'Étoile', la recensione della nuova serie di Amy Sherman-Palladino | Rolling Stone Italia
I married myself

Vorrei vivere in una serie di Amy Sherman-Palladino

Dove Charlotte Gainsbourg fa screwball comedy, Luke Kirby pare recitare una partitura jazz e Lou de Laâge piazza un clamoroso debutto in lingua inglese. Come in 'Étoile', il ritorno di Nostra Signora della serialità d’auteure (d'autrice, è voluto) dopo 'Mrs. Maisel'

Vorrei vivere in una serie di Amy Sherman-Palladino

Luke Kirby in 'Étoile'

Foto: Prime Video

Vorrei vivere in una serie di Amy Sherman-Palladino
Vedere tutti muoversi in master shot elaboratissimi
Con le protagoniste che non cercano di piacere, ma di sopravvivere
In equilibrio precario tra humor e drama.

Vorrei vivere in una serie di Amy Sherman-Palladino
Con i dialoghi a macchinetta e poi arrivano (letteralmente) gli Sparks
Vorrei il meraviglioso caos delle serie di Amy Sherman-Palladino
Tutto riferimenti alla pop culture e Lenny Bruce.

Al di là del giochino semicitazionista (ci torniamo), sì, io in una serie di Amy Sherman-Palladino vorrei viverci davvero, una volta di più ora che, dopo il cult Una mamma per amica e la magnifica The Marvelous Mrs. Maisel, Nostra Signora della serialità d’auteure (d’autrice, è voluto) ha portato in tv una nuova avventura amyshermanpalladinianissima, al punto che forse era incredula pure lei quando Jeff Bezos (o chi per lui, questa volta evidentemente in un impeto di femminismo “reale”, non quello farlocco e commerciale del Blue Origin) le ha firmato un assegno in bianco (o quasi, a giudicare dalla grandeur del progetto) per una storia ambientata nel mondo del balletto tra Parigi (ma “questa non è Emily in Paris, dove la Torre Eiffel si vede dappertutto”, sbam) e New York, dove le due massime istituzioni della danza decidono di scambiarsi gli artisti per far fronte comune alla crisi delle arti post-Covid: ovviamente mentre le scarpette da ballo volteggiano sul palco, il vero drama sta dietro le quinte. È un universo in cui ogni plié nasconde un gioco di potere e nessuno raggiunge il centro della scena senza qualche livido, fisico e (soprattutto) emotivo.

ÉTOILE | Trailer Ufficiale | Prime Video

“Siete strani”, dice una ragazza al direttore artistico del Metropolitan Ballet Theater (David Haig), che fa serata in un locale con i colleghi. Risposta: “Be’, siamo nel mondo del balletto”. Ecco, fondamentalmente Étoile fa per la danza classica quello che Mozart in the Jungle (dateci un’altra stagione, o almeno un film!) ha fatto per la musica classica: stesso trattamento “punk”, über-ironico e larger than life per un’arte considerata elitaria e ingessata e che per i protagonisti diventa unica ragione di vita. “Quando ami la musica nient’altro importa, giusto?”, sosteneva Rodrigo, il direttore d’orchestra più cool su piazza (un gigantesco Gael García Bernal), nella serie di Roman Coppola e Jason Schwartzman; “Ti piace ballare, vero Cheyenne?”, chiedono qui alla prima ballerina di tutte le prime ballerine (Lou de Laâge): “No, ma è quello che sono, quindi non importa”.

Certo, chi segue Sherman-Palladino sa che il balletto è sempre stata un’ossessione per lei e che, tra Una mamma per amica (Miss Patty!) e Mrs. Maisel, c’è stata la sottovalutatissima Bunheads, una sorta di riscaldamento per Étoile. Pure lì la danza era il cuore di tutto, ma non si trattava MAI davvero solo di quello: era un “romanzo di reinvenzione” di una showgirl di Las Vegas, Michelle (Sutton Foster), che si ritrovava vedova a insegnare alla ragazzine in una scuola di provincia, con tutti i drammi – cittadini e adolescenziali – del caso. In pratica Bunheads sta a Gilmore Girls come Étoile sta a Mrs. Maisel. Ci sono le coreografie al posto della stand-up comedy, i body e i tutù al posto dei corsetti e delle gonne Fifties di Midge, ma Sherman-Palladino continua a indagare lo showbiz come campo di battaglia quotidiano. Anche questa infatti è più di ogni altra cosa una serie sull’ambizione: artistica, personale, persino nazionale. E il balletto diventa un’altra lente attraverso cui parlare di corpi (e menti) spinti al limite, istituzioni in bilico e della bellezza distruttiva che c’è nell’inseguire qualcosa di viscerale, inesorabile, trascendente, anche a costo di perdere se stessi. E poi – magari, chissà – ritrovarsi.

Una scena di balletto in ‘Étoile’. Foto: Prime Video

E torniamo al gioco dell’inizio courtesy of I Cani, perché se nella serialità c’è un’autrice che si distingue per grammatica, estetica e contenuto (come Wes Anderson al cinema, il vecchio adagio “riconoscere un autore dalla prima inquadratura o dalla prima battuta”), è Amy Sherman-Palladino: quei sontuosissimi e tecnicamente laboriosissimi piani d’insieme, le battute a raffica che sono il pane di Lauren Graham e Rachel Brosnahan, i giochi di parole, la cultura pop sapientemente infilata qua e là ogni volta che si può, le canzoni che letteralmente vivono della (e nella) storia. Anche Étoile è intrisa di dialoghi frenetici e argutissimi, quasi musicali nel loro ritmo forsennato, di master shot che sono l’inquadratura d’elezione dei balletti (ma non solo) e, ovviamente, di protagoniste meravigliosamente incasinate, resilienti e costantemente impegnate a muoversi in spazi spesso dominati dagli uomini (soprattutto dietro le quinte) con stile e carisma: “A volte, per far funzionare le cose in un mondo di uomini, serve un uomo”, rincarava la dose Midge.

Sta proprio nel casting against type della sua première dame una delle scelte migliori e più internazionali di Ètoile: Charlotte Gainsbourg è un match made in heaven nel ruolo della direttrice ad interim del Ballet National, al punto da riscrivere in parte l’idea di protagonista per i Palladinos (sì, c’entra pure il marito di Amy). È il French chic che incontra l’eccentricità, l’eredità della Nouvelle Vague che abbraccia quella della screwball comedy, l’understatement che sguazza nel too much. È una donna forte, tosta, indipendente (pardon), circondata da un caos che non riesce a controllare e alle prese con i suoi demoni personali mentre cerca di tenere a galla una delle istituzioni più tradizionali che esistano. In pratica lo stesso DNA di Lorelai Gilmore, Midge Maisel o Michelle di Bunheads, ma attraverso una lente europea più dark, persino più freddina. La sua Geneviève non ha l’energia frizzante di una tipica eroina à la Palladino, ma qualcosa di più ardente e intenso: controlla le sue emozioni, le fa ribollire appena sotto la superficie e le fa esplodere ancora più potenti. E Charlotte ha anche una goffaggine inaspettata e un’incredibile naturalezza per la commedia fisica, sempre in tailleur Chanel però, non scherziamo.

Yanic Truesdale e Charlotte in Gainsbourg ‘Étoile’. Foto: Prime Video

Se Gainsbourg è la sorpresa di Étoile, Luke Kirby è la certezza: il fattore Lenny Bruce di ritorno, qui nei panni del direttore esecutivo della compagnia di balletto di New York. La sua performance nel ruolo del comico from real life di Maisel (per cui ha vinto l’Emmy e i nostri cuori, hm) era umorale e irresistibile senza sforzo, e ci sono echi di quello charme e di quella gravitas anche nel Jack di Étoile. I personaggi di Sherman-Palladino però sono raramente dei maschi alfa. Sono brillanti ma discreti, complessi, vulnerabili, un po’ spezzati, a volte impacciati, e Kirby è tutto questo e molto di più: la sua interpretazione è un’altra masterclass su come rendere un personaggio maschile scritto da Palladino vivo e traboccante di sentimenti. Jack vive di danza pur non ballando in prima persona, ha un peso emotivo che non sempre riesce a esprimere o sostenere, cammina sul filo del rasoio tra idealismo creativo e burocrazia amministrativa ed è lo slow burn che tiene acceso tutto, l’epicentro emotivo, la sicurezza nel subbuglio. Non si può sopravvivere in un copione di Palladino se non si riesce a gestirne il ritmo, e Kirby ha un dono: non pronuncia le parole, le scandisce come fossero una partitura jazz. E ne coglie il cuore sotto lo humor.

Luke Kirby in ‘Étoile’. Foto: Prime Video

Ci sono il coreografo geniale e pazzissimo (la star di Broadway Gideon Glick), la nepo baby della Ministra della Cultura francese (Taïs Vinolo), la figlia della signora delle pulizie che si esercita di notte nelle aule mentre la madre lavora (LaMay Zhang), il ballerino figo, capace ma vagabondo (David Alvarez), e quello ambizioso ed egocentrico (Ivan du Pontavic), e persino un cameo di David Byrne. E poi c’è lei: Lou de Laâge (sì, quella di Un colpo di fortuna di Woody Allen, in un clamoroso debutto in lingua inglese) alias “l’incomparabile Cheyenne Toussaint” (cit.), la danseuse più straordinaria della contemporaneità, ma pure guerriera dell’ambientalismo, che quando non è impegnata a teatro va sulle navi per difendere le balene e pure lì terrorizza tutto l’equipaggio. Nemmeno Cheyenne (mille punti per il nome) è un’eroina tipica dell’autrice: non è caos, è precisione, controllo e insieme ribellione. È inflessibile con tutti, ma prima di tutto con se stessa. Non parla a cento all’ora, ma si esprime semplicemente muovendosi. Il suo linguaggio è la fisicità (anche interpretativa), è poesia per immagini che si insinua silenziosa in un romanzo iperverbale: quando balla I Married Myself (con gli Sparks a fianco sul palco) il tempo si ferma. E de Laâge incarna una profondità feroce che si intreccia con i toni più sarcastici di Amy. Non ha bisogno di spiegare troppo la vita interiore del suo personaggio: sta tutto nelle espressioni del viso, nella tensione del corpo, nel modo in cui entra in una stanza e, ogni volta, fa il panico.

Lou de Laâge in ‘Étoile’. Foto: Prime Video

Tutto questo per Palladino si traduce in una forma di narrazione più visiva e meno “chiacchierata”, in un certo senso più matura, tridimensionale, sfumata. Étoile è una serie più “grande” in tutti i sensi: più audace, più globale, produttivamente monumentale, visivamente magnifica, emotivamente impegnativa. È la sua serie migliore? Forse no, ma questo non toglie nulla alla meraviglia di un mondo coreografato con tanta cura. E se c’è un passo falso in Étoile è che a volte cerca di essere troppe cose insieme: dramedy sul lavoro, romance estroso, satira spietata di un mondo che pare etereo ed è invece brutalissimo, riflessione sul prezzo che l’arte deve pagare nei confronti del capitalismo (vedere alla voce Crispin Shamblee, alias Simon Callow, magnate del petrolio con un soft spot per la danza) non solo per reinventarsi, ma per rimanere al passo con i tempi o, addirittura, per sopravvivere. Vorrei vivere in una serie di Amy Sherman-Palladino, che anche quando scivola lo fa con la stessa grazia di Cheyenne.