Lo scorso 15 aprile Le Iene ha mandato in onda un servizio curato da Roberta Rei nel quale alcune performer della scena porno raccontano molestie e abusi da parte di Rocco Siffredi. Intervistato prontamente da Rei, lui si difende ammettendo che nel corso della carriera avrà sicuramente sbagliato qualcosa e chiede scusa, ma ribadisce che non è uno stupratore.
A sua discolpa afferma tra le lacrime di essere vittima di un complotto da parte di Stephan Pacaud, proprietario di XVideos (nota piattaforma di contenuti per adulti) e dell’ex performer e ora podcaster Tommy McDonald.
Una delle prime persone che si è espressa per difendere Siffredi e l’intero settore è stata Valentina Nappi, che non usa mezze misure: «Penso che chi rivolge pubblicamente accuse del genere a una persona, danneggiandola, commetta il delitto di diffamazione se non è in grado di dimostrare, esibendo evidenze oggettive, la veridicità di tali accuse», risponde fermamente quando le chiediamo cosa pensi a riguardo.
Le molestie e gli abusi sui set pornografici sono un tema molto discusso in generale, soprattutto in riferimento al cosiddetto porno mainstream. Nel pensare comune viene rappresentato come un ambiente malsano dove la mancanza di rispetto verso le performer e il concetto di consenso sono all’ordine del giorno.
«A causa di una sorta di effetto Mandela, l’argomento porno genera allucinazioni (ricordi fittizi, realtà inesistenti inconsciamente assunte come vere) nell’immaginazione collettiva» – prosegue Nappi – «la gente immagina, ipotizza, dà per scontate e fantastica su cose che in pratica non esistono. E i media ci marciano, poiché la spazzatura “scandalistica” tira. E ci marciano anche calunniatori e calunniatrici, che vengono creduti senza alcuna verifica poiché l’inconscio collettivo vuole credere — anzi: ha bisogno di credere — che quei racconti pruriginosi e scandalosi siano veri».

Valentina Nappi. Foto: courtesy of
Se chi guarda porno potrebbe sapere poco o niente di come funziona a telecamere spente, a volte anche chi lo fa sembra non avere particolare contezza. Per dare un’idea di cosa intendo, racconterò una parte che mi aveva particolarmente colpito di Pleasure, film diretto da Ninja Thyberg in cui la protagonista è una giovane svedese – Linnéa – che si trasferisce in California non solo per entrare nell’industry ma con il desiderio dichiarato di diventare una pornostar.
A circa metà del film si reca su un set dove sono presenti tre uomini: il regista e due performer. Prima di cominciare il regista le ricorda che avrebbero girato una scena violenta e le chiede se per lei va bene, Linnéa conferma. Le domanda se le piacciono sculacciate, schiaffi, soffocamento, sputi, tirate di capelli. La performer risponde nuovamente che vanno bene e che è pronta a girare. Appena parte l’azione volano schiaffi, mani sul collo, sputi come se piovesse e male parole. Lei appare disorientata e dopo un po’ chiede lo stop, così il regista interrompe.

Valentina Nappi. Foto: courtesy of
L’atteggiamento dei performer cambia sensibilmente. La sollevano da terra, le chiedono se è tutto ok, sono estremamente gentili e premurosi. Le chiedono nuovamente se sapeva che avrebbero filmato una scena violenta, che sarebbe stata intensa e cruda. Linnéa conferma un’altra volta. Le dicono che sta andando alla grande e che è tutto uno show, tutto finto. Una volta rassicurata, riprendono a filmare. A questo punto l’inquadratura è dal punto di vista di Linnéa, che vede i volti sfocarsi intervallate a immagini completamente nere, a una serie di altre pratiche, finché chiede nuovamente di fermarsi. Cambia la prospettiva e la vediamo accasciarsi a terra piangendo. Ancora una volta gli altri sembrano delicati e premurosi, cercano di rassicurarla e lusingarla. Quando stanno per ricominciare, Linnéa dichiara che in realtà non se la sente e che preferisce andare via. A questo punto il tono del regista cambia e diventa meno accomodante. Afferma che se vuole andare, può farlo, ma che andando via manderà in fumo i soldi di tutti perché non avrebbe pagato per metà scena e quanto girato fino a quel momento sarebbe stato gratis.
Non sappiamo se la scena viene girata o meno ma è interessante ciò che accade in seguito. Linnéa si presenta nell’ufficio del suo manager ancora scossa e gli racconta com’è andata. Lui si altera e le dice che avrebbe dovuto chiamarla se qualcosa fosse stato eventualmente diverso dagli accordi. Lei piange, urla e a un certo punto usa la parola violentata, al che l’agente la blocca e la invita a usare con cautela certi termini, perché è plausibile che abbia girato una scena violenta e che abbia capito di non saperla gestire, ma che quel genere di contenuti sono così. Le rinfaccia di essere stata lei a chiedere espressamente video violenti e le chiede anche se avesse visitato il sito della produzione prima di accettare, così come l’aveva invitata a fare. A quella domanda lei lo manda a quel paese e se ne va.
«Generalmente le persone che iniziano a fare porno si aspettano una realtà assai peggiore di quella» — estremamente sicura — «che incontrano effettivamente. In pochissimi ambienti lavorativi c’è così tanto rispetto del consenso come sui set porno», rassicura Nappi. Quando le chiedo quale potrebbe essere, secondo lei, un modo per ridurre al minimo o eliminare il rischio di molestie e abusi sul set, risponde lapidariamente che tale rischio è già minimo.

Valentina Nappi. Foto: courtesy of
Valentina Nappi lavora da circa 14 anni nel porno e gira prevalentemente tra USA e Italia, così ho chiesto alla performer Miriam More, originaria della Puglia, che ha cominciato la sua carriera esattamente 10 anni dopo Nappi, di dirmi come funziona ora per chi è agli esordi e soprattutto che aria tira nell’Europa dell’Est, centro nevralgico del porno europeo, almeno quello commerciale.
«Io sono stata fortunata. Già dai primi contatti con la produzione avevo mille domande e le persone con cui ho parlato sono state molto brave a spiegarmi tutto quello che avrei affrontato», racconta. «La mia prima volta su un set a Praga ero insieme a una famosa performer italiana che mi è stata accanto tutto il tempo, aiutandomi a prepararmi sia fisicamente che mentalmente. So però che non tutte hanno avuto la mia stessa fortuna. E qui secondo me emerge uno dei problemi di questo ambiente: come ogni mercato, l’attenzione è posta sul prodotto da vendere, ma per preparare qualcuno ad affrontare una scena, soprattutto quelle più strong, non basta limitarsi a spiegare le pratiche e le posizioni che si andranno a fare sul set».

Miriam More. Foto: Gigi Samueli
Miriam More riferisce che «oltre agli accordi verbali, esistono alcune pratiche di base che vengono fatte da tutte le produzioni, come la registrazione di video pre e post shooting in cui la performer esprime il proprio consenso a quanto previsto sul set. Dichiara di non essere stata costretta in alcun modo e di non essere sotto l’effetto di alcool o droghe». Per contro ammette di non avere mai visto mettere in pratica questo stesso iter formale con i performer uomini e che «in generale sono pochissime le produzioni con cui ho avuto un vero dialogo sulle preferenze personali e soprattutto che sono state disponibili ad adattare la scena ai limiti dei performer».
La giovane performer rivela che prima di cominciare a fare porno non praticava sesso anale ma che per andare sul set è cambiato tutto: «Devo essere sincera, mi sono convinta a farlo perché desideravo entrare nel settore e sentivo di dovermi adeguare alle richieste di mercato. In Europa quello dominante tende a cercare attrici disponibili per pratiche più forti, tra cui l’anale. Le produzioni cercano donne disposte a includerla, le agenzie ti spingono a inserirla nella lista delle pratiche per cui sei disponibile. Una delle prime cose che mi è stata detta è che escluderla avrebbe reso molto più difficile costruire una carriera. Come ho già detto sono stata fortunata. Ero pronta mentalmente e fisicamente prima della scena e i performer con cui ho lavorato le prime volte sono stati abbastanza attenti e rispettosi. Nonostante questo, le prime scene per me sono state comunque molto pesanti da affrontare».
Rocco, il cui centro di produzione è a Budapest, dove risiede, è noto per il suo genere aggressivo, per un sesso che predilige l’anale e le maniere forti. La sua fama di icona del cosiddetto rough sex lo precede.
Chiedo a Miriam More qual è la fama di Siffredi sui set nei quali ha girato. Risponde diplomaticamente che quello del porno è un settore in cui tutti parlano di tutti e che ha imparato presto a diffidare dalle voci che girano. Lei non ci ha mai lavorato per questioni legate al cachet e non lo hai conosciuto personalmente, ma quando le domando che opinione si è fatta su quanto emerso dal servizio de Le Iene, risponde che crede al racconto delle donne intervistate.
«Penso che il problema sia più ampio e riguardi molte produzioni», aggiunge. «Bisognerebbe cambiare totalmente approccio, iniziare a pensare alle persone e non solo al prodotto finale. Ho avuto il piacere di lavorare in produzioni con un’impostazione simile a quella postporno. Produzioni inclusive dove l’autenticità dei performer viene messa in risalto e la scena viene adattata in base alle loro preferenze e ai loro limiti».
Sottolinea in aggiunta che chi decide di lavorare su piattaforme come Only Fans sceglie cosa fare in base a ciò che sente davvero, così la scena risulta reale, chi la compra lo percepisce e apprezza di più rispetto a un video in cui tutto è costruito a tavolino. «Non credo sia un caso che attrici di fama internazionale abbiano abbandonato i set tradizionali a favore di queste piattaforme in cui si sceglie in autonomia quali contenuti vendere e con quali limiti», chiosa.
Se Siffredi sia innocente o meno verrà stabilito nei luoghi deputati a giudicarlo. Quello che emerge è un mondo attorno al quale ci sono diversi lati oscuri e manipolazioni, dentro il quale contano più le performance (fisiche ed economiche) delle persone. Niente di diverso da qualunque altro ambiente lavorativo, per quanto ne so, ma con la differenza che, trattandosi di sesso, cambia sensibilmente la percezione che ne deriva.