‘Havoc’ con Tom Hardy è il miglior action di Netflix? | Rolling Stone Italia
Buddellu ammerigano

‘Havoc’ con Tom Hardy è il miglior action di Netflix?

Sì, ma ci vuol poco, se pensate alla disastrosa trilogia composta da 'Red Notice', 'The Gray Man' ed 'Extraction'. E Tom Hardy e Gareth Evans sono una certezza per il genere, che torna a farsi sporco, fisico, brutale. Come dev’essere

‘Havoc’ con Tom Hardy è il miglior action di Netflix?

Tom Hardy in 'Havoc'

Foto: Netflix

Ogni volta che Netflix annuncia un film originale il divano trema, quando poi è un action pure di più, perché l’approccio al genere pare quello di uno che ha comprato il dolby surround per guardare le repliche di Un medico in famiglia. Quando si è iniziato a parlare di Havoc, però, qualcosa diceva che sarebbe stato meglio (o almeno, meno peggio) degli altri. Anzi, qualcuno: Tom Hardy – who else – e Gareth Evans, il pazzo visionario gallese che ci ha regalato The Raid.

La trama? Irrilevante. No, davvero: se state cercando una storia, avete sbagliato film. Ma se vi piacciono le scazzottate al rallentatore in corridoi claustrofobici, le risse in cantine allagate illuminate solo da una lampadina storta, i detective caduti in disgrazia che portano avanti la propria crociata morale con lo stesso entusiasmo di uno che ha perso il telecomando durante il Super Bowl – allora benvenuti a casa. O, meglio: benvenuti all’inferno, perché Havoc è, come da titolo, un’ora e mezza di buddellu (cit.), 90 minuti secchi (e già per questo applausi) di Tom Hardy che pesta chiunque gli si pari davanti, senza sosta, senza pietà, senza nemmeno togliersi il cappotto.

Il film è ambientato in una città americana popolata da gang, poliziotti corrotti e tossici col machete, un mix tra Gotham e Sin City, un purgatorio urbano senza nome né coordinate dove è quasi sempre notte, piove costantemente, c’è sempre gente che sembra non andare mai da nessuna parte e che ha fatto scelte che cerca instancabilmente di giustificare. E quella giustificazione però arriva solo a colpi di proiettile. Hardy interpreta Walker, un detective con una faccia da chi forse non ha mai dormito e il look di chi va a far colazione armato. Dopo un’operazione antidroga andata male, si ritrova invischiato in una spirale di violenza, corruzione e famiglie criminali, nel tentativo di salvare il figlio di un politico dai bassifondi. Ma il figlio è un MacGuffin, il politico pure. Quello che conta è il percorso. O, più precisamente, le mazzate.

HAVOC | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Gareth Evans qui torna alle origini: ogni scontro diventa una coreografia, i piani sequenza ci fanno sentire addosso quanto sia fradicio e lurido tutto e la regia sembra dire: “Lo sappiamo che siete cresciuti con John Wick, ma ricordate quando i film d’azione vi facevano male anche solo a guardarli?”. Sì, Havoc fa male. Ogni pugno si sente. Ogni calcio pure. Ogni volta che Hardy spacca una sedia sulla schiena di qualcuno, lo sentiamo un po’ anche noi. E questo succede perché Tom Hardy ci crede, così come ci crede il film stesso, in un’epoca in cui il cinema d’azione troppo spesso si traveste da videoclip per lavare via la colpa di voler solo divertire.

È un film pieno di cicatrici Havoc, di porte sfondate, di sangue sui muri. Di ambienti in cui non vorreste mettere piede nemmeno con un visore VR. Evans, che con The Raid ha riscritto il manuale del pestaggio cinematografico, qui cambia registro ma non intenzione. Niente estetica da kung fu contemporaneo, niente acrobazie da videogame. Havoc è puro corpo contro corpo. È Hardy che cade da due piani, si rialza, barcolla, pesta uno con un cassetto, poi si accascia dietro una lavatrice, sputa un dente e si rimette in piedi. Non c’è eroismo, non c’è coolness: c’è la fisicità disperata di chi sa che ogni stanza è una trappola e ogni corridoio un’arena.

E poi, sì, c’è lui: una sorta di moderno Humphrey Bogart meets Marlon Brando meets Bruce Lee con accento cockney (qui tenta quello americano, con risultati “bene ma non benissimo”) e problemi di gestione della rabbia. Hardy ha interpretato Alfie Solomons in Peaky Blinders con la verve di un attore di teatro sotto ketamina, è capace di passare dal villain di Batman Bane all’antieroe tormentato in Taboo, dalla ferocia che incontra l’umorismo più grottesco di Bronson alla metamorfosi commerciale di Venom fino al poetry reading in macchina in Locke, tutto con un’intensità che a volte sfocia nel borderline. Qui sembra aver deciso di mettere insieme tutti i suoi personaggi più violenti e buttarli in un frullatore. Il risultato è puro caos testosteronico. Ma un caos con la grammatica di chi conosce il genere, lo ama, e lo vuole elevare. Hardy non è mai caricaturale, non è mai ironico, ci ricorda che esistono ancora attori che portano l’action sulle spalle senza trasformarlo in baraccone. E Gareth Evans, anche con qualche limite, conferma di essere uno dei pochissimi registi occidentali capaci di mettere in scena il corpo come spazio drammatico, non solo come bersaglio di pugni e pallottole.

Foto: Netflix

Quindi Havoc è davvero il miglior action di Netflix? La risposta breve è sì. Ma ci vuol poco se il confronto è con la trilogia degli esercizi di stile che sembrano girati in smart working: Red Notice, che scambia la sola presenza di Ryan Reynolds per una scena d’azione, The Gray Man, tra occhiali da sole e nulla cosmico, ed Extraction, che, per quanto ci abbia provato, aveva lo stesso peso drammatico di una partita a paintball. Havoc è una botta allo stomaco, una discesa senza freni nella parte più putrida di un sistema che ha perso ogni coordinata morale. E non ha bisogno di spiegare tutto: ce lo fa sentire addosso. Se The Raid aveva l’estetica dello scontro marziale, Havoc ha quella della sopravvivenza: qui non si combatte per vincere, si combatte per uscire vivi dalla scena successiva.

Certo, il film ha dei limiti. Come dicevamo, la sceneggiatura è quel che è, alcuni comprimari sono sagome da bersaglio mobile (peccato per Forest Whitaker e Timothy Olyphant) e la reiterazione della violenza potrebbe risultare faticosa. Ma è proprio lì che Havoc si realizza: nella sua insistenza. Perché Evans, da regista-coreografo quale è, non ci vuole stupire. Ci vuole trascinare. Spossarci. Portarci alla resa e farci finire il film distrutti come il suo protagonista.

E non è un caso se la conclusione non è trionfale ma straziante. Il corpo di Hardy arriva alla meta, ma a pezzi. Non c’è gloria, non c’è redenzione. Solo un’ultima sigaretta accesa col fiato corto. Come a dire: il cinema d’azione può ancora avere un’anima, ma deve pagarla cara.