Infine anche il papa con la migliore messa a terra ha preso il cielo.
Alle 4:57 di sabato 26 aprile 2025 Roma sta ancora dormendo, ma Via della Conciliazione sembra già il corridoio di un backstage: qualche ambulante che testa gli accendini con l’effigie bergogliana, gli uomini della sicurezza che posano con cautela da stivatori le transenne, il profumo di cornetti appena scongelati che sfiata da un bar di Borgo Pio.
Nel cielo, i gabbiani – di colore bianco come colombe delle pace, ma d’indole pugnace almeno quanto un Eurofighter – pattugliano Roma in larghi cerchi: sembrano droni bio, immuni alle no-fly zone imposte per l’evento, che nessun tiratore scelto potrà insidiare, seppure dotato di uno di quei bazooka comicamente colossali, alla Metal Gear.
I passi degli insonni sui sampietrini ancora bagnati di rugiada o di altri liquidi più odorosi risuonano come prove audio a volume minimo, in attesa del grande show che, almeno a memoria, non dovrebbe ammettere bis. E invece ci sarà un colpo di scena.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
Incedono alla stessa ora, per lo stesso appuntamento importante, diplomatici con la quarantottore già fatta per il volo di ritorno e filippini con la busta del supermercato con dentro tutto l’occorrente per lunghe ore fuori casa. «Ma alla fine ‘sta grande pace non è che è solo perché semo usciti de sabato alle 5?», romaneggia, senza perdersi una sola scenetta, il solito romano.
Alle 7 piazza San Pietro è già piena, non affollata; colma come una vasca che si riempie lentamente, senza fare troppa schiuma: nessuna spinta, solo un lento assestarsi di corpi. La Sala Stampa vaticana parlerà di 250 mila presenze, cifra che le immagini aeree confermeranno senza bisogno di particolari sovraimpressioni. Il colonnato di Bernini è un’installazione sociale. Umili e capi di Stato potati in perfetto ordine come siepi di un giardino all’italiana. Ma è la foresta fuori ad essere tanto più interessante.
A vederli tutti insieme, dall’alto, a volo di drone autorizzato, i presenti in piazza San Pietro, in via della Conciliazione, in piazza Pia e piazza Risorgimento parlavano più chiaro di qualsiasi liturgia, soprattutto se in latino. Un’enciclica vivente fatta di contrasti tra colori, classi sociali, livello di certezza di fede, accuratezza delle memorie condivise.
Piazza Risorgimento, in particolare, è il regno del target che, forse, interessava di più a Francesco, a pari merito coi senza fissa dimora: i senza fissa liturgia. Il pubblico non abbastanza hardcore da svegliarsi alle 4 per essere nel colonnato, né abbastanza disilluso da approfittare del poco traffico in uscita per passare il sabato a Capalbio o Anzio. Per loro un discorso di Francesco era la sensazione che si prova quando entri in chiesa solo per sfuggire al caldo, e scopri che c’è qualcosa che ti parla anche se non hai pronto nessun santo a cui votarti. Il tratto più peculiare di Papa Francesco è stato questo: piaceva a chi non ne poteva più dei papi. Piaceva anche agli anticlericali, ai dubitanti, ai cinici da bar e ai millennial che non mettono piede in chiesa dai tempi della cresima, ma potrebbero tranquillamente tatuarsi la schiena con la frase “Chi sono io per giudicare?”.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
Anche alle 9:30 piazza Risorgimento, transennata e sezionata, è ancora vuota. I senza fissa liturgia vi si stanziano spontaneamente, increduli di poter godere di una visuale così agevole dei maxischermi già accesi. Entrano in scena i volontari buoni e i poliziotti cattivi: prima di permettere la sosta anche qui “i loro superiori” vorrebbero riempire del tutto, stipando il pubblico in via della Conciliazione e nella retrostante piazza Pia. Il principio scenografico sembra vincere, nelle intenzioni degli organizzatori dello spazio, sul buon senso di lasciare la gente libera di allontanarsi per prendere un caffè, all’occorrenza, o di seguire l’omelia senza una suora sfegatata che gli urla nelle orecchie Ora pro Eo. Sul piatto la promessa di una vista migliore in un al di là dalle transenne, contro la realtà immantinente di un posizionamento forse anche di terz’ordine, lontano dai giochi, ma libero. Quello che può sembrare solo un problema logistico, è anche una questione teologica: anzi, questa scena potrebbe sintetizzare tutto il dissidio tra l’approccio di Francesco e la Chiesa.
Ovviamente i senza fissa liturgia non si muovono di un millimetro, nemmeno sotto le ormai nervose battute dei poliziotti cattivi. Capiscono di averla vinta quando un capetto bofonchia il tanto sospirato: «Abbiamo altri problemi a cui pensare», mentre un volontario buono provvede subito a distribuire bottigliette d’acqua: «Oggi si beve alla salute sua». Si piangerà, ma idratati.
Del resto lo avevano capito tutti, anche quelli in curia con la faccia da “questo non durerà”: Bergoglio aveva cambiato il tono della voce della Chiesa. Era passato dal latino delle messe solenni al dialetto delle cucine. Aveva ridotto l’impero in comunità, e il dogma in dubbio. Aveva trasformato l’autorità in prossimità. Era sì il papa dei poveri, ma era anche, e soprattutto, il papa dei perplessi. Di quelli che si svegliano e dicono: «Io ci credo, ma non so bene in cosa». Ed era già qualcosa.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
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Questo, nel Vaticano post Benedetto XVI, era sembrato davvero nuovo. Francesco non era lì per piacere ai teologi, né per distruggere il loro paziente lavorio. Semplicemente, si sedeva e cominciava a parlare come se fosse uno qualunque. A tratti poteva sembrare uno qualunque con un microfono potentissimo e un’anima da missionario rimasto bambino.
Nel testamento Francesco aveva chiesto “un piccolo funerale” ma il pontefice si è ritrovato a generare il più grande dispiegamento di forze aeree sulla Capitale dai tempi del Giubileo del 2000. Per un uomo che faceva volentieri a meno della croce d’oro pettorale può sembrare un paradosso, ma non è altro che la necessaria rete di sicurezza per proteggere la sua ultima lezione di semplicità.
Tra gli astanti di piazza Risorgimento che non hanno creduto alla promessa di vista migliore, un ragazzo con lo smalto nero dice a un’amica, forse per fare bella figura: «Lui è stato il primo adulto che mi ha fatto venire voglia di ascoltare». Lei gli risponde, per non essere da meno: «Forse il miglior nonno che non abbiamo mai avuto». Un’anziana signora, seduta su una delle nuovissime panchine appena installate per il Giubileo, con un ventaglio papale tra le mani, racconta a chi le sta accanto di quella volta in cui: «Me lo so’ trovato davanti al mercato, e mi ha sorriso come se ci conoscessimo. Ci ho avuto l’impressione che sapesse tutto di me. Ma che gli andasse bene lo stesso». La poesia di strada non richiesta di cui avevamo bisogno. Una tipa dalla t-shirt con su scritto «Ti voglio bene come Dio comanda» passa accanto a un prete dall’aspetto molto freelance e gli chiede: «Ce lo meritavamo un Papa così?». Il prete ha sorriso: «No. Ma forse è proprio per questo che lo abbiamo avuto». E cento altri episodi ordinari vissuti, nel caldo che saliva e i canti che non finivano mai, come prodigi silenziosi. Perché Francesco non faceva miracoli – ok, tranne la foto nella basilica con Trump e Zelensky che sembrano l’uno confessore dell’altro – ma
trasformava il quotidiano in qualcosa di importante. Ti guardava, e improvvisamente il tuo dramma sembrava degno di attenzione.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
April 26, 2025. Rome, Vatican City. Faithful gather to attend the funeral of Pope Francis, who passed away at the age of 88, concluding the rites of the ‘Novemdiale’.
Bergoglio era l’unico sacerdote a sembrare verissimo, a tutti, mentre predicava di Dio e, allo stesso tempo, spiritualissimo mentre raccontava dei propri intoppi quotidiani: «Anche io ho dubbi. Anche io faccio fatica». In un’epoca in cui la religione è spesso usata come schermo, lui lo ha decisamente bucato. Papa Francesco non voleva riformare la Chiesa. Voleva solo farla respirare. Ora che è andato via, resta un vuoto pieno, come quello che si sente quando un amico speciale cambia momentaneamente città e ti lascia, a sorpresa, la chiave di casa, con un biglietto che dice: «Magari ogni tanto ricordati di annaffiare le piante».
Il lutto di Francesco I non aveva bisogno di essere spettacolarizzato in modo tradizionale. Forse perché ci aveva già insegnato a lasciar andare le cose con delicatezza e autoironia, come certi padri di famiglia che non vorrebbero essere ricordati con le foto dall’abito buono, ma con le battute che facevano a tavola, Francesco aveva fatto entrare gli emarginati in Vaticano; aveva scritto encicliche come fossero lettere aperte (a gente molto distratta); aveva messo il mondo intero in una parabola sul perdono, come una nave in miniatura ricostruita dentro una bottiglia il cui messaggio era chiaro e, al tempo stesso, misterioso: dialogare è quella cosa che fai quando smetti di giudicare.
Tutta la giornata di ieri è parsa un lungometraggio scritto da Bergoglio stesso, con l’inchiostro umile di una biro e la punteggiatura vivace della presenza di spirito. I leader che non sapevano dove tenere le mani. Il cardinale officiante che si impappinava leggendo. Re delle fiabe e poveri veri che sembrano inconciliabili, ma che importa? Basta un vescovo ortodosso che inforca gli occhiali da sole sotto la mitra dorata e il programma che, fino a un attimo prima, era una versione ad altissimo budget di A Sua Immagine di Lorena Bianchetti, diventa subito Paolo Sorrentino.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
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Non ci si aspettava altro da Francesco, che ha passato un pontificato a smontare la liturgia del potere spirituale (suo) e temporale (altrui), pezzo dopo pezzo, come un padre di famiglia che disfa l’albero di Natale a gennaio e poi guarda la scatola piena di palline dalle dubbie fogge e iconografie, chiedendosi se avremo ancora il coraggio di servircene davvero, l’anno prossimo. Ecco, il suo funerale è stato questo: una scatola semivuota, ma piena lo stesso.
Niente troni, niente ori, niente fanfare. Solo una bara in legno chiaro, apparentemente anonima, come quella delle vecchie zie che hanno lasciato in eredità più ricordi che proprietà. Attorno, cardinali che sembravano ancora confusi dal fatto che questo pontefice – il primo sudamericano, il primo gesuita, il primo Papa che parlava come uno di quei nonni che non ti chiedono mai a che punto sei con la tesi – se ne fosse davvero andato. Perché con Francesco c’era sempre il sospetto che si stesse solo assentando un attimo.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
Sua Eminenza Giovanni Battista Re nell’omelia non cita statistiche né miracoli, ma una manciata di verbi: servire, ascoltare, cambiare. La piazza risponde con silenzi sincronizzati più eloquenti degli applauso. Il tempo passa lento e gli studenti cominciano a dividersi power-bank a mo’ di ostie laiche e a scambiarsi cenni di pace e solidarietà con gli sbadigli.
Ma non appena la papamobile col feretro esce dal Vaticano ecco che si celebra la fine di una messinscena e l’inizio di un altro racconto, stavolta tratto da una storia vera. E mentre della prima si sono dovuti, per forza di cose, occupare i cardinali e i diplomatici, il secondo sembrerebbe tutto farina del sacco del papa.
Capiamo che dobbiamo prepararsi alla francescata definitiva quando la papamobile, che si era ripromessa di andare a passo d’uomo, accelera in modo inatteso e bergogliesco, anticipando le tappe dell’ultimo giro di Roma verso Santa Maria Maggiore, col pubblico dietro le transenne che prova a seguirla come si fa con Pogačar quando anticipa – di troppo – una volata finale. I turisti americani con polo Ralph Lauren dal logo equino ipertrofico, di passaggio per piazza Venezia, guardano la scena un po’ confusi, ma interessati: “It’s like a Fellini movie but in real life”.
Francesco aveva fatto della spettacolarità inevitabilmente tardobarocca della Chiesa un’antagonista guardata a distanza ma rispettata. Lui, che si affacciava al balcone di San Pietro senza mani levate, ma con l’espressione di chi ha appena finito di litigare con un cugino piemontese che non ne vuole sapere di scendere a Roma per il fine settimana. Che parlava della misericordia come se fosse un disco dei Radiohead: tosta, malinconica, ma necessaria.

26/4/25. Roma, Città del Vaticano. I fedeli si raccolgono per assistere ai funerali di Papa Francesco. Foto: Luca Santese, Marco P. Valli / Cesura
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Il vero capolavoro della giornata, allora, è quando la papamobile arriva sul sagrato di Santa Maria Maggiore e si mette in retromarcia, come un carro funebre qualsiasi, e deposita la bara di legno sulle spalle dei portantini. Dei 150 cardinali e 140 santi e martiri del colonnato di San Pietro qui sono rimasti in pochi intimi, oltre al gruppetto di sole 5 statue del fastigio della facciata della basilica Liberiana. Gli ultimi versi del “Magnificat” scivolano nel silenzio con un fade-out perfetto. Dentro, la sepoltura avviene a porte chiuse. L’unica incisione sulla lastra è «FRANCISCUS». Epigrafe che sembra un titolo d’album punk: corto, secco, definitivo.
Qui capisci che se la messe esequiale non fosse stata così lunga, così in latino; se la litania con la check-list di tutti i nomi di tutti i santi non fosse stata così litaniosa; se le sedie del parterre non fossero state disposte così ordinatamente, il colpo di scena del corteo e di Santa Maria Maggiore non sarebbe mai riuscito così bene. I funerali di Papa Francesco non sono stati un evento, ma un gesto: questo gesto.
Dal sagrato un transennato dall’aria di essere un professore in pensione e di saperla lunga commenta la scelta della tumulazione in Santa Maria Maggiore come “Una bella botta di disobbedienza”.
Alla fine, la piazza di Santa Maria Maggiore si svuota, ancora, in silenzio. Come dopo un concerto che non volevi finisse. C’è stato sì un bis; e il bis è stato più bello della scaletta; ma ora il concerto deve, purtroppo, finire davvero. Resta solo la sensazione, strana e attraente, che la fede – ad avercene – è questo: restare fermi e zitti un momento (anche se avresti pure mille domanda da porre, anche se non hai più niente di preciso da fare).
L’after-party del cuore, quando le campane tacciono, è a piazza della Repubblica: ragazzi che rinfoderano chitarre acustiche, suore che offrono biscotti fatti in casa, una giovane coppia che arrotola, dentro uno striscione, uno dei più alti atti di teologia da marciapiede dell’intera giornata: «Una Chiesa in uscita non torna mai indietro».
Ora che Francesco non c’è più, resta la sensazione che abbia inventato non solo un’altra Chiesa ma anche un altro modo di stare al mondo. Un modo in cui si può essere autorevoli senza essere autoritari, credenti senza essere bigotti, diplomatici senza essere ipocriti, umani senza scadere nel banale. Roma e il mondo il 26 aprile 2025 hanno fatto un grande respiro collettivo, come se dopo dodici anni di parole non scontate, la gente avesse finalmente imparato a stare in silenzio. Il più grande dono che un uomo di parola possa fare.