Manuel Agnelli: «Gli Afterhours erano un’azienda, ora siamo di nuovo complici» | Rolling Stone Italia
“Cento demoni”

Manuel Agnelli: «Gli Afterhours erano un’azienda, ora siamo di nuovo complici»

Alla vigilia del tour per i 20 anni di ‘Ballate per piccole iene’ coi musicisti dell’epoca, Manuel racconta chi è oggi e chi era nel 2005, tra «droga, sesso, rock’n’roll, amoralità e accettazione della propria mediocrità»

Manuel Agnelli: «Gli Afterhours erano un’azienda, ora siamo di nuovo complici»

Manuel Agnelli

Foto: Alessandro Treves per Rolling Stone Italia

Un giorno nel gruppo WhatsApp chiamato “Sballati per piccole iene” Giorgio Prette, Andrea Viti e Dario Ciffo hanno trovato un messaggio secco e definitivo di Manuel Agnelli, che aveva rimesso su Ballate per piccole iene dopo anni: «È un buon disco». È vero ed è anche uno degli album più cupi degli Afterhours. Riascoltato oggi, a vent’anni dalla pubblicazione e alla vigilia di un tour celebrativo, sembra musica per gente disillusa e incasinata. S’avverte la tensione tra il rifiuto di una vita normale, che equivale a una mezza morte, e l’aspirazione a un’esistenza scapigliata e pericolosa, che però ti porta allo sfacelo. Dentro ci sono la resa alla propria mediocrità, l’autodistruzione, il sesso, la cocaina, la voglia di perdere il controllo.

Lì, in quel vortice di disfacimento fortemente cercato, stava Manuel Agnelli. Lo racconta in questa intervista in cui spiega cosa provava quando lo ha scritto e perché ha deciso di portare in giro l’album ignorando l’ultima formazione degli After e rimettendo assieme quella del 2005. Detto in breve: non vuole che il gruppo sia un’azienda, ma una libera associazione di gente smaniosa di suonare.

Nel 2005 aveva 39 anni, oggi ne ha 59. Era il punto di riferimento della scena rock alternativa italiana, un aggregatore, un sobillatore. Oggi è il signore nero del rock italiano che usa il suo personaggio e la sua credibilità per raccontare cosa dovrebbe essere il rock a un pubblico anche nazional-popolare in radio, a teatro, in tv. La sua vita non dipende più dalla musica, ma solo nella musica trova salvezza.

Perché quest’album, perché questa formazione, perché oggi?
L’Universal ha deciso di ristampare il disco per il ventennale e ci ha chiesto di fare promozione. Ho pensato che al posto di limitarmi a fare interviste sarebbe stato divertente andare in tour. E avevo ragione perché c’è un nuovo pubblico per gli After a giudicare dai numeri mostruosi che stiamo facendo in prevendita.

È vero che la band era ferma da anni, ma non succede spesso che si azzeri una formazione per tornare a quella di vent’anni prima, no?
Ci sono motivi importanti. Quando ho deciso di fare il tour ho pensato: ok, ma con chi? M’è sembrato coerente farlo con la band che ha inciso il disco. Se negli ultimi anni non ho più suonato col gruppo è perché avevo voglia di fare qualcosa da solo, ma anche perché gli After erano diventati una piccola azienda. Magari dal punto di vista tecnico l’ultima formazione era la migliore di sempre, ma era fatta da musicisti che si dividevano tra venti diversi progetti e quindi bisognava organizzare le cose con mesi di anticipo, come in un’azienda appunto. Non c’erano più l’urgenza e la necessità di stare nel gruppo, non era più una band e io me n’ero disamorato. Quando invece ho parlato coi musicisti di Ballate per piccole iene ho visto una luce inequivocabile nei loro occhi. È una cosa che gli cambia la vita e quindi c’è un altro livello di energia e felicità. Nell’avere una band c’è un solo vantaggio, è uno ma è enorme: sentirsi complici. Ed è una cosa che mancava negli ultimi After.

So che non avete ancora fatto le prove, ma è vero che intendete rifare il disco in maniera filologica in termini di note e assoli, ma non in termini di suoni e strumentazione?
Vorrei che il suono fosse fresco, che è poi il motivo per cui abbiamo rimasterizzato il disco. Saremmo ridicoli se avessimo il suono di vent’anni fa. Nella prima parte della scaletta faremo l’album dalla prima all’ultima canzone. E sì, lo faremo in modo quasi filologico dal punto di vista delle parti.

C’erano questioni irrisolte fra voi quattro?
Una delle cose belle di questa chiamiamola così reunion era proprio quella di chiudere dei cerchi a livello personale. Il fatto di suonare insieme dopo vent’anni dà l’occasione di sistemare delle cose, di risolvere delle questioni.

Immagino specialmente con Giorgio Prette, che era una colonna portante degli After.
Con lui mi ero già ritrovato tempo fa. Ha fatto un percorso meraviglioso a livello personale e in parte credo di averlo fatto anch’io. Tra di noi c’è amore fraterno, possiamo prenderci a sberle e poi andare a giocare a pallone assieme, come fratelli appunto. Con gli altri è diverso perché c’erano state delle fratture, ma non così pesanti.

Manuel Agnelli è il protagonista della versione italiana di ‘Lazarus’, il pezzo di teatro musicale scritto da David Bowie con Enda Walsh. Le prossime date: 15-18 maggio Teatro Storchi, Modena; 28 maggio-1 giugno Teatro Arcimboldi, Milano; 5-15 giugno Teatro Argentina, Roma. Foto press

Che rapporto hai col passato, tuo personale e della band? Ci rimugini mai? Provi nostalgia?
Nostalgia mai, rimuginarci sì. Mi pento spesso di aver messo troppo tempo a prendere delle decisioni.

A livello di gestione del gruppo?
Sì, avrei dovuto ad esempio chiudere certi rapporti prima e farmi meno pippe mentali, perché non servono a niente. Nessuno ti dà una medaglia se decidi di non fare certe cose per una questione etica. Sono scelte che oggi mi sembrano vigliacche oppure dettate da rigidità. Abbiamo sbagliato cercando a tutti i costi di continuare a rappresentare quel che avevamo rappresentato a inizio carriera. Eravamo dei disturbatori, arrivavamo sul palco e musicalmente facevamo cose quasi terroristiche, ci vestivamo da bambine, non ce ne fregava un cazzo della reazione del pubblico. Anzi, più il pubblico era disgustato e più eravamo contenti. Ho fatto, abbiamo fatto molta fatica ad abbandonare questa idea. Andare a 50 anni in televisione mi ha cambiato la vita, sono riuscito finalmente a stare in mezzo alla gente rimanendo me stesso fino in fondo. Per me l’occasione più grande che ho avuto è stata quella lì, X Factor. Ho fatto anche altra televisione, ma X Factor ha rotto il ghiaccio. Sono riuscito a essere me stesso, anche coi miei lati scuri, e sono stato accettato senza fare compromessi. Sì, la televisione nazional-popolare. Ecco, questa cosa avrei potuta farla molto prima.

A proposito, è vero che quest’anno non farai X Factor?
No comment.

Allora parliamo dei testi. Quelli degli After non sono notoriamente leggeri, però qui ci sono tanta tensione, tanto dramma, molto più che in Quello che non c’è. Lì c’era a tratti una tenerezza che qua è assente. Da quale stato d’animo è nato il disco? Da dove veniva fuori questa roba?
C’erano malessere, rabbia, tensione. Chi come me usa la musica per stare meglio ci butta dentro tutte le scorie che ha. I dischi scuri come questo fanno stare meglio anche chi li ascolta.

Sono i testi di un disilluso, di un pessimista?
Sono i testi di un uomo di 39 anni che ha sviluppato un certo tipo di disillusione, che non è cinismo. In Quello che non c’è dico che non ho più punti di riferimento, Dio mio, dove sto andando. In Ballate per piccole iene dico: eccoci qua nella merda. In un modo o nell’altro è una presa di coscienza.

E perché ti sentivi nella merda?
Avevo perso ideali e punti di riferimento. Dalla fine degli anni ’80 e per tutti i ’90 si pensava che il mondo potesse migliorare. Cade il muro di Berlino, Arafat e Rabin si stringono la mano, crolla la dittatura di Ceaușescu, arriva Mani Pulite. Sono stati anni forti anche dal punto di vista musicale, pensa a tutto il movimento grunge, a Jeff Buckley, ai Radiohead. Pensavo: questa grande musica sta andando in classifica, quindi sta cambiando anche il nostro mondo. Poi ci sono state Genova, le due torri…

«Mi sono lasciato andare, sono stati anni di sfacelo»

Ok, questo a livello macro, ma a livello tuo personale?
Avevo difficoltà a stare in mezzo alla gente, ad accettare i compromessi, non capivo dove stavo sbagliando.

Per troppa rigidità?
Non era rigidità, era mancanza di esperienza, di capacità di analisi, di lucidità. E poi ti butti in questi vortici com’è successo a me in quegli anni, lasciandomi andare in negativo. Ti senti disorientato, non sai che pesci pigliare. Non sempre tieni duro e quando lo fai ti irrigidisci ancora di più e diventi cieco rispetto alle cose. Ecco, mi sono lasciato andare, sono stati anni di sfacelo.

Sfacelo anche nel senso della cocaina?
Di tutto quello che puoi immaginare, droga, sesso, rock’n’roll, amoralità varia, accettazione della propria mediocrità come atto liberatorio, come resa se vuoi. Tutte queste cose sono nel disco.

Effettivamente sento in queste canzoni una tensione tra il rifiuto di accettare una vita ordinaria e il buttarsi in esperienze distruttive.
È dal caos che a volte nasce la vita. C’era la disperazione per non essere riuscito a realizzare quel che volevo da tanti punti di vista, soprattutto personali, e quindi la volontà di lasciarsi andare, di perdere il controllo.

E come ne sei uscito?
Sbagliando, sbagliando di nuovo, sbagliando un sacco di volte. Prendendo legnate che alla fine ti raddrizzano.

C’è qualche legnata che ricordi in particolare?
Ce ne sono state tante a livello personale, ma proprio tante tante tante. Dire che sono contento d’averle prese sarebbe esagerato, però non sono pentito perché son cose che ti fan crescere tantissimo, ti rendono una persona consapevole e quindi una persona forte, quale io adesso penso di essere.

Afterhours - La Vedova Bianca

Il repertorio degli After in generale e in questo disco in particolare è pieno di canzoni alla seconda persona singolare. C’è un motivo per cui ami il tu? Dietro a quel tu si nasconde a volte un io?
L’Italia è il Paese dell’assoluzione, giusto? Ti confessi e ti senti assolto dai peccati. Quindi se mi confesso al pubblico, mi sento assolto da tutta la mia merda. È una cosa che ho razionalizzato dopo, ma l’ho usata molto. È una confessione liberatoria, butti fuori le tossine, ne esci assolto perché il pubblico ti restituisce energia positiva. È un processo fantastico di decomposizione da cui nasce un bel fiore.

E il tu?
C’è una parte autoanalitica che ho sempre avuto, ma che in quel periodo lì ha cominciato a diventare salvifica, indispensabile. Non erano più le pippe di un adolescente, le domande cominciavano a essere importanti: chi sono, chi non sono. Quindi sì, quel tu è per chi ci si vuole riconoscere, ma spesso mi rivolgo a me stesso. In altri casi quel tu si riferisce a persone precise come Francesca, la mia compagna di una vita, che è protagonista di alcune di quelle canzoni lì.

In Hai paura del buio? invece facevi i nomi precisi.
In Ballate per piccole iene ho preferito essere più generico, non volevo che la canzone fosse legata a episodi specifici. Ci sono riuscito se è vero che alcuni di quei pezzi li canto da vent’anni.

Mi pare di ricordare che l’album arrivò al secondo posto in classifica. Non eravate mai arrivati così in alto. Che effetto vi ha fatto?
È stata una grande soddisfazione, ma non certo la prima, ricevevamo già grandi riconoscimenti. Da allora e fino al 2012 abbiamo fatto centinaia di date in tutto il mondo. Nel 2006, quando uscì la versione cantata in inglese Ballads for Little Hyenas prodotta con Greg Dulli, se non ricordo male abbiamo fatto 148 concerti all’estero e 60 in Italia. Era dal 1997 che ricevevamo un casino di riconoscimenti, quindi bene o male eravamo abituati e, ti dico la verità, progettavamo le cose dando per scontato un certo tipo di risultato. E questo è stato anche un problema.

In che senso?
Perché perdi il senso della realtà e il valore delle cose.

Quando vi siete imbarcati nell’avventura americana c’era l’idea di diventare un gruppo internazionale? Oppure avendo tu 40 anni sapevi che sarebbe stata una bella esperienza e basta?
Forse è come dici tu, ma i primi tour che abbiamo fatto fuori dall’Italia ci hanno salvati, ci hanno rimessi in carreggiata, ci hanno impedito di sederci, specie il tour del 2006.

Era quello coi Twilight Singers?
Con i Twilight e con Jeff Klein. Facevo tre concerti a sera, stando sul palco per qualcosa come quattro ore: aprivo con Jeff Klein suonando le tastiere, poi suonavo con gli After e infine coi Twilight sempre alle tastiere. La cosa ridicola è che io viaggiavo con i Twilight su un comodissimo tour bus, mentre gli altri After ci seguivano col furgone facendosi un culo mostruoso.

Ah, i privilegi delle star.
Fu un tour leggendario, veramente figo, le recensioni dicevano che spaccavamo e che valeva la pena venirci a vedere, i locali si riempivano già alle 8 di sera.

Una bella soddisfazione, no?
Forse una soddisfazione da provinciali perché alla fine sei come un calciatore thailandese che va giocare nel Milan e anche se non vince la Champions si sente comunque arrivato. Abbiamo vissuto il sogno di ogni ragazzino. Ricordo un giorno durante il tour successivo, in Europa, giravo per le stradine di non so più quale città, forse in Belgio, e pensavo: sto facendo quello che volevo fare da ragazzo, andare in giro per il mondo a suonare la mia musica come voglio io. Una cosa magica che però è successa troppo tardi perché sì, avevo 40 anni, una figlia appena nata e in Italia andavamo benissimo. Alla fine ho fatto bene a non provarci e a restare in Italia.

Perché?
Per lo spazio che mi sono ritagliato qui. Faccio musica, teatro, radio, televisione. Faccio quel cazzo che voglio e non dipendo da nessuno. Ognuno di questi sistemi è indipendente e se una cosa va male, ce n’è sempre un’altra. È stata una scelta di vita. Dico sempre che suono per fare quel che voglio nella vita, non il contrario.

«Se mi confesso al pubblico, mi sento assolto da tutta la mia merda»

Restando sull’avventura all’estero, sono andato a recuperare alcune recensioni dell’epoca. Ti faccio ridere: Pop Matters dà 8 a Ballads for Little Hyenas e vi descrive come dei Cult con la depressione e dei Soundgarden col cervello e non solo i muscoli…
(Ride) A Greg piacerebbe questa dei Soundgarden col cervello… Guarda, andando negli Stati Uniti mi sono liberato di tutti i cliché che avevo in testa. Lì se sei bravo non gliene frega un cazzo se sei thailandese o nigeriano. Non in Inghilterra dove sono protezionisti. Ricordo un giornalista del Guardian che venne nel backstage a dirmi: «Siete stati fantastici, ma sai che non scriverò di questo concerto, vero?». Gli ho risposto: «Lo so, non ho 19 anni e non ho i brufoli». È scoppiato a ridere. Ho trovato gente prevenuta verso noi italiani solo nel Nord Europa, molto in Germania, ma non a Berlino.

Mi viene da sorridere ogni volta che sento la sigla del programma di Radio 24 Leoni per Agnelli, la parte in cui immagini un mondo fatto solo di Manuel e quindi perfetto. È autoironico, ma dice una cosa vera sul tuo ego. Sei sempre stato così o l’autostima è cresciuta col tempo? E poi, non invidi i rapper che non devono mostrarsi umili?
Guarda, i rapper non li invidio da nessun punto di vista, soprattutto l’abbigliamento (ride). Il punto è che in Italia c’è un’ipocrisia mostruosa per via della presenza della Chiesa cattolica. Dobbiamo essere umili, formichine rispetto alla grandezza del creato, dobbiamo sempre sminuire quel che facciamo. Ma per essere preso sul serio in Italia devi prenderti anzitutto tu sul serio, perché nessun altro lo fa. Che tu faccia qualcosa di tremendo o di bellissimo, ti diranno comunque che è una merda. Siamo fatti così. Negli Stati Uniti non ti tirano giù, ti portano su, ti dicono «cazzo, sei bravissimo», è un modo di gestire l’energia molto più produttivo e sano. In Italia invece se uno ha successo, la gente si chiede che cosa c’è sotto, se è raccomandato. Al posto di lodare i tuoi pregi, vanno a cercare i tuoi limiti. E guarda, succede soprattutto nel mondo della musica, è una roba tremenda. Il mondo della musica italiana fa cagare, l’atmosfera fa cagare ed è il motivo per cui non sono rimasto legato a un particolare ambiente. Sarei diventato creativamente più rigido. Da quella roba lì ho cercato di uscire il prima possibile perché era un mondo di sfigati. Voglio lavorare con persone che stimo, non con gente che ha i miei stessi stessi gusti in fatto di suoni di chitarra.

La ristampa di ‘Ballate per piccole iene’ uscirà il 6 giugno. Il tour degli Afterhours partirà il 26 giugno dal Sequoie Music Park di Bologna. Foto: Michele Piazza

Tornando all’ego, lo hai coltivato questo tuo personaggio…
Be’, alla fine funziona. A me diverte e ora comincia a divertire anche gli altri. L’ho fatto anche in televisione, no? In realtà io so benissimo quali sono i miei limiti ed è una cosa che mi ha aiutato ad essere abbastanza sereno con me stesso.

E quali sono i tuoi limiti?
Non vengo a dirteli.

Dai, almeno uno…
Beh, non sono né Beethoven, né Freddie Mercury, né John Lennon.

E chi lo è? Questo non è un limite…
Non penso d’essere Dio in Terra, non faccio musica per fare arte altissima, non mi alzo la mattina pensando: oggi devo scrivere un capolavoro. Del resto neanche i Beatles lo facevano, loro pensavano: oggi devo scrivere una piscina. Mi alzo la mattina pensando che posso fare quel cazzo che voglio divertendomi. E forse questo è il mio grande limite in quanto artista: per me l’arte non è sacra. Anzi no, è sacra, ma non vivo per l’arte. La uso per vivere.

Il tuo investimento emotivo nella musica è cambiato rispetto a 20 anni fa? Sai, crescendo la vita diventa complessa tra famiglia, figli, altri impegni…
Il fatto di avere questi mondi diversi mi ha spinto a considerare la musica per l’unico aspetto che conta veramente, che è quello ludico. Facendo altro, mi sono sentito più libero anche nella musica. Non ho ammazzato la parte musicale, l’ho fatta rinascere grazie alle altre cose che mi arricchiscono, mi stimolano, mi danno una libertà pazzesca. Tieni conto, poi, che sono trattato da principino ovunque vada, in radio, teatro, televisione, ma non nella musica.

Be’, dai…
Per carità, non mi lamento del profilo che ho, ma se parli con i discografici… non sono uno che vende milioni di dischi. Voglio dire che oggi la musica è il settore che mi rende di meno economicamente e professionalmente, ma è l’unica parte veramente salvifica e quindi è la parte più importante in assoluto. E fammi dire un’altra cosa sull’umiltà: la celebrazione del proprio ego sta alla base dell’arte. Celebrare il proprio ego ed essere consapevoli di esistere è una cosa bellissima, per cui un conto è essere presuntuosi e un altro è essere egocentrici. Non c’è un solo artista che non sia egocentrico, se no non salirebbe su un palco a raccontare cose presumendo che gli altri le trovino interessanti.

«La musica è il settore che mi rende di meno, ma è salvifica»

Quando avete iniziato i musicisti rock alternativi erano un po’ dei freak, gente diversa rispetto al mainstream. La diversità in certi ambienti era considerata un valore.
Nella musica più che in altri campi dell’arte abbiamo vissuto anni di appiattimento, è lo specchio della globalizzazione. Negli ultimi vent’anni in Italia cinque produttori e cinque autori hanno fatto la maggior parte delle canzoni che infatti son tutte uguali, suonano allo stesso modo, hanno gli stessi ingredienti e la parte tecnologica della produzione conta molto di più della scrittura, per non parlare dei contenuti. Ecco, quella roba lì ha rotto i coglioni. Entro qualche anno, io spero il meno possibile, tutta ’sta merda verrà spazzata via, finalmente. Per lasciare spazio a che cosa non lo so, ma qualsiasi cosa è meglio di quel che c’è adesso. Un indizio però ce l’ho.

Dimmi…
Sono andato a vedere mia figlia che suona in una band in un piccolo centro sociale di senegalesi, il CIQ in zona Corvetto a Milano, con le nonne che vanno a cucinare e le band che suonano hardcore/neo grunge/wave/punk di fronte a 200 ragazzini che pogano come indemoniati. Ma allora, mi sono detto, c’è ancora un underground. A Germi abbiamo inaugurato Carne fresca, rassegna di gruppi di ragazzi che hanno dai 15 ai 30 anni e abbiamo ricevuto qualcosa come 700 richieste in due mesi. Ci siamo resi conto che c’è una realtà in tutta Italia, così come c’era alla fine degli anni ’80, una realtà che è totalmente sconosciuta pur essendo enorme. Tra l’altro è gente che suona meglio di come suonavamo noi alla loro età e che nel 30-40% dei casi fa roba buona. Credo che questa sia la nuova wave, tornare a incontrarsi fisicamente, scambiarsi delle esperienze che non sono virtuali e quindi hanno un’altra potenza. Molti di questi ragazzi non hanno nemmeno i social e chi li ha li usa poco. Ma posso aggiungere una cosa, per mettere i puntini sulle i?

Ma certo.
Io amo il rap. Sono andato a vedere i Run-D.M.C., i Public Enemy, i Beastie Boys quando sono venuti in Italia. Amavo i De La Soul, amo Eminem. Non mi piacciono l’omologazione e la retorica. E il rap e la trap di oggi sono omologazione e retorica.

Foto: Laila Pozzo

Hai fatto il Tora! Tora!, Il Paese è reale, hai lanciato altre iniziative collettive, hai sempre avuto l’ambizione di incidere sulla cultura pop. Ti è passata o ti è rimasta?
Ho preso esempio da chi è arrivato prima di me. Parlando con gente che ha fatto la controcultura negli anni ’70, non necessariamente musicisti ma anche ex politici, ho capito la forza dell’aggregazione. Nel nostro piccolo l’abbiamo vissuta, i centri sociali erano forti fra gli anni ’80 e i ’90, abbiamo vissuto un’alternativa vera, perché la nostra musica viveva di vita propria senza essere sui media, non facevamo parte del mercato discografico ufficiale eppure facevamo decine di concerti all’anno. La casa me la sono comprata prima di X Factor, per dire. Quindi so che forza c’è nell’aggregazione e so che da soli non si combina un cazzo, ci si fanno le seghe, per quanto io sia un fan delle seghe. Ho sempre cercato di costruire una scena, un substrato dal quale potessero nascere cose.

E oggi?
Oggi cerco di fare informazione, che è quello che la controcultura anni ’70 ha fatto con noi. Ci hanno insegnato ad autoprodurci, autopromuoverci, autodeterminarci, a non dipendere dagli altri. Solo che noi non l’abbiamo passata alla generazione dopo, che infatti è stata un disastro. Hanno distrutto tutto quello che avevamo costruito e non hanno portato niente di nuovo. Sto parlando di musica, eh?

Sì, sì.
Ora invece questi nuovi ragazzini sono molto promettenti, hanno la tendenza all’aggregazione dopo anni di io, io, io, di isolazionismo, di divisionismo. E quindi oggi ho la possibilità di parlare delle mie cose, di fare le mie cose, di assegnare ad esempio i pezzi a X Factor e raccontare perché. E in radio faccio la stessa cosa, in Leoni per Agnelli racconto un punto di vista, non sono interviste a caso.

Tornando agli Afterhours, vedi un nuovo ciclo per il gruppo dopo questo tour?
Io gli After ormai li vivo alla giornata. Mi importa che ci sia sempre una tensione, una vitalità necessaria, enorme, salvifica. Se non c’è quella roba lì, diventa un lavoro come un altro e allora guadagno di più altrove. Con gli After di adesso ho ritrovato quella roba lì, guardandoli negli occhi ho visto quell’energia. Poi non so che cosa succederà.

L’anno prossimo compirai 60 anni. Conti di festeggiare o farai finta di niente?
Sono gli ultimi che festeggio. Poi faccio come la regina Elisabetta e smetto di contarli. La madre è morta a 101 anni, lei a 96, evidentemente funziona.

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