‘Live at Pompeii MCMLXXII’ dei Pink Floyd è un’opera d’arte concettuale | Rolling Stone Italia
Questa è storia

‘Live at Pompeii MCMLXXII’ dei Pink Floyd è un’opera d’arte concettuale

La recensione della versione audio mai uscita prima e remixata da Steven Wilson: lugubri sinfonie sospese tra bellezza e incubo, qualche pezzo invecchiato male, un atto d’amore per la storia

‘Live at Pompeii MCMLXXII’ dei Pink Floyd è un’opera d’arte concettuale

I Pink Floyd a Pompei

Foto: Sony Music Entertainment

Nel 1971 i Pink Floyd sono sull’orlo della svolta: Meddle è appena stato completato, The Dark Side of the Moon è solo un’idea in gestazione. Il gruppo è nel mezzo di un percorso evolutivo, ancora immerso nelle nebbie della psichedelia, ma sempre più attratto da una forma di rock atmosferico, cinematico, capace di evocare mondi interiori senza bisogno di parole. Così mentre colleghi già superaffermati come T. Rex, Deep Purple, Led Zeppelin o Yes riempiono stadi e arene, i Pink Floyd decidono di suonare senza pubblico in uno dei luoghi più carichi di memoria del mondo: l’anfiteatro romano della città sepolta dal Vesuvio. Nessun biglietto venduto, nessuna ovazione, solo microfoni, quattro piste, vento, silenzio e pietre. L’antitesi assoluta delle esibizioni rock dell’epoca. Insomma, un concerto che è diventato leggenda pur non essendo mai stato, tecnicamente, un concerto, oltre che un paradosso sonoro: musica suonata per nessuno, pensata per essere ascoltata da tutti. Un esperimento filosofico, in qualche modo.

Il risultato, filmato dal regista Adrian Maben, è quel Live at Pompeii che, dopo più tentativi andati malino nei decenni, in questi giorni ha sbancato nei cinema di mezzo mondo, ma di cui una versione audio ufficiale non era mai stata pubblicata. È impossibile non vedere in Live at Pompeii una forma d’arte concettuale, un’installazione sonora che anticipa di decenni certe derive ambientali e minimaliste. Il punto non era essere visti, ma essere presenti, creare una forma sonora che potesse vivere anche senza testimoni immediati. Qualcosa che, estremizzando e giocando un po’ con i piani temporali, di fatto ha reso i Pink Floyd precursori persino dei concerti senza pubblico del periodo Covid.

Ascoltando oggi Live at Pompeii MCMLXXII — senza immagini, senza filtri — si ha la sensazione di entrare in un tempio sonoro. Non è un disco live nel senso canonico: non c’è pubblico, dunque non c’è reazione né interazione. Eppure ogni nota sembra pesare come una dichiarazione. Echoes, Set the Controls for the Heart of the Sun, A Saucerful of Secrets non sono solo brani, sono lugubri sinfonie visionarie sospese tra bellezza e incubo, riti sonori primitivi, invocazioni cosmiche che prendono forma tra le colonne cadute di un impero morto.

Che questo album arrivi nel 2025 forse non è nemmeno così casuale. In un’epoca in cui ascoltiamo musica compressa su piccole casse, ma riempiamo gli stadi come forse mai nella storia, queste canzoni ci impongono un ascolto intimo, personale, meditativo. Ancora meglio se con un impianto di un certo livello, capace di dare risalto al lavoro di remixaggio di Steven Wilson, che altrimenti, separato dalla visione cinematografica, perde inevitabilmente di valore. D’altra parte, si tratta di un lavoro concepito più per gli audiofili e i completisti che per il grande pubblico.

Live at Pompeii MCMLXXII è questo: un disco da ascoltare da soli, come se si fosse lì, nell’anfiteatro, tra le ombre e i fantasmi citati recentemente da Nick Mason. La sua uscita ufficiale è innanzitutto un riconoscimento storico, come possono esserlo state uscite analoghe come il live del tour di The Wall. È un atto d’amore verso la storia, riconoscere ufficialmente che quel concerto è parte integrante dell’eredità dei Pink Floyd. Non tutto è invecchiato nei migliore dei modi, va detto. Alcune scelte estetiche, come l’inserimento di Mademoiselle Nobs, quella cantata dal cane per intenderci, ha forse ancora un senso se abbinata alle immagini del film. Le parti vocali di un pezzo come Careful with That Axe, Eugene, poi, risultano a tratti datate per un orecchio moderno.

Live at Pompeii MCMLXXII non è solo un’uscita discografica: è una restituzione storica, un atto dovuto a una delle esperienze audiovisive più influenti del rock. È anche un’occasione per riscoprire i Pink Floyd nel momento esatto in cui stavano per diventare immortali, sospesi tra due epoche, armati solo dei loro strumenti e della loro immaginazione. Se fosse uscito all’epoca, ma anche dopo l’esplosione mondiale del gruppo, sarebbe stato relegato a semplice esercizio di stile di una band per intellettuali. Ora è il rumore del tempo, della pietra, della solitudine. È il rumore dell’universo che si piega a una Stratocaster e a un delay infinito.

 

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