«Nelle Langhe, nel Monferrato, nel Saluzzese o nel Vercellese, in Brianza, a Pavia come a Milano, le acciughe piacciono, è cibo povero, per povera gente. È pesce che dà gusto e dura, non va mai a male».
Nico Orengo, uno che scriveva, di acciughe ne sapeva. Tanto che a cavillare sulla distinzione tra pesce fresco o “curato”, acciuga-alice, sottile o cicciotto, a libretto o sfaldato nel burro, manco ci si mette. L’acciuga è una, punto e basta. Fa il pallone, come canta De Andrè – «Le acciughe fanno il pallone / Che sotto c’è l’alalunga / Se non butti la rete / Non te ne lascia una» – creano una grande sfera quando senza luna, la notte, ci butti sopra la lampara, e via a pescarle, lavorarle, divorarle o salarle. Orengo era torinese ma di stirpe ligure (nobile genovese, nientemeno), e su quella gobba affacciata sul Tirreno ce ne passava, di tempo.
Nel Ponente soprattutto, dove la Francia incombe e lui, tra le curve della Riviera, ci svernava l’anno. Il legame con il centro di propulsione sabaudo non viene mai a mancare. Anzi, è proprio grazie a un pesce comune tanto da esser definito umile che prende corpo, e le pagine de Il salto dell’acciuga (agile saggio narrativo) a girarle paiono profumate, sfrigolanti come il grasso in cui quel pesce azzurro – si sa, è buon costume – viene messo a bagno. Anzi, più precisamente:
«Vasco prende le acciughe dal piatto, le apre, le lava ancora sotto l’acqua fredda e poi le asciuga sui fogli di scottex. Si avvicina a una terrina e ci versa due bei bicchieri d’olio e una noce di burro. A questo punto ci versa la noce tritata e accende a basso fuoco. Con una paletta di legno amalgama olio, burro e noce. E ci lascia cadere con religiosità le acciughe, una per una e gira con polso di velluto. A parte ha fatto bollire nel latte l’aglio e ora, che è freddo, dopo averlo asciugato lo schiaccia con il palmo della mano e lo butta nella terrina».
Il che porta a puntualizzare: «Dico a Vasco che la bagna caoda viene dalla Liguria. Ride. Gli dico che poco prima di Natale l’abbiamo mangiata a Dolceacqua. E non credo sia solo la presenza di “foresti” torinesi ma anche di un ricordo tornato alla memoria, dopo secoli».
È questo il salto contenuto nel titolo, l’oltrepassare la montagna, arrivare in Piemonte e da lì essere popolarizzata tra la gente che di mare non è, che il pallone delle acciughe manco sa cosa sia. Senza intrigarci nelle dispute di paternità su questa o quella ricetta (non siamo né liguri né piemontesi, né abbiamo desiderio di diventarlo), la storia un po’ romantica, un po’ fattuale raccontata da Orengo parla di invasori Saraceni, stanziamenti sulle future coste italiane, battaglie per mare. E mestieri che passano di terra in terra.
Il salto, nello specifico, l’acciuga lo fa con il sale. Il Mediterraneo di sale ci frigge, scrive Orengo, ma per arrivare sul continente deve passare da Genova. «Pane, olio, vino, e sale. In quattro parole: la vita; quella era, per i liguri genovesi, nel pugno dello Stato». Il che vuol dire dazi, gabelle. Per aggirarli si iniziano a scovare – e scavare – strade alternative: in queste si incista il contrabbando. È per nascondere il sale che le acciughe diventano protagoniste, strati di pesce a coprire il vero tesoro. «Secondo te qui era più importante l’acciuga o il sale? Certamente il sale, l’acciuga era il companatico. Ma l’acciuga poteva nascondere il sale o diventare importante quanto e forse più del sale».
Una storia che conoscono bene quelli di Rizzoli Emanuelli, azienda conserviera fondata più di cento anni fa, nel 1906, a Parma dalla precedente esperienza di un’analoga impresa torinese (e inserita tra le eccellenze gastronomiche della provincia emiliana che, questo 10 settembre, sono state servite durante la Cena dei Mille, evento annuale di beneficenza che porta mille commensali nel centro storico della città di Verdi e del prosciutto). Punto di scarico, appunto, di questa via del sale, che tra lecito e contrabbando si portò dietro le acciughe. Il trasferimento in Emilia, nella proto-food valley, avvenne alla fine dell’Ottocento per motivi di convenienza: l’industria conserviera legata alla lavorazione delle verdure (Mutti & co.) era già sviluppata, e sarebbe dunque stato favorevole inserirsi in un contesto già affine.
Lo avrete presente: è il marchio delle Alici in salsa piccante, che porta nel logo un buffo terzetto di gnomi. C’è una storia anche per quello: i proprietari avrebbero ricevuto una partita di pesce così straordinario dal Nord Europa che l’avrebbero voluto ricordare, tra fiabe tradizionali e creature magiche, anche nella loro identità. Oggi le Rizzoli si aprono sotto Natale, alle feste, quando vuoi una pasta buona senza sbatterti troppo (e allora non scolate per buttare via il sugo, ve ne preghiamo…) o fare bella figura a costo zero.
Un consumo edonistico, nato come genere di contrabbando. Passato poi nelle bisacce dell’esercito italiano come razione di pesce e proteine. Da qui le lattine (della latta ve ne abbiamo già parlato) si tingono di rosso e iniziano una serie di edizioni speciali: dedicate alle opere di Verdi o a diversi territori, per esempio (alici alla Tripoli, alici Falstaff, ecc). Hanno ricette diverse, pare. Pare che la lattina contenesse condimenti, olive capperi verdure. Così Rizzoli fa ancora uno dei prodotti che va per la maggiore, lo sgombro.
Nel mentre che mettono a punto la ricetta del loro successo, incidentalmente depositano anche il brevetto per l’apertura a strappo. Thank Rizzoli per averci levato d’imbarazzo più di una volta. Il segreto vero, però, sta tutto lì: nella salsa. «Che non è stabile e non possiamo vendere a parte», ci dicono durante un giro per gli stabilimenti. «La ricetta è segreta, la conoscono solo due-tre persone per volta. Per il resto, anche noi sappiamo solo che comprende venti ingredienti. Non tiene nemmeno in frigorifero perché una volta, dovendo arrangiarsi, hanno sviluppato probabilmente combinazioni di ingredienti che funzionassero solo in un certo tipo di ambiente, meno controllato».
Ok, ma prima della salsa? Come dice Orengo, prima è solo il pesce. Che viene pescato con barche dotate di ghiaccio, scapato, pulito parzialmente, subito salato. «Il nostro punto di forza è avere il nostro personale sulle barche dei fornitori. I nostri salatori sono lì e pronti a controllare la qualità del pesce e ad applicare la giusta dose di sale al momento giusto». Le prime fasi della vita post-acquatica di un pesce, sottolineano, sono fondamentali: è lì che se ne determina sia la tenuta a livello di freschezza, sia la proliferazione batterica. La quale, se fosse eccessiva, potrebbe portare allo sviluppo di quantità eccessive di istamina, un allergene che può risultare, ad alcuni individui, fatale.
Dopo, si trasporta e si fa maturare in magazzino, rigorosamente in botti di rovere passate prima dal Marsala. Quattro mesi è il minimo sindacale, in realtà si va dai sei in su, fino ai 12 o ai 18. Capitale che sta lì, buono, accumula tempo. La strategia è la stessa del Parmigiano Reggiano: lo metti in stock, si fa da solo. Sai che è pronta, l’acciuga, quando da “grigia” cioè spentina diventa carnosa, pastosa, rossa di salsa. Ogni tipo e taglia di pesce ha la sua stagionatura. Le regole sono: no sbalzi termici, se fa più caldo matura più in fretta.
Allora si sfiletta, per Rizzoli solo per mano di donna perché è più agile. Spacca la gobba del pesce, apre in due, spezza la lisca. Provateci e poi pensate che c’è qualcuno che lo fa in una manciata di secondi. Via di latta ora, da settembre a fine anno si lavora solo sul Natale, quando tutti vogliono la salsa. Perché ad alcuni piacerà il prezzemolo, ad altri il coriandolo (controllate, ma spesso le due cose sono contrapposte); ma anche chi non mangia proprio pesce (pazzi) all’acciughetta non dice di no.
«Il consumatore in effetti non è molto esperto, almeno in Italia. Pensa che esportiamo da anni in Giappone ma non abbiamo ancora una distribuzione nazionale completa qui da noi», continuano da Rizzoli. «Non si fanno problemi sulla taglia o la specie del pesce, ma appena arrivano a casa con un barattolo di acciughe in vetro, per dire, lo travasano in Kuhn contenitore di plastica che tengono in frigo. Perché? Noi non lo sappiamo». Quello che sanno però è che il loro consumatore è appassionato di cinema, legge molto, è ben formato. E, tendenzialmente, sta diventando più giovane. «Abbiamo come saltato la fascia in mezzo, verso i Millennial. Ma la GenZ ci sta riscoprendo». Millennial, mannaggia, sempre loro. Taci, anima stanca di godere, scriveva un altro ligure, Camillo Sbarbaro.
In realtà forse è che, nonostante l’Italia sia tutta una costa, del pesce non siamo davvero esperti, e diamo per assodato che fresco sia sempre meglio che altro. Può essere vero, non lo è di regola. Forse è che le latte sono una soluzione d’emergenza. «Un altro esempio: conosciamo tutti la pubblicità del “tonno così tenero che si taglia con un grissino”. Ma sarà mica una buona cosa per il tonno, sfaldarsi così? Non lo è affatto. Questa è l’abilità dei nostri competitor, che sono riusciti a far passare un difetto come una cosa desiderabile».
In un mercato che al 2022 valeva 123 milioni di euro nella sola Italia, comunque, c’è spazio per tutti. Almeno finché riusciremo a rimanere rispettosi di quei pescetti che fanno il pallone e misurano circa una mano, in stagione verso l’estate, che arrivano (soprattutto) dal Mar Cantabrico. «Le anciove che rubano il sale dal mare, che raspano la gola e son pesci da montagna», riporta Orengo, ed è una canzone seriamente goliardica a favore di alici, o acciughe, o come volete. Negli amori di contrabbando, alla fine, le regole son poche. Stanno tutte nel segreto di una salsa piccante.