguardo quasi paterno di Giulio Armani della cantina Denavolo, che gira instancabile tra i banchi di degustazione perché conosce tutti, e tutti conosco lui e i suoi “proto” orange wines, tra i primi a seguire lunghe macerazioni, zero solfiti, zero filtrazione. C’è Ivan Chirico della Balenaia, azienda di Vinci, che vinifica Trebbiano e Sangiovese in anfore Tava (ospiti del festival) e, forse influenzato dall’illustre concittadino Leonardo, sperimenta bizzarie varie tra cui una chimerica acqua alcolica.
Naturalmente c’è la Cantina Martinelli del nostro ospite Francesco. La tenuta comprende tre piccoli cru di Garganega risalenti agli anni Cinquanta-Sessanta. I vini conservano l’acidità e la freschezza del frutto combinata con la mineralità del suolo, concetto su cui Martinelli si spende molto: «Noi parliamo con la terra. Quando apri una bottiglia puoi immaginare dove sei. Come puoi sentire la differenza tra vigne vecchie e vigne giovani, così tra i suoli: vulcanico come il mio (ne espone un nero frammento sul banco degli assaggi, nda), calcareo, marnoso».
Gli stranieri arrivano da tutta Europa e tutti insieme condividono bottiglie e filosofia spicciola. Dalla Francia abbiamo conosciuto Lili Desdouit (La Sauvagère), in realtà spagnola, mantra “El amor es el motor”. Dalla Slovenia è arrivata Kristina Mervič (cantina JNK) che riprende il motto di Goethe: “La vita è troppo breve per bere vini mediocri”. In cartellone aziende austriache, ceche, croate, georgiane, tedesche, ungheresi, rumene, slovacche.

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Si percepisce forte un senso di comunità che, unito al gradimento in ascesa tra i consumatori, sembra essere una molla efficace per fare proseliti. «Quello che vediamo è che sempre più viticoltori convenzionali decidono di fare switch sui vini artigianali. Vogliono essere parte della comunità”, osserva Kovac. «In molti stanno lasciando VieVinum, l’equivalente di Vinitaly in Austria, per venire a Karakterre. Spesso sono figli di produttori tradizionali, ragazzi di 25 o 30 anni, che abbandonano la via segnata dai genitori e cambiano strada».
Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare a una contrapposizione netta tra i due universi, naturale e convenzionale. «Non c’è competizione, tutt’altro», è la convinzione di Martinelli. «Noi siamo come la ricerca per la scienza. Tutti questi wine maker sperimentano come lavorare senza chimica. E i viticoltori convenzionali in un certo senso ci “usano”. Magari hanno paura di fare un passo in una direzione nuova, non osano, ci dicono: no, è impossibile…». «Poi, quando vedono che il mercato funziona, allora vogliono fare lo stesso: li chiamano “progetti speciali”» conclude Kovac, sornione.
L’approccio resta profondamente diverso: «Loro (i convenzionali, nda) imparano a usare dei prodotti per sistemare le cose, noi non usiamo nulla e vediamo cosa succede: in base a questo, se servirà l’anno dopo aggiusteremo il tiro», spiega Martinelli. Questa logica produttiva è evidentemente molto lontana e improponibile per le grandi aziende da milioni di bottiglie: «Chi fa grandi quantità deve correggere le distorsioni. C’è tanto lavoro in cantina, che però tiene i vini come imbrigliati. A cominciare dall’uso di lieviti selezionati, che impongono al vino di imboccare una determinata strada».
Da un lato c’è standardizzazione, dall’altro la libertà di espressione dei lieviti indigeni, quelli che si sviluppano naturalmente nel mosto: in partenza, forse non sai bene dove andranno, ma puoi sempre stare a guardare e agire di conseguenza. A questo proposito, Martinelli fa un curioso paragone equestre: «Se hai una scuderia con tanti cavalli ci saranno quelli più educati e quelli più bizzarri, ma quando devono trainare la carrozza devono stare tutti in riga e a logica i più pazzi dovrebbero essere controllati. Noi facciamo l’opposto: magari c’è un cavallo che è vecchio e zoppo, allora lo facciamo andare da solo, e c’è quello matto che forse l’anno prossimo si sarà calmato».
«Una delle frasi più belle di Zeno Zignoli (grande produttore di Amarone e Ripasso, nda) è che dobbiamo cercare di non rovinare l’uva che portiamo a casa. Per questo seguiamo le fermentazioni e stiamo a vedere dove vanno intervenendo il minimo possibile. Adesso abbiamo capito in quali stadi usare la solforosa (il conservante in genere cautamente accettato, con limiti di molto inferiori a quelli dei vini biologici, nda), da dove arriva l’effetto della mousiness del brett (l’odore “di topo” o di stallatico dovuto all’azione di un batterio, il Brettanomyces: per capirci, quello dei vini naturali che “puzzano”, nda). Li stiamo conoscendo perché ci stiamo vicini».

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«Il vino naturale non è un nuovo vino, è il vino come è stato fatto nei secoli», prosegue Martinelli. Con cui osserviamo come, negli ultimi anni, si stiano bevendo bottiglie sempre migliori: «Da un lato accade perché stiamo aumentando le nostre conoscenze. Dall’altro perché i consumatori stanno abituando il palato: ho scelto di bere così perché voglio rispettare la natura e il pianeta, quindi scelgo con la testa, non con il naso. Il mio naso deve imparare a capire che quello che la mia testa ha scelto è corretto».
Se chi beve sta imparando, l’offerta diventa via via più ampia. Non solo nelle vinerie, trattorie e osterie cosiddette “contemporanee” che punteggiano le città, ma anche nei ristoranti fine dining. «Sono vini espressivi, con un approccio affine a quello gastronomico», osserva Kovac. «Se lavori con ingredienti freschi, puoi fare grandi abbinamenti e rendere il vino complementare al cibo».
Il sole si è fatto alto. Rientriamo in villa per trovare un po’ di fresco e proseguire le degustazioni. Proviamo un Grande Waldo di Nikolas Juretic: Tocai Friulano, Malvasia Istriana, Ribolla Gialla e altre uve, da vitigni di età compresa tra i 60 e i 110 anni. Ci guardiamo intorno in cerca di uno “spittoon”, il contenitore in cui svuotare il bicchiere o “liberarsi” la bocca prima di passare al prossimo assaggio. Ma subito ci ripensiamo: parafrasando il già citato Goethe, la vita è troppo breve per sputare un vino buono. E mandiamo giù.