Ieri è uscito nelle sale italiane The Apprentice – Alle origini di Donald Trump, “il più feroce biopic” immaginabile sul tycoon ed ex Presidente degli Stati Uniti d’America (vi raccontiamo tutto qui). Data propizia: le elezioni del 5 novembre sono dietro l’angolo, e infatti anche Oltreoceano il lungometraggio di Ali Abbasi (reduce dai buoni risultati di Holy Spider) è stato distribuito a partire dall’11 di questo mese. Ma, proprio per la sua vicinanza alla tornata elettorale, la dissezione del personaggio-Trump ha lasciato tanti con l’amaro in bocca. E, tra polemiche, minacce di azioni legali, e sette anni complessivi per la realizzazione, il film ha rischiato di non uscire proprio negli Stati Uniti. Ma andiamo con ordine.
The Apprentice racconta la “nascita” di colui che impareremo a conoscere come Donald Trump: siamo tra gli anni Settanta e Ottanta, e il giovane Donald è preso sotto l’ala di Roy Cohn, avvocato senza scrupoli e faccendiere in politica. Trump è interpretato da Sebastian Stan, mentre Cohn da Jeremy Strong (proprio il nostro da Succession). Per scrivere la sceneggiatura, Abbasi si è appoggiato al giornalista Gabriel Sherman, che segue le vicende di Trump da 15 anni e ha lavorato attingendo, tra le altre fonti, alla biografia Lost Tycoon: The Many Lives of Donald J. Trump scritta da Harry Hurt III (e uscita non autorizzata nel 1993). In un articolo su Vanity Fair, rivista con cui collabora, Sherman ha definito The Apprentice come «una storia in stile Frankenstein sulle origini di Donald Trump».
Una simile dichiarazione era arrivata da Strong pochi giorni prima dell’uscita del film negli Stati Uniti: l’attore aveva dichiarato a Variety che si trattava di «un film di mostri, un film-Frankenstein. Parla della creazione di un mostro da parte di un altro mostro. È una coincidenza che esca ora, ma il suo arrivo non è un caso». Per poi aggiungere che, per quando il biopic mantenesse un atteggiamento bipartisan sul personaggio-Trump, di sicuro aveva un suo punto di vista da dare in merito alla vicenda.
Nella stessa direzione sono sembrate muoversi alcune dichiarazioni del regista Abbasi: «È la storia di un sistema, è il ritratto del sistema americano, del sistema giudiziario, della corruzione intestina di un meccanismo che ha permesso a persine come Roy Cohn di navigare indisturbati, e manipolare le leve del sistema a loro piacimento».
The Apprentice ha avuto la sua prima il 20 maggio, all’ultimo Festival del Cinema di Cannes. E, nonostante sia stato salutato da otto minuti di standing ovation, alcune scene hanno fatto sussultare – così ricorda Sherman – alcuni dei presenti in sala. Ed è da lì che sono iniziati i problemi.
Nelle ore successive alla proiezione, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di andare per vie legali per bloccare l’uscita del film. Il portavoce della sua campagna elettorale, Steven Cheung, aveva dichiarato che l’azione avrebbero voluto «confutare le affermazioni palesemente false di questi finti registi». Che poi definì il film «diffamazione malevola», «interferenza elettorale delle élite di Hollywood» e meritevole di stare «in un cassonetto dell’immondizia dato alle fiamme».
Due giorni dopo, scrive Sherman, gli avvocati di Trump inviarono lettere di diffida a lui e ad Abbasi: «Vi chiedo di cessare e desistere immediatamente dal promuovere e distribuire negli Stati Uniti questo attacco pieno di falsità finanziato e diretto dall’estero e mascherato da film». Al centro del contenzioso sarebbe stata soprattutto una scena del biopic, che vede coinvolta Maria Bakalova nel ruolo di Ivana Trump, in cui il tycoon violenta l’ex moglie.
La circostanza fu confermata dalla stessa Ivana nel 1990 durante il processo per il divorzio da Trump, che parlò di stupro. Anni più tardi però, durante la prima campagna elettorale dell’ex marito, specificò che non aveva inteso il termine in senso «letterale o criminale».
Il resoconto della vicenda è contenuto proprio in Lost Tycoon, ora andata fuori stampa. Secondo Intelligencer (New York Magazine) Harry Hurt III avrebbe ottenuto una copia della deposizione giurata di Ivana durante il processo del 1990, nella quale dichiarava che Trump l’aveva stuprata durante un accesso d’ira avvenuto l’anno prima. The Daily East ha riportato alcuni dei passaggi salienti della scena contenuta nella biografia di Hurt: Trump avrebbe «stretto Ivana per le braccia, che le avrebbe messo dietro la schiena, e avrebbe poi cominciato a strapparla capelli a manciate dallo scalpo. […] Poi le avrebbe strappato i vestiti di dosso e si sarebbe slacciato i pantaloni». La causa scatenante sarebbe stata un intervento di riduzione del cuoio capelluto effettuato da Trump presso un chirurgo di conoscenza dell’ex moglie, non andato secondo i piani.
Trump non ha mai – per il momento – fatto veramente causa ad Abbasi e Sherman. La scena non aveva fatto però fatto drizzare le antenne solo a lui e ai suoi legali. Durante la realizzazione del film, Abbasi si era scontrato con il produttore Mark Rapaport proprio sull’opportunità di inserirla o meno nella cut finale del biopic: secondo Rapaport, la sequenza sarebbe stata inopportuna, e aveva chiesto al regista di eliminarla poco prima dell’anteprima di Cannes. Abbasi si era opposto e, date le tempistiche ristrette prima del Festival, l’aveva spuntata. Come ripicca, Rapaport aveva fatto affondare la festa che si sarebbe dovuta tenere a seguito della proiezione – dove, tradizionalmente, i film possono stringere importanti accordi di distribuzione.
La motivazione dietro tutto non parrebbe di ordine estetico, né morale: tra i finanziatori del film figura infatti Dan Snyder, miliardario e sostenitore di Trump (aveva donato più di un milione di dollari alla campagna elettorale del 2016, e 100.000 dollari alla tornata 2020) ma soprattutto suocero di Rapaport, il quale lo aveva convinto a investire nella sua casa di produzione, Kinematics. Quando Snyder seppe che il film che aveva contribuito a finanziare non celebrava l’ex Presidente, ma lo mostrava violento con la moglie – e in altri punti farsi di anfetamine, sottoporsi a liposuzione, e sviluppare tratti caratteriali odiosi – cominciò a chiedere modifiche, che Abbasi non gli concesse.
Per il coinvolgimento di Snyder, e per il fatto che stranamente nessun distributore si fosse fatto avanti dopo Cannes, alcuni commentatori cominciarono a pensare che il film fosse stato soppresso per ragioni politiche (tra loro, Michelle Goldberg sul New York Times). Per questo The Apprentice, dopo aver incontrato notevoli difficoltà in fase di finanziamento per le tematiche trattate (il copione di Sherman fu comprato nel 2017, in pieno mandato Trump) ma anche di casting (sempre Sherman ha raccontato che molti attori non avrebbero voluto associarsi a Donald Trump, né donargli una certa qualità umana ricercata nell’idea del film), rischiava di non essere nemmeno distribuito. Cioè: di non essere distribuito nei soli Stati Uniti. Erano loro il mercato a cui guardavano i produttori in vista di Cannes, in quanto, come parte del modello di finanziamento, i diritti di distribuzione negli altri Paesi erano già stati prevenduti.
La soluzione è arrivata solamente a giugno, quando Briarcliff Entertainment (fondata da Tom Oltenberg e famosa per aver distribuito altri film “controversi” come Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, W. di Oliver Stone e Il caso Spotlight) ha fatto un’offerta di distribuzione negli USA. La cifra promessa era però troppo esigua per Rapaport, che avrebbe preferito temporeggiare in attesa di un’improbabile offerta più succosa. Scrive Sherman della situazione: «Ho detto a (Jeremy, ndr) Strong che mi sembrava di vivere un episodio di Succession». Il caso si chiuse davvero quando due nuovi investitori, Fred Benenson e James Shani, rilevarono congiuntamente la partecipazione di Rapaport.
E per ora, di tutta questa vicenda resta soprattutto un post di Donald Trump sul suo Truth Social, pubblicato il 14 ottobre (alcuni giorni dopo, quindi, l’uscita del film in America):
«Un FILM FALSO e DI BASSO LIVELLO scritto su di me, intitolato The Apprentice (Ma hanno persino il diritto di usare quel nome senza approvazione?), speriamo che sia un flop totale. È un lavoro economico, diffamatorio e politicamente disgustoso, pubblicato proprio prima delle Elezioni Presidenziali del 2024, per cercare di danneggiare il più Grande Movimento Politico nella Storia del nostro Paese, “MAKE AMERICA GREAT AGAIN!” La mia ex moglie, Ivana, era una persona gentile e meravigliosa, e ho avuto un ottimo rapporto con lei fino al giorno in cui è morta. Lo scrittore di questa spazzatura, Gabe Sherman, un miserabile e incapace senza talento, che da tempo è ampiamente screditato, lo sapeva bene, ma ha scelto di ignorarlo. È così triste che FECCIA UMANA, come le persone coinvolte in questa impresa (si spera fallimentare), possano dire e fare tutto ciò che vogliono per danneggiare un Movimento Politico, che è molto più grande di tutti noi. MAGA2024!».
Come insegnava Cohn al suo pupillo, e ha scritto Sherman nella sua sceneggiatura, la miglior difesa è (secondo Trump) sempre l’attacco: «attaccare, attaccare, attaccare».