Dentro il mondo di
Lil Wayne
Cronaca di un inseguimento tra interviste mancate, ritardi micidiali, attese interminabili. Alla fine il grande rapper americano ci ha fatto ascoltare in anteprima ‘Tha Carter VI’ e ha parlato per ore della famiglia, delle collaborazioni da Bono a Bocelli, del mancato invito al Super Bowl, della foto con Trump. Aspettatevi risposte schiette, un senso di libertà assoluta, canne a volontà
Foto: Theo Wenner per Rolling Stone US
Sono le 5 del mattino e c’è un silenzio assoluto ai Tree Sound Studios. Chiuso in una stanza del grande complesso vicino ad Atlanta, sto per diventare la prima persona al di fuori dalla cerchia di Lil Wayne a sentire Tha Carter VI, l’album a cui il rapper lavora da sei anni.
L’ascolto doveva iniziare all’1 di notte, ma Wayne è arrivato con due ore di ritardo. Il suo manager Fabian Marasciullo, un tizio del Queens corpulento e affabile, spiega che il rapper ha voluto apportare delle modifiche dell’ultimo minuto alle canzoni prima che le sentissi. È stato minuto decisamente lungo. Sul mixer complicatissimo che c’è nella stanza non saprei dove mettere le mani, ma se non altro ho imparato a usare la macchinetta del caffè.
Passando del tempo appresso a Wayne ho imparato che le attese infinite sono all’ordine del giorno. Sono stato due volte Los Angeles per altrettante interviste che alla fine non abbiamo fatto, l’ultima delle quali è saltata a causa degli incendi in città. Ieri sera Wayne ha fatto un concerto alla State Farm Arena di Atlanta che ho visto dal palco, senza però poterci parlare. L’inseguimento continuerà anche dopo stanotte, con interviste mancate, nottate in bianco e una copertina di Rolling Stone rimandata.
Se non altro al Tree Sound è finalmente pronto a ricevermi. Marasciullo mi accompagna nella stanza di Wayne dove vengo investito da una zaffata d’erba. Lui sta in piedi vicino alla porta, con look all black di Balenciaga e una fascia nera attorno al collo simile alla solja rag che ha reso popolare con gli Hot Boys una trentina di anni fa. Al collo ha una catena di platino scintillante a maglie cubane.
In fondo alla stanza ci sono Kameron, il figlio quindicenne con addosso una felpa rosa della Bape, e il suo fotografo personale Phillip Lopez. Dall’altra parte c’è il tatuatissimo Lil Twist, che è sotto contratto con la Young Money Entertainment di Wayne da quand’aveva 17 anni. Non somiglia per niente al rapper con la faccia da bambino e i capelli alla mohicana che abbiamo visto per la prima volta quando l’etichetta ha iniziato a scalare le classifiche, alla fine degli anni Zero.
Wayne mi dà la mano e borbotta una cosa tipo «Sei qui per sentire la roba». Sceglie un brano e chiede al tecnico del suono di farlo partire. Sono troppo impegnato a elaborare la solennità del momento per rammentare i dettagli della canzone. Ricordo un ritmo incalzante su cui Wayne sputa rime e libere associazioni come una furia. Mentre sente il suo pezzo, annuisce.
Quando finisce, si avvicina e mi guarda negli occhi: «Se hai un rapper preferito, digli che mi può succhiare il cazzo». Marasciullo ride di gusto. Ora sì che sono sveglissimo.
A 42 anni d’età e con 30 anni di carriera alle spalle, Lil Wayne è ancora animato dal desiderio di essere il migliore in circolazione. Nato Dwayne Michael Carter Jr. nel quartiere Hollygrove a New Orleans, è stato messo sotto contratto a soli 11 anni dopo aver chiamato ogni giorno l’ufficio della Cash Money Records rappando nella segreteria telefonica. Alla fine Bryan “Birdman” Williams e suo fratello Ronald “Slim” Williams gli hanno dato una chance. Ha aiutato la Cash Money a diventare un colosso del Southern rap come quarto membro degli Hot Boys, è diventato l’artista solista di punta dell’etichetta, è stato alla testa del movimento Young Money. E non ha mai smesso di far musica ogni giorno.
Quando gli chiedo qual è stata l’ultima volta che è andato in vacanza, mi risponde che «sono in vacanza quando registro». Ok, certo, ma una vera vacanza rilassante no? «Mai capita questa cosa», dice, con una canna accesa in mano. «Da cosa ti prendi una pausa? In vacanza devi fare le cose che ti piacciono, no? Quindi porto la mia musica con me».
La musica ha a sua volta portato Wayne a tagliare traguardi che pochi rapper possono vantare. I suoi 13 album da solista, i suoi cinque EP, la sua trentina di mixtape e le centinaia di featuring lo hanno portato 187 volte nella Billboard Hot 100. Nel 2024, il featuring in Sticky di Tyler, the Creator ha portato a 21 il conto degli anni consecutivi in cui è entrato in quella classifica, un record assoluto. Nonostante i problemi di salute, i guai legali che hanno bloccato per cinque anni Tha Carter V (2018) e una pena di otto mesi scontata a Rikers Island per detenzione abusiva di armi, Wayne è ancora qui a far musica con la fame di un esordiente.
Wyclef Jean, che è uno dei collaboratori principali di Carter VI, pensa che da qui a qualche secolo Wayne sarà considerato un’icona. «Adesso la gente studia Bach e Thelonious Monk, Miles Davis e Shakespeare», dice via Zoom da Parigi. «In futuro lui sarà considerato uno dei più grandi compositori rinascimentali della nostra generazione».
«Sono come un cestista che continua a fare 30 punti a partita»
Il disprezzo per le regole ha aiutato Wayne a rimodellare l’hip hop. I riccioli, i tatuaggi che gli coprono il corpo e l’abbigliamento colorato l’hanno reso un anticonformista modello per orde di giovani MC venuti dopo di lui. Durante l’ondata di ringtone rap e snap dance degli anni Duemila ha resistito in nome di tutti gli autori di testi e l’ha fatto con una produzione inarrestabile che ha ridefinito il significato del termine “prolifico” nell’hip hop. Brani profondi, cupi e melodici come Me and My Drank e Prostitute hanno dato vita a intere correnti di hip hop nichilista e orecchiabile. Praticamente si è cimentato in tutti gli stili e gli argomenti, compreso il rock con Rebirth del 2010.
E non ha ancora finito. Di recente ha dato in pasto ai fan collaborazioni con chiunque, da Doja Cat a Lil Baby, da Nas a Jack Harlow. Nel 2023 ha pubblicato l’album Welcome 2 ColleGrove con l’amico 2 Chainz e il mixtape Tha Fix Before Tha VI, sorta di antipasto di Carter VI. A quanto pare, al posto di andare a caccia di hit preferisce lavorare sulle barre e sulla sperimentazione.
Al netto della sua bravura, l’approccio “no ego” di Wayne come dirigente della Young Money ha spianato la strada a Drake e Nicki Minaj, quando erano freschi di contratto, e ha preparato artisti come Tyga ad ottenere un successo duraturo. La sua ultima iniziativa imprenditoriale è la gestione dell’agenzia Young Money APAA Sports, che rappresenta più di 100 atleti tra cui Travis Hunter, vincitore dell’Heisman Trophy e destinato a diventare una delle prime scelte nel Draft NFL del 2025. È un rapper-imprenditore come Jay-Z e 50 Cent, ma non sempre questa cosa viene riconosciuta. Lui dice che non gli spiace, soprattutto perché è ancora molto concentrato sulla musica e usa una metafora legata al basket per spiegarlo.
«Immagina di essere un giocatore-allenatore che fa ancora una media di 30 punti a partita. Un tizio ti chiede: “Ti senti sminuito perché non si parla di te come allenatore?”. No, perché io comunque continuo a fare 30 punti ogni sera. Sono contento di essere il rapper numero uno. E poi magari qualcuno fa una scoperta: “Oh cazzo, è pure il proprietario di Young Money? Ha pubblicato Drake? Wow”».
Il primo imprevisto del mio reportage si verifica a dicembre. Sono in volo da qualche parte sopra le Montagne Rocciose, sto andando da New York a Los Angeles per intervistare Wayne. Mi dicono che ha avuto un’emergenza e deve annullare la cosa. Mi assicurano che sta benissimo, ma non può parlarmi. Torno a New York il giorno dopo. A inizio di gennaio volo di nuovo a Los Angeles nel momento in cui gli incendi si stanno propagando in città.
Vado in uno studio di Thousand Oaks per incontrarlo. Trovo vari membri del suo team, tra cui Marasciullo che porta una collana scintillante della Young Money, un regalo di Natale della star (il manager aveva intenzone di ricambiare con delle pantofole a forma di alluce gigante).
Sento un ronzio forte e insistente che arriva dal telefono di Marasciullo e penso che sia un altro alert antincendio. È invece la suoneria che ha abbinato a Wayne. Risponde in vivavoce mentre lascia la stanza e prima che esca sento Wayne esclamare: «Stasera non faccio quella roba, non vedi che sta succedendo?». Wayne, mi diranno in seguito, ha dovuto lasciare la sua casa di Hidden Hills, che però non ha subito danni e ha avuto solo un blackout temporaneo. Marasciullo torna nella stanza dopo una decina di minuti e mi spiega che non si farà nulla. Il giorno successivo, il Sunset Fire mi costringe a lasciare il mio hotel di Hollywood per tornare a New York. Il mese precedente, quando mi hanno avvisato che saltava tutto, ero in volo. Almeno stavolta ho sentito la voce di Wayne.
Undici giorni dopo, alla State Farm Arena di Atlanta, il pubblico è pronto per il concerto di Lil Wayne prima della partita di playoff del campionato di football dei college. C’è un unico problema: Lil Wayne non c’è. Sono le 23, il concerto doveva iniziare un’ora fa e una decina di persone, per lo più gente del team del rapper, aspettano nel backstage. Marasciullo risponde alle telefonate. Uno dei dipendenti dell’arena, calvo e con un pesante accento della Georgia chiede ai colleghi se «quello stronzo arriverà prima che mi ricrescano i capelli».
Mezz’ora dopo, si passa all’improvviso da 0 a 100. Tre poliziotti si precipitano fuori per andare incontro al furgone di Wayne. Subito dopo arrivano i figli del rapper: Kameron, il sedicenne Dwayne III (che rappa col nome di Lil Tune) e il quindicenne Neal (alias Lil Novi). Poi arriva lui, vestito in tuta mimetica bianca e nera, stivali neri, berretto nero e occhiali da sole bianchi. Scommetto che è tutta roba di Balenciaga. Difficile dire se sia più grande l’anello di platino che porta al mignolo o la canna accesa che tiene in mano. Nel camerino ci sono due magliette con la scritta “Free Lil Durk”. Quando, più tardi, chiedo a Wayne di parlarne, mi dice che non sapeva che il rapper di Chicago fosse in prigione.
«Se hai un rapper preferito, digli che me lo può succhiare»
Trae Young e Dominique Wilkins, i campionissimi degli Atlanta Hawks, probabilmente sono le uniche altre persone che potrebbero superare i metal detector dell’arena fumandosi una canna, anche se non lo farebbero mai. Quando passa Wayne il metal detector suona, ma a nessuno frega. C’è sollievo ed eccitazione mentre quelli del giro di Wayne che prima erano sparsi in giro si radunano fino a formare un muro attorno a lui, con la security davanti.
Saliamo sul palco in una decina mentre le luci s’abbassano. Sono passati appena cinque minuti da quand’è sceso dallo Sprinter e la folla si scatena sulle note di Mr. Carter. L’hook del pezzo è la traduzione dei miei pensieri: “Mr. Carter, where have you been?”.
Capisco alla fine che nel mondo di Wayne il tempo non è granché importante. Lopez, il fotografo, mi racconta che il loro jet privato per Atlanta doveva partire da Los Angeles all’1 di notte. Sono rimasti a bordo fino alle 6 aspettando Wayne. Nessuna delle persone con cui ho parlato critica la mancanza di puntualità del rapper o le ore piccole che costringe a fare: semplicemente non lo considerano un difetto, ma una peculiarità legata al fatto di avere a che fare con un anticonformista. Wyclef ha una teoria per cui lui e Wayne sarebbero nottambuli per via del loro segno zodiacale: «Quasi tutti i Bilancia amano la notte».
Negli anni ’90, Birdman portava gli Hot Boys in studio a registrare di notte e lo schema è rimasto quello. La giornata tipo di Wayne finisce poco dopo aver lasciato lo studio e aver fatto colazione guardando i programmi sportivi della mattina. Va a dormire e si sveglia per cenare verso le 18. Quando gli dico che le sue giornate sono l’inverso di quelle di una persona normale, risponde ridendo che non ci aveva mai pensato.
A quanto pare Wayne ha dormito abbastanza per fare alla State Farm Arena una scaletta che copre tutta la sua carriera. Fa Back That Azz Up e Money on My Mind, oltre a standard come Drop the World e Uproar. Chiama sul palco 2 Chainz per Duffle Bag Boy del 2007 e Rich as Fuck del 2013, poi continua da solo. A un certo punto, un frammento di Day-O (The Banana Boat Song) di Harry Belafonte si trasforma in 6 Foot 7 Foot. La maggior parte del pubblico sembra avere dai 25 anni in su, ma è eterogeneo a livello di etnia, look e stile.
Lasciando il palco sulle note di I Will Always Love You di Whitney Houston, Wayne saluta 2 Chainz e sua zia nella zona di carico del palazzetto. I due parlottano dei programmi per la sera successiva. «Ti chiamo», dice 2 Chainz mentre si salutano. Wayne, ovviamente, va in studio dopo lo show.
Quando cerco di entrare in una stanza del backstage dove Wayne sta scattando foto coi fan, la sua guardia del corpo mi blocca con un gomito. Gli dico che sono di Rolling Stone. Mi risponde con disprezzo di «no», come se non stessi cercando di fare il mio lavoro, ma gli avessi appena chiesto 20 dollari. Dopo le foto, tutti escono dall’arena e salgono su una carovana di Sprinter e suv scortata dalla polizia.
«Basta, non mi interessa più fare il Super Bowl, hanno rovinato tutto»
La sera dopo, ai Tree Sound Studios, Wayne lascia parlare la musica, stando vicino al suo tecnico e indicandogli quali canzoni suonare. A volte dà qualche informazione sui featuring di Elephant Man e MGK o la partecipazione di producer come Ye (che ha prodotto un brano che potrebbe essere escluso dall’album) e Wheezy. Poi si sposta nell’angolo più lontano della stanza e si isola nel suo mondo. Su certi pezzi fa qualche passo di danza e su altri annuisce vigorosamente con la testa.
Sento una canzone in cui Wayne imita molto bene la cadenza di One More Chance di Biggie e Hit ‘Em Up di Tupac. Un’altra traccia è un’ode all’andare in cerca di avventure a Los Angeles, con tanto di omaggio al compianto Matthew Perry (Wayne dice ridendo che manco sapeva chi era Perry, che ha messo nel testo dopo aver cercato un nome che si adattasse alla metrica).
L’album, in uscita il 6 giugno, è il sesto della serie Tha Carter ed è una prova della sua duttilità. Wayne scrive versi che parlano di momenti e stati d’animo diversi, ma è sempre riconoscibile. Un’altra canzone che ascolto (e che, scoprirò in seguito, probabilmente non sarà nell’album) contrappone un riff idilliaco a un hook rabbioso che dice: “Go hard on a bitch”.

Con Birdman nel 2004. Foto: Julia Berverly/Getty Images
Wayne spiega di avere copiato il verso da una barra di Birdman presente in una vecchia traccia incisa per la Cash Money. È ancora in buoni rapporti con Birdman, il padre acquisito che ha guidato la sua carriera fino a quando, nel 2014, una disputa contrattuale ha portato Wayne a fare causa alla Cash Money Records di Birdman per 51 milioni di dollari. Ha accusato l’etichetta di essersi intascata i soldi che gli erano dovuti e di aver ritardato l’uscita di Tha Carter V. Nel 2018, Wayne ha accettato un accordo per una somma pare superiore ai 10 milioni.
I due si sono poi rappacificati. «È sempre il mio papi, ci parlo tutti i giorni», spiega Wayne, dicendo che Birdman lo chiama spesso per avere consigli sulle scommesse sportive. Il tempo ha ricucito il loro rapporto. «E poi lui è un nero contento del mio successo. Anni fa mi ha passato la palla dicendomi: “Vai. Adesso fammi vedere fin dove arrivi”».
Un potenziale pezzo da classifica che sento nel disco è These Are the Days, con il figlio di Wayne, Kameron, e Bono. Il cantante degli U2 canta di “contare i giorni”, mentre Wayne racconta di essere in un letto d’ospedale, dopo una delle numerose crisi epilettiche che lo affliggono fin da bambino (ma in questi giorni si sente bene).
Nella canzone, Kameron ha una voce stridula da preadolescente. Wayne dice che il pezzo è «del 2013 o 2014». Oggi Kameron, Dwayne III e Neal in un certo senso proseguono l’attività di famiglia. «È una cosa innata, non mi sorprende affatto», dice Wayne a proposito del rap e dei figli. «Io sono un musicista vero, sarebbe uno shock se venissero a dirmi che vogliono fare i ceramisti». Gli piace vederli «alle prime armi» in questo mestiere perché gli ricorda i suoi esordi. «È impossibile non fare paragoni. Mi chiedo: ero anch’io così quando ho iniziato?». Nel 2006, Wayne e Birdman hanno inciso un album collaborativo intitolato Like Father, Like Son. Wayne non esclude di fare un sequel coi figli.
Ama passare del tempo coi suoi quattro figli, andando al bowling e facendo sport, anche se loro sono adolescenti e stanno arrivando all’età in cui non sempre vogliono stare in famiglia. Wayne scherza sul fatto che Neal, il più giovane, spesso si sente «troppo cool» per partecipare alle attività sportive.
«Me ne frego delle reazioni della gente a quel che faccio»
In un pezzo del 2015, Wayne ha dichiarato che il suo stile di vita era Sasaraf, ovvero “skate and smoke and rap and fuck”. In parte è ancora così, solo che ora la paternità ha la precedenza. «Cerco di vegliare suoi miei figli ed essere presente quando serve. Questa cosa viene prima di tutto. Assicurarmi che non finiscano in prigione e che nessuno tocchi la mia principessa», dice riferendosi alla figlia ventiseienne Reginae, attrice e influencer.
Reginae è la figlia maggiore di Wayne e si comporta di conseguenza. Sale sul palco verso la fine del set alla State Farm Arena rimproverando i fratelli per la staticità: «Che cazzo di problema avete? Vostro padre è Lil Wayne!». Passa il resto del concerto a fotografarli e a sistemarne i vestiti e i capelli, proprio come fanno le sorelle maggiori.
Wayne spiega di essersi concentrato sulle collaborazioni, in Tha Carter VI. «Se c’è qualcosa di diverso, in questo album, è che l’ho pensato chiedendomi come sarebbe un mio pezzo con Tizio o Caio». Miley Cyrus fa un cameo e c’è un campionamento (non ancora concesso) di Billie Eilish, ma l’ospite più sorprendente è l’italiano Andrea Bocelli, che canta l’Ave Maria in un brano. Wyclef è volato in Italia per chiedere a Bocelli il permesso di campionare la sua voce. Gli ha raccontato la di quando si è sparato da solo con una pistola a 12 anni. Il tenore si è talmente commosso che ha deciso di cantare apposta per il disco l’Ave Maria. «È uno di quei dischi che sento che lasceranno il segno nel tempo», dice Wyclef.
Al Tree Sound mi fanno ascoltare il pezzo che è piuttosto malinconico. Sul finale, Wayne si alza in piedi con le mani tese davanti a sé e la bocca spalancata, imitando il lungo vocalizzo di Bocelli manco fosse alla Scala. Twist, di fronte a lui, applaude come se fosse seduto in prima fila.
Per Carter VI, Wyclef e Wayne hanno inciso una trentina di brani. «È pericoloso lasciarci in studio per 24 ore», avverte Wyclef, «non sai mai cosa ne uscirà fuori». Wayne aggiunge che «di solito nascono tipo otto pezzi perché lui continua a cambiare quel che faccio con una canzone e facendolo ne crea una completamente nuova». La collaborazione è andata oltre la collaborazione in studio: Wyclef e Wayne hanno creato un gruppo estemporaneo chiamato Gumbo, che il membro dei Fugees paragona agli Gnarls Barkley. Ne fanno parte anche i musicisti di New Orleans Jon Batiste, Ledisi, Trombone Shorty e PJ Morton.
Wyclef e Wayne si sono anche dati alla chitarra. Wayne suona da quasi 20 anni. Non conosce la teoria, suona seguendo il feeling e spesso piazza assoli nei suoi pezzi, come nel recente remix di Tweaker di Gelo. Mentre mi fa vedere una delle sue «troppe» chitarre al Tree Sound, ne indica una mancina alla Jimi Hendrix: Hendrix è il suo chitarrista preferito. «Se non inquadrano lo strumento, non diresti mai che sta suonando una chitarra. È calmissimo. Assomiglia a Jayden Daniels o qualcosa del genere», dice riferendosi al giocatore esordiente dei Washington Commanders.
Dopo un’altra canzone di Carter VI, Wayne dice ai presenti: «Avrebbero potuto avere un po’ di musica», imitando uno che suona la chitarra, «envece si sono beccati del rap». Sta parlando della NFL. «Hanno fatto una cazzata», dice dopo un altro brano.
Nel 2023, Wayne ha detto a Rolling Stone che gli sarebbe piaciuto suonare nell’halftime show del Super Bowl di quest’anno, visto che si sarebbe svolto al Superdome di New Orleans, la sua città natale. Lo scorso settembre, però, la NFL ha annunciato che si sarebbe esibito Kendrick Lamar e Wayne ha pubblicato un video in cui diceva che quell’esclusione l’aveva «distrutto».
Molti si sono chiesti se i vertici della NFL avessero detto a Wayne qualcosa per indurlo a pensare che sarebbe stato scelto. Lui dice che la Lega l’ha effettivamente incoraggiato a farsi vedere di più in pubblico in preparazione dello show, facendogli così credere che fosse cosa fatta. «Per esibirsi, ti dicono un sacco di cose da fare e da non fare, quali sono i culi da leccare e da non leccare», spiega. «Se ci fate caso, ho partecipato a cose da cui mi sono sempre tenuto lontano. Come le feste per soli bianchi di Michael Rubin. Ho fatto cose con Tom Brady. Era tutto finalizzato a quello. Non mi avevate mai visto in quel tipo di locali. Mica sono Drake, non vado in giro a sorridere a tutto. Me ne sto in studio a fumare e a registrare». Dopo l’annuncio della scelta di Lamar, qualcuno alla NFL si è scusato e gli ha detto che non erano loro i responsabili dell’halftime show.
«All’improvviso, stando a loro, sono stati scavalcati. Quindi, dovrò accontentarmi di quel che dicono». Jay-Z, che Wayne ha definito «un caro amico», gestisce la Roc Nation, che supervisiona lo spettacolo nell’intervallo del Super Bowl. L’anno scorso, il produttore dell’halftime show Jesse Collins ha dichiarato che dal 2019 è Jay-Z in persona a scegliere gli artisti. Wayne dice di essere in buoni rapporti col suo ex collaboratore, lodandolo come uno prodigo di consigli a cui basta mandare un messaggio. Né la NFL, né Jay-Z hanno risposto alla nostra richiesta di commentare la vicenda.
Con Lamar in ogni caso è tutto a posto, assicura Wayne. Anzi, ha chiamato il rapper di Los Angeles prima del Super Bowl per chiarirsi e incoraggiarlo. Nell’album GNX dello scorso anno, Lamar rappa: “Ironia della sorte, credo che il mio duro lavoro abbia deluso Lil Wayne”. Il giorno dopo l’uscita, Wayne ha pubblicato un post su X: “Io sono tranquillo e loro continuano a tirarmi in ballo. Non confondiamo gentilezza e debolezza. Lasciate stare questo gigante”. Quelle poche righe hanno scatenato supposizioni sul fatto che Wayne volesse entrare nella faida fra Drake e Lamar dopo l’esclusione dal Super Bowl.
Wayne dice di non ricordare il post: «Forse stavo parlando dei media». Assicura di non aver prestato attenzione alla guerra a colpi di rap tra Lamar e Drake. «Ti faccio un esempio perfetto. Ero sul palco, cantavo una canzone e tutti pensavano che stessi facendo un diss». La canzone era Not Like Us, la hit di Lamar prodotta da DJ Mustard l’anno scorso, un duro attacco a Drake. Wayne affonda la faccia nel bracciolo di una poltrona mentre ride per aver inconsapevolmente rappato su un diss indirizzato a Drake. «Non voglio che il mio amico ce l’abbia con me», dice. «Manco sapevo che fosse di Kendrick».
Per gran parte del mondo del rap, il diss tra Drake e Lamar è stata roba grossa. Wayne non ha fatto una piega. Indica una tv sintonizzata su ESPN e dice che «se qualcosa non passa su questo canale o su FS1, non ne so niente».
Alla fine dell’ascolto dell’album, Wayne si trasforma in maestro di cerimonie e parla di qualsiasi cosa gli passi per la testa. Sul tavolo a cui sono seduto c’è un vassoio rosso con 10 contenitori: in ognuno ci sono quattro o cinque canne. Fino a ora Wayne e Twist ne hanno svuotati un paio. Durante la serata, Wayne si avvicina regolarmente a Lil Twist e i due si scambiano le canne senza dire una parola.
Tra una domanda e l’altra, la conversazione divaga liberamente. Wayne è un talento comico naturale e salta da un argomento all’altro. Parla di fare skate con Lopez e dice la sua sull’ultimo capitolo della saga di Saw, affermando che «il nuovo è bello. Quel tipo [Jigsaw] è ancora vivo. Quando morirà di cancro?». Gli piace guardare Discovery e History, si autoproclama marziano e segue tutte le news sugli extraterrestri diffuse «dal Pentagono e dalla Casa Bianca». Ha una teoria: «Diffondono notizie ogni volta che sta succedendo qualcosa di grosso» e scherza sul fatto che Taylor Swift potrebbe pubblicare un album e «la NASA finalmente direbbe: “Yo, abbiamo appena ammazzato tre alieni”».
Da buon workaholic, a Wayne sfuggono molte cose. Kameron gli fa vedere MrBeast e lui muore dalle risate quando viene a sapere che uno dei primi video virali dello youtuber lo vedeva semplicemente contare fino a 100 mila. Più tardi, in serata, accenno a Watch the Throne di Jay-Z e Kanye West.
«Cos’è?», chiede, guardando un altro servizio di SportsCenter.
«L’album di Kanye e Jay-Z».
«Hanno fatto un disco assieme?».
Il resto dei presenti passa i cinque minuti successivi a riprodurre i pezzi dell’album del 2011 per rinfrescare la memoria a Wayne. Lui sembra sperduto mentre cerca di decifrare i momenti iniziali di Otis e chiede a Twist se ci ha mai fatto un freestyle (Twist scuote la testa: «No»), anche se ricorda Ni**as in Paris e No Church in the Wild.

Maglione: MM6 Maison Margiela. Pantaloni e cappello: The Elder Statesman. Stivaletti: ERL. Gioielli: dell’artista
L’inconsapevolezza di Wayne si manifesta nuovamente a proposito della rapper Sexyy Red, che compare in Sticky insieme a lui, GloRilla e Tyler, the Creator. «Tyler mi ha detto: “So che non sai chi è”. E io: “Certo che non lo so. Red chi? Sexyy cosa?”», scherza. Tyler ha dovuto ricordargli che avevano partecipato insieme a una sfilata di Balenciaga. Ma Sexyy gli è rimasta scolpita nella memoria per via dei versi taglienti: «Mi sono detto: “Oh cazzo, è una figata”».
Sticky è stato uno degli almeno 17 featuring di Wayne nel 2024, tra cui Wassam Baby con Rob49 e Saturday Mornings con Cordae. Sin dal suo splendido verso in Soldier delle Destiny’s Child del 2004, Wayne è diventato il re dei feat, uno pronto a collaborare con chiunque. Non ha mai rifiutato di lavorare con un artista che pagava, anche se il pezzo non gli piaceva. «La vedo come una sfida. Devi essere tu il motivo per cui ti piace. Devi dominare, arrivare a dire: “Quella roba non era da sballo, ma io ho spaccato! Non ascoltate il suo verso, ascoltate il mio”».
Con la stessa rapidità con cui sono stato catapultato nel mondo di Wayne, mi ritrovo a osservarlo da fuori. Dopo la nostra conversazione al Tree Sound, ho ancora delle domande da fargli. Dovrei intervistarlo nuovamente il giorno dopo, ad Atlanta, ma Wayne torna a Los Angeles e fissiamo un follow-up via Zoom per un venerdì di fine gennaio alle 21. La sera dell’appuntamento, Wayne rimanda a quella successiva, stessa ora. Il sabato aspetto su Zoom per più di sei ore, fino alle 3:30 del mattino finché capisco che non si farà mai vivo.
Fissiamo un’altra call su Zoom per il martedì successivo, ma me la cancellano un’ora prima. Uno dei suoi pr si scusa e mi parla di «nuovi sviluppi personali che potrebbero causare ritardi». Dopo tre viaggi da una costa all’altra, la fuga da un incendio e numerose attese snervanti, sento che la storia più importante della mia carriera mi sta sfuggendo per motivi incomprensibili. La copertina di Wayne su Rolling Stone era programmata da mesi, ma in assenza di una seconda intervista la rivista sceglie di rimandarla.
Forse dovrei ringraziare Lorne Michaels per averci fatto incontrare di nuovo. A febbraio, Wayne è a New York per esibirsi nel corso dello speciale per i 50 anni del SNL. Il giorno prima dello show vado ai Penthouse Recording Studios alle 2 del mattino per un’altra intervista notturna, da tenersi dopo che Wayne ha terminato le prove. Parlo con gli addetti alle pr di Wayne e con l’ingegnere-produttore Manny Galvez fino alle ore piccole, in attesa del suo arrivo. Verso le 3:30, il suo team sposta l’incontro al Park Hyatt. Per tre ore rimango seduto nella lussuosa hall, osservando gli ospiti che arrivano dopo una notte di baldoria. A un certo punto, smetto di prepararmi mentalmente per il colloquio e mi concentro esclusivamente sul rimanere sveglio vagando per l’hotel.
Finalmente alle 6:45 Marasciullo mi comunica che Wayne è pronto a parlare. Vado nella sua suite e lo trovo in cucina intento a rollarsi una canna. È a torso nudo, indossa dei pantaloni della tuta neri e, intorno al collo, ha stessa fascia nera che aveva ad Atlanta. Sull’isola della cucina noto un vassoio con una ventina di canne, una confezione di acqua Just e tre sacchetti di caramelle alla frutta color lime. In tutte e tre le session in studio a cui ho partecipato, ha sempre avuto la stessa dotazione: evidentemente i marziani sono abitudinari.
Un pezzo trap strumentale morbido rimbomba dagli altoparlanti. Wayne dice di aver passato la giornata a lavorare su una strofa di un’altra canzone per poi decidere di scrivere su un nuovo beat per distrarsi. La conversazione, durante la quale rimane in piedi, inizia con lui che parla dall’altro lato della suite (nelle sei ore che trascorro con Wayne, non l’ho visto seduto neppure una volta). Man mano che instauriamo un rapporto, si avvicina a me e a Marasciullo, che è seduto alla mia destra. Alla fine della chiacchierata, mi viene vicino e gesticola con le mani per sottolineare i concetti.
Dice di non aver visto l’esibizione di Lamar al Super Bowl. Stava giocando a biliardo con Lil Twist, poi sono usciti a fumare. «Ogni volta che ho buttato l’occhio, non ho visto nulla che mi facesse venire voglia di entrare a vedere cosa succedeva». Giura che non prenderà mai più in considerazione l’idea di partecipare al Super Bowl: «Hanno rovinato tutto. Non voglio più farlo. Era tutto perfetto».
In tv c’è SportsCenter e, mentre parliamo, Wayne ogni tanto commenta i momenti più importanti sorseggiando caffè da una tazza di metallo. Come cofondatore della Young Money APAA Sports, che rappresenta clienti di tutto il mondo sportivo, deve tenersi informato. Nel 2017, ha unito la sua agenzia Young Money con l’APAA di Adie von Gontard ed è piacevolmente sorpreso per i risultati ottenuti. «Non pensavo che sarebbe durata tanto a lungo. Ora che si è consolidata, andrà avanti per sempre. Incredibile». Anche se i fan occasionali pensano che Travis Hunter sia il suo cliente numero uno, lui fa notare che è stato il primo agente NFL delle migliori scelte Quinnen Williams e Deandre Baker, oltre che del futuro MVP del Super Bowl LIX Jalen Hurts: tutti e tre sono stati selezionati nei primi due round dei rispettivi draft NFL.
Gli agenti sportivi sono spesso ritratti come furbacchioni che promettono mari e monti, Wayne preferisce essere realistico coi suoi clienti. «La prima cosa che diciamo loro è che non c’è nessuna garanzia. Non si firma con la Young Money Agency per arrivare al campionato maggiore. Si firma con noi perché, nel caso non ci si riesca, si cade in piedi».
Verso il 2023, Hurts ha lasciato la Young Money. L’amico del rapper Skip Bayless ha ipotizzato che la cosa abbia a che vedere con una foto di Wayne col presidente Trump scattata in Florida nell’ottobre 2020. Wayne dice che la fotografia è stata fatta senza pensarci troppo durante un incontro, a quanto pare, incentrato sulla riforma della giustizia penale e su altre iniziative a favore della comunità nera. Wayne scherza sul fatto che Trump era «un cazzone» che l’ha fatto ridere per tutto il tempo. «Non prende niente sul serio», dice Wayne. «Dice letteralmente stronzate del tipo: “Mi ripetete cosa dobbiamo fare? Merda, me ne sono dimenticato”».
Stando a Wayne, l’ex consigliere di Trump (e genero del presidente) Jared Kushner l’ha accolto prima dell’incontro e gli ha detto che Trump voleva graziarlo per il reato federale di possesso di armi per cui presto avrebbe dovuto affrontare un processo, dopo che durante una perquisizione del dicembre 2019 nel suo jet era stata scoperta una pistola calibro 45 placcata oro, carica. Prima dell’incontro, Wayne non aveva idea di chi fosse Kushner. È poi venuto a sapere che era un suo fan, che ha organizzato il meeting e ha spinto per fargli avere la grazia. «Ha elencato tutti gli esami per cui ha studiato mentre ascoltava la mia musica e che io l’ho aiutato a superare. Ha detto: “Non ho intenzione di vedere il mio eroe andare in galera per questa cosa”». Wayne è stato formalmente accusato il mese dopo. Rischiava fino a 10 anni di reclusione. Quando Trump l’ha graziato, a gennaio 2021, l’accusa è caduta (Kushner non ha risposto a una richiesta di commento).
Wayne ricorda che Trump ha scherzato col suo avvocato Bradford Cohen, un ex concorrente di The Apprentice. Wayne tira fuori la sua migliore voce da bianco odioso mentre imita Trump e Cohen che si dicono «Vaffanculo!» e Trump che gli dice scherzando: «Ti rappresenta questo figlio di puttana? Sei fregato!».
«C’era gente lì dentro che diceva: “Dovreste farvi una foto”. Non l’ha chiesto lui», racconta Wayne. «Poi è arrivato questo tizio e con sé aveva un paio di belle cosucce», continua, forse riferendosi a due donne. «Trump ha detto: “Questi figli di puttana è tutto il giorno che mi chiedono delle cazzo di foto, amico. Possiamo, per favore?”».
«Mi sono detto: “È il presidente, ok”», ricorda sorridendo. «E Trump mi ha detto: “Grazie. Questi stronzi mi hanno tormentato tutto il giorno”».
La foto è stata molto criticata sui social. Ma a Wayne importava? «Cazzo no, non mi interessano le reazioni a niente di quel che faccio, mi conosci», dice con un tono di voce basso e roco. «Mia madre si sarebbe arrabbiata se non avessi sorriso: ecco, quella sarebbe stata l’unica critica che mi avrebbe preoccupato». Quando gli chiedo se si sarebbe unito al suo collega Nelly per esibirsi alla cerimonia d’inaugurazione presidenziale, risponde che «me l’hanno chiesto, ma avevo altro da fare».
Trump ha avuto il sostegno di vari rapper durante la scorsa campagna elettorale, ma Wayne dice che probabilmente avrebbe rifiutato se glielo avessero chiesto. «Gli avrei detto: “Probabilmente non ti conviene”, perché non ne so niente», ammette, facendo spallucce. «So solo dirti chi ha vinto l’ultima partita… capisci cosa intendo?». Quando gli chiedo che ne pensa dell’idea che è passata, dopo quella foto, che lui sia un sostenitore di Trump, dice: «Non me ne frega niente. Non me ne frega un cazzo di queste cose. Scrivi solo che ho il cazzo grosso».
Nel 2006 Wayne ha pubblicato l’inno di protesta Georgia… Bush, in cui attaccava la reazione fiacca dell’allora presidente George Bush al disastro di Katrina. La sua empatia è palpabile in versi come “Conosco persone che sono morte in quelle scuole / Ora cosa deve fare chi è sopravvissuto?”. Ha spiegato che la rabbia scaturiva da un affronto specifico alla sua città natale, non da una presa di posizione politica. Alla fine di una controversa intervista del 2016 rilasciata ad ABC, in cui ha detto di non sentirsi legato al movimento Black Lives Matter, ha dichiarato: «Non sono un politico del…». Il resto è stato censurato.
Wayne è altrettanto brusco quando gli domando di un articolo recente di Business Insider su come avrebbe speso i fondi raccolti dalla Shuttered Venue Operators Grant, organizzazione che aiuta i locali, gli artisti e le attività artistiche in difficoltà che hanno avuto perdite per via dei lockdown per il Covid. Secondo l’articolo, Wayne avrebbe speso i soldi in aerei privati, abiti di lusso e hotel per varie donne. Wayne sembra sinceramente confuso quando glielo dico. «Non so cosa significhi», dice. Marasciullo interviene prontamente: «Lui non ha niente a che fare con questa roba. Non ne sa nulla. Tutto è stato controllato ed è a posto. È una storia chiusa. Quella è solo gente che pesca a strascico. Se non sei famoso, non parlano di te».
Katherine Long, una delle reporter che ha scritto l’articolo, ha condiviso uno screenshot che mostra che, quando ha mandato un messaggio a Wayne chiedendogli se avesse visto la sua e-mail, lui le ha risposto: «Hai visto il mio cazzo? Sono sicuro che è molto più lungo e migliore dell’e-mail e a te piacciono lunghi, vero signora Long?». Lui non nega di aver mandato il messaggio. Anzi, rincara la dose. «Qualsiasi donna che mi mandi un messaggio probabilmente riceverà in risposta un commento di natura sessuale. È il mio telefono personale, quindi se hai anche solo il mio numero, significa che hai esagerato nel darti da fare e se mi mandi un messaggio e io ti rispondo con qualcosa che non ti piace, allora succhiami il cazzo», dice con uno sguardo gelido. «E vedi di succhiarlo bene». Di certo, nel bene e nel male, Wayne è bravo a lasciarti senza parole. Mentre mi preparo ad andarmene, mi dà una stretta di mano decisa e si scusa per il ritardo. Non so se si riferisca a questa sera o all’intero percorso dell’intervista durato mesi, ma lo apprezzo.
Lil Wayne sa essere esilarante, simpatico e perspicace quando vuole. Quando gli va, può prendere il microfono ed essere all’altezza di qualsiasi rapper al mondo. Ma può anche essere brutalmente rozzo. L’ex manager di Wayne, Cortez Bryant, una volta ha ammesso che, dopo essersi allontanato dall’ala protettrice di Birdman, Wayne sentiva di non dover rendere conto a nessuno. E a parte il breve periodo di carcere e la controversia legale su Carter V, da allora ha fatto più o meno tutto ciò che ha voluto, con conseguenze minime. Pochi di noi rifiuterebbero questo tipo di libertà, ma vale la pena chiedersi quanti passi falsi faremmo dovendola gestire.
L’hip hop è il prodotto culturale americano d’esportazione più importante e quella di Wayne potrebbe essere la sua storia più grande. L’hip hop ha spalancato le braccia a un ragazzo di Uptown New Orleans e l’ha protetto mentre coltivava la sua arte, giorno dopo giorno. La sua voce, la sua arguzia, la sua penna e la sua etica del lavoro l’hanno reso degno dell’opportunità che gli è stata concessa. Ha sfidato le regole e fissato uno standard così elevato che il Presidente Obama ha detto ai partecipanti di un’assemblea cittadina del 2008 in Georgia: «Forse siete il prossimo Lil Wayne, ma probabilmente no». Lo status gli permette di emozionarci e di diventare la colonna sonora dei nostri momenti più belli. Ma lo ha anche messo al riparo dalla gravità della situazione in cui versa la sua gente e dalla consapevolezza di come possono essere percepiti i suoi commenti. E tutto questo in un’epoca in cui ci interroghiamo su cosa significhi essere una celebrità.
Quando ho lasciato Wayne ad Atlanta, stava fumando vicino alla console dello studio. Si è girato e ha chiesto a Marasciullo: «Siamo a posto così?». Gli ho dato la mano e mentre uscivamo dal Tree Sound ha augurato la buona notte a me e alla sua pr Trixie. Erano le 8 del mattino, pieno giorno. Chissà Wayne che ora pensava fosse. Probabilmente l’ora di tornare al lavoro.
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Photo: Theo Wenner
Producer: Patricia Bilotti di PBNY Productions
Styling: Marisa Flores
Set Design: Spencer Vrooman
Production Manager: Stefanie Bockenstette
Lighting Director: Mitch Stafford
Digital Technician: Craig Edsinger
Photographic assistance: Bailey Beckstead
4×5 Camera operator: Trever Guns
Video Director of Photography: Raf Fellner
Video Editor: Hannah Weis
Production Assistance: Daniel Jacobson
Set Design Assistance: Christopher Duff
Stylist Assistant: Gina Sinotte
Location: Smashbox Studios