«Guarda qua», mi dice Neffa indicandosi il volto che sto osservando dall’altra parte dello schermo del computer, «potevo essere 20 anni più giovane di così. Questa roba mi ha rovinato. Mi sono fatto 15 anni di cancro alla felicità per sta roba».
La roba di cui parla Giovanni Pellino non sono le droghe, bensì lo strappo profondo tra l’artista e il suo pubblico arrivato a inizio millennio quando da pioniere del rap italiano Neffa decise di abbandonare il genere e scegliere una nuova vita artistica. Per molti fu un tradimento imperdonabile, ma per Neffa cambiare, mutare, trasformarsi è sempre stato parte della sua persona.
Nato artisticamente a fine anni ’80 come batterista dei Negazione, storico gruppo punk hardcore in cui militava con il nome di Jeff Pellino, Giovanni diventa presto Neffa (il nome lo deve a un calciatore paraguaiano della Cremonese), schierandosi prima con la Isola Posse All Stars, una delle prime posse hip hop nata attorno al centro sociale occupato Isola nel Kantiere a Bologna e dalle cui polveri formerà i Sangue Misto, per poi intraprendere la carriera rap solista e abbandonare infine la scena per il canto, arrivando a destreggiarsi con agilità tra pop, r&b e canzone napoletana.
Ci sono voluti un quarto di secolo e sette dischi a Neffa per fare pace con il rap. Un’infinità, per molti una carriera intera. Ma questo è il lasso di tempo che divide il 1999, l’anno dell’uscita dell’EP Chicopisco, la sua ultima (ai tempi molto criticata, oggi invece riscoperta) produzione rap, dall’uscita del nuovo album Canerandagio, il primo dei due volumi (in uscita venerdì) che segnano il ritorno del guaglione sulla traccia.

Nonostante questo la scottatura sembra ancora fresca e Neffa quando parla non cede mai alla tentazione di definirsi rapper, ma sempre cantante («cantare è difficile, rappare è facile», sottolinea), tenendoci chiaramente a precisare che «non appartengo alla scena hip hop, ho solo fatto un disco di genere». Il suo rapporto con il pubblico – che l’ha amato, odiato, rispettato, disprezzato («sono stato tra i primi a essere insultato su YouTube», ricorda) – continua a essere turbolento e questo ritorno al rap potrebbe riaccendere la fiamma della polemica per chi si aspetta un disco come SxM o come I messaggeri della dopa o 107 Elementi. Canerandagio, a differenza di quanto si è sentito in Littlefunkyintro («è l’unico brano che ha quell’arroganza rap post-Sangue Misto in cui dico che sono più bravo»), è tutt’altro: è infatti un album che «non ha tematiche hip hop ma che usa il rap come narrazione». E la scelta di alcuni featuring (come quello di Myss Keta nella traccia con Fabri Fibra) hanno già alzato le prime critiche da puristi.
Lui che oggi si sente come un «ronin che cammina solo per le pianure e le colline» rimane fedele alla linea: «Ho smesso di dare alla gente quello che voleva da quando ho smesso di fare il cameriere». E ancora: «Non faccio dischi per il pubblico».
In questa lunga intervista, come di sua natura, non si è fatto scrupoli, in particolare sul suo passato. Sui Sangue Misto dice «noi eravamo l’avanguardia dell’avanguardia del nulla. Non c’era nessuno per noi. È un culto venuto dopo costruito sul nulla» e a chi ne chiede il ritorno attacca: «cosa torno a fare i Sangue Misto, scemo? Dov’eri quando c’eravamo?». Sul rapporto con il pubblico è ancora più deciso: «Non vengo a fare il burattino che fa quello che volete. Io porto la mia verità più profonda e mi lacera il fatto che nessuno questo l’abbia mai colto». E sul ruolo dell’artista: «La coerenza e la responsabilità me la aspetto dai politici, non dai cantanti». Perché lui, come ci spiega candidamente, non è mai voluto essere un purista, ma anzi voleva solamente «diventare mainstream, inteso come essere conosciuto da tutti».
Dopo aver scritto un altro pezzetto di storia a Sanremo, portando sul palco Aspettando il sole con Shablo, Guè, Tormento e Joshua (in un mash up con Amor de mi vida dei suoi ex nemici Sottotono), il guaglione è tornato a fare il rap a 57 anni. Questa volta per davvero. Quest’intervista esplora così la personalità e la psicologia di uno degli artisti più complessi del panorama musicale italiano. Pioniere e distruttore, sempre in nome della sua verità.
Il punto di partenza sono gli esordi, la scena rap, i centri sociali occupati. Non a caso abbiamo voluto scattare Neffa al Leoncavallo di Milano, dove in passato si era esibito con i Negazione e con i Sangue Misto, che proprio in questi mesi sta lottando contro un nuovo sfratto ora previsto per il prossimo 15 maggio. Rolling Stone appoggia totalmente la battaglia del Leoncavallo in vista della manifestazione in difesa del centro sociale prevista per quel giorno.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia. Total look: C.P. Company
Vorrei partire dalla location in cui abbiamo scattato le foto, il Leoncavallo di Milano. Un luogo simbolico della controcultura a Milano, un’occupazione lunga 50 anni che in questo periodo è nuovamente a rischio sfratto. Tu al Leo ci hai suonato coi Negazione e i Sangue Misto, e parte di un vostro live è immortalato nella compilation del ’92 Notte di rime dirette. Che ne pensi della situazione odierna? E che ricordi hai del Leo?
I miei ricordi sono naturalmente legati a quelli del primo Leoncavallo in Via Leoncavallo. Ogni volta che passo in quelle zone e rivedo quel palazzo per me è come vedere una lapide, come se andassi al cimitero a trovare una persona che non c’è più. È allucinante che non si riconoscano certi posti come caposaldi della cultura solo perché non sono la stessa cultura che ci hanno insegnato da piccoli. Trovo pazzesco che in una società così moderna non si capisca il bisogno di avere una diversità. Ma in fondo questa è l’epoca dell’appiattimento.
Nell’ultimo periodo, con la Design Week, c’è stata anche tutta la polemica di Macao, altro momento storico – oggi concluso – delle occupazioni a Milano, sull’utilizzo del loro precedente spazio come hub per ristoranti e bar a prezzi importanti.
Milano è una città che ha tanta voglia di emettere scontrino. Una città che non ha (anche) dei segnali forti provenienti dalla controcultura, dall’arte alternativa e dall’uso alternativo degli spazi, è una città che alla lunga non può proporre un modello vincente. Manca proprio la lucidità di capire. Dopo tutti sti anni queste esperienze non hanno insegnato niente?
Quarant’anni di occupazioni…
Io ho visto sgomberare tanti posti e vedo tante lapidi in giro. E quelli non sono spazi che poi puoi riempire con una piadineria.
La tua storia è legata a un altro centro sociale occupato, l’Isola nel Kantiere di Bologna. Da lì è nata la tua militanza con l’Isola Posse All Stars. Che esperienza è stata quella dell’Isola?
L’Isola nel Kantiere proponeva un modello differente che ai tempi veniva criticato da realtà più staliniste che ci accusavano di far solo festa. Ma per me quella era politica. Io non ho mai sopportato le canzoni con gli slogan dentro, gli slogan li conosciamo già. Voglio che le canzoni mi mostrino una via possibile e l’Isola era questo, una via possibile di convivenza tra gente media non particolarmente politicizzata e quelli che chiameremmo tabbozzi. L’Isola era aperta, era un posto per fare concerti, per fare arte.
Bologna inoltre in quegli anni era particolarmente viva sul tema delle occupazioni.
Dopo l’Isola infatti abbiamo avuto il Bestial Market, il Livello 57, tutti posti che sono stati laboratori di modelli sociali alternativi e propositivi. Queste esperienze sono parte di me, ancora oggi. Mi hanno fatto diventare il regista della mia stessa creatività, anche se questo mi ha reso un po’ difficile poi fidarmi degli operatori dell’industria musicale.
Immagino che per te che arrivavi dalle occupazioni non sia stato facile relazionarti con una certa cecità dell’industria musicale italiana.
Sono uno abituato all’autogestione, e questo qualche problema me l’ha creato. Non sono uno disposto a dire sempre sì. Quando fai una carriera coi no ti mantieni sempre un po’ equidistante da certi punti di arrivo.
Cioè?
Odio parlare di questo… che è quello che io chiamo l’altro binario. Io invece mi sono sempre e solo preoccupato del binario dove corrono le idee. Poi certo, quando si trattava di portare il pane al mercato non mi sono mai mosso bene come quando quel pane lo impastavo alle 5 del mattino. Sono rimasto sempre un po’ lì, a metà.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia. Total look: C.P. Company
Cosa pensi ti abbia lasciato l’esperienza del centro sociale?
Prima con la scena punk hardcore e poi con la prima scena hip hop l’esperienza del centro sociale per noi è stata proprio formativa. Ma dal punto di vista personale quel periodo si è chiuso quando abbiamo formato i Sangue Misto.
Eppure i Sangue Misto sono sempre stati visti come un gruppo molto politicizzato.
Per me SxM è un disco con tematiche punk/hardcore sulle sonorità del rap. Già quando lo registravamo eravamo diventati gente che preferiva stare in una stanza a far musica. Ti racconto questo. Un anno dopo l’uscita del disco quelli dei centri sociali sono venuti a dirci «i Sangue Misto spaccano» e noi rispondevamo «i Sangue Misto si sono già sciolti». Perché i Sangue Misto hanno vissuto da soli. Ora hanno un’eredità, è vero, ma quando mi dicono «torna a fare i sangue Misto» rispondo «cosa torno a fare i Sangue Misto, scemo? Dov’eri quando c’eravamo?». Perché quando facevamo i Sangue Misto non ci capivano nemmeno i nostri amici. Chiunque ti dirà «io i Sangue Misto li ho capiti subito, spaccavano» sta mentendo.
I Sangue Misto sono una parentesi particolare della storia musicale italiana. Sono diventati presto un culto, ma c’è ancora una certa ambiguità sulle tempistiche e le fasi di un progetto che, alla fine, non è durato che una manciata di anni.
Il nucleo iniziale dei Sangue Misto eravamo io e Deda. A noi si è aggiunto DJ Gruff, che in seguito è uscito. E siamo rimasti di nuovo io e Deda. Deda ha poi iniziato a allontanarsi dalle rime e a produrre di più, e infatti ha prodotto molti brani de I messaggeri della dopa (1996, ndr), su cui non rappa. Deda è poi tornato a rappare prima in 107 Elementi (1998, ndr) e dopo con il progetto Melma & Merda con Kaos e Sean (1999, ndr). Mentre la mia strada da solo possiamo dire che inizia con l’exploit di Aspettando il sole.
Anche sul finale dei Sangue Misto ci sono differenti opinioni.
No, qui posso dirlo chiaramente: i Sangue Misto si sono sciolti a Lizzanello, vicino a Lecce, a casa di DJ Gruff. Io e Deda eravamo partiti da Bologna con una macchina piena e l’idea di fare il secondo disco dei Sangue Misto. Gruff ci apostrofò subito dicendo che voleva rappare di più e fare meno il dj e io dissi che per me in due eravamo già in tanti a rappare. Sentivo che avevo più cose da dire e in due sembravamo troppi in quel momento. Semplicemente non ci siamo trovati con questa sua volontà di cambiare il suo ruolo all’interno del trio – nonostante Gruff sia un rapper molto bravo. La fine dei Sangue Misto la possiamo far risalire lì, al momento in cui è abortita l’idea di fare un secondo disco. O almeno dei Sangue Misto come trio. Sangue Misto come duo ha ancora fatto Paura, per la compila del Livello 57 (1994, ndr) e Nella luce delle 6 per la colonna sonora del film Torino Boys (1997, ndr), brano poi reinserito come remix in 107 Elementi. C’è confusione su quel periodo perché nessuno si ricorda niente e nessuno ha fatto foto.
A te dà fastidio che si parli così tanto di quel tuo passato? Ci sono stati dei momenti in cui sembrava lo volessi ripudiare.
Io ho mille canzoni mai uscite e una dice “mi viene il torcicollo per guardare il passato”. Ma voglio dirti ancora una cosa. Abbiamo fatto un anno di concerti davanti a 20 persone che non capivano cosa avevano davanti. Eravamo più avanti dell’avanti dell’avanti. Basta, non ho altro da dire sui Sangue Misto.
Ok, basta Sangue Misto…
Anzi, devo dirti quest’ultima cosa.
Vai.
Io ho sempre voluto essere mainstream, inteso come essere conosciuto da tutti. Io i Sangue Misto non li facevo per essere cagato da 20 persone. Quando uscì La porra il disco fece 4000 copie. Ohi Maria degli Articolo 31 ne fece 600 mila, parlando della stessa cosa. Quindi quando la gente mi dice «che figata i Sangue Misto» la mia risposta è sempre «sì, ma dove eravate ai tempi?». Noi eravamo l’avanguardia dell’avanguardia del nulla. Non c’era nessuno per noi. Resta un bellissimo ricordo, soprattutto i momenti in studio con Deda, ma questo culto venuto dopo è costruito sul nulla.

Il rap di quel periodo è particolarmente legato a una evidente nostalgia. Ma penso sia normale visto che quando il genere è nato ha segnato la formazione di tanti ragazzi. E la nostalgia gioca proprio su ciò che ci ha segnato da ragazzi. Ora torni con un disco rap e sento già i commenti: «ah ma non è come SxM, non è come I messaggeri, non è nemmeno come 107 Elementi». Non ti fa impazzire tutto questo?
A me lacera che in tanti anni non sia ancora stata compresa una cosa: io ho sempre dato la mia profonda verità e – forse perché arrivavo proprio da un modello politico – ho scelto di non venderla mai questa verità, di non mettergli mai il cartellino del prezzo o di nasconderla. Io mi sono detto: piuttosto deludo migliaia di persone, ma non vengo a fare il burattino che fa quello che volete. Io porto la mia verità più profonda e mi lacera il fatto che nessuno questo l’abbia mai colto. Guarda qua (si indica la faccia, ndr), potevo essere 20 anni più giovane di così. Questa roba mi ha rovinato tanti anni della mia vita. Per ogni album che ho fatto mi son messo come per ricevere un bacio e ho preso degli schiaffi perché o non venivo guardato o mi veniva detto «non è rap». Ma dire «non è rap» non può essere un canone di giudizio.
Lacerare è un termine molto forte. Ti ha così ferito questa incomprensione con il pubblico?
Mi sono fatto 15 anni di cancro alla felicità per sta roba. Proprio nel momento in cui ho detto no, io non darò mai alla gente qualcosa di finto, voglio dare la vera verità, la gente ha pensato che quello che stessi facendo fosse finto. Vengo giudicato sempre su un punto di partenza falso, ossia che io sto facendo qualcosa di finto perché non sto facendo il rap. Ma questa è una bugia. E se sono ancora qua e perché c’è qualcosa di potente tra me e me che non si risolverà mai, e la musica c’entra. Questa musica è talmente potente che sono disposto a subirne le eventuali ripercussioni. Io non faccio i dischi per gli altri.
E come prendi le critiche oggi?
Non mi capivano gli zii di quelli che non mi capiscono adesso, figuriamo i nipoti. Questo è il mio primo disco veramente social, sto ancora processando il tutto. Io comunque sono stato tra i primi a venire davvero offeso su YouTube. E questa cosa è andata avanti dal 2001 per dieci anni. Poi a furia di mettere fuori canzoni su canzoni senza mai dire niente, la gente ha cominciato ad amarmi per la musica che faccio. La mia forma di dialogo è la musica. Ma so io le pietre che mi sono portato nello zaino per tanto tempo pur di rimanere vero e vivo.
L’hai definito il tuo primo disco social, quindi voglio chiederti che idea hai coi social oggi visto quanto mi hai appena raccontato.
C’è qualcosa di potentemente democratico nella società attuale dei social, ma anche qualche cosa di profondamente grave, totalitarista. Se un ragazzino oggi vuole pubblicare musica impegnata viene fatto a pezzi. Funziona così in quel territorio. E se il ragazzino viene criticato, e riceve 300 commenti di cui 290 di critiche, la scelta successiva che farà sarà safe. Questo fa sì che non si sia più liberi artisticamente perché il non consenso può generare molta paura. La cosa assurda è che ora puoi essere criticato prima ancora che la gente senta i pezzi.
Immagino tu ti riferisca ai commenti all’annuncio dei vari featuring di Canerandagio.
L’altro giorno uno mi ha scritto: «Mi dici se il 5 novembre al Forum fai I messaggeri pt. 1?». Volevo dirgli: ma Phase 2 è morto, come faccio a fare quel brano? A volte la gente non si rende conto di certe richieste. Prima di fare il cantante ho fatto il cameriere. E quando 15 anni fa mi hanno iniziato a dire «fai questo, fai quello» ho sempre risposto così: ho smesso di dare alla gente quello che voleva da quando ho smesso di fare il cameriere.
Ok, ma allora come mai hai deciso di fare questo disco, di tornare al rap?
Da 2015 ho stabilito un certo modus operandi. Ho deciso che non avevo necessità di fare un disco perché andava fatto. Ho capito che la mia necessità era fare dei dischi che avevano in sé una grande propulsione. Uso il termine propulsione perché quando parlo di questo ho proprio l’immagine di un missile nel fango. E non partendo dalla sua bella rampa di lancio, ma dal fango, deve avere una propulsione tale da vincere una resistenza – che è tutta mia – fortissima. Rispetto a AmarAmmore, che è arrivato in modo ancora più inaspettato perché non avevo mai fatto canzoni in napoletano, questa volta è stato più facile individuare cosa sarei andato a fare perché era qualcosa che conoscevo.
È davvero il ritorno del guaglione sulla traccia. Ma come è stato tornare a rappare?
Tecnicamente ho sempre saputo che il rap mi veniva facile. Lo considero un genere facile: cantare è difficile, rappare è facile. Però quando nel 2000 ho smesso di fare il rap ho dovuto dare un taglio netto con il genere perché nella sua filosofia l’hip hop è una madre che non puoi sfruttare. E non avrei mai voluto che amici, e soprattutto nemici, potessero pensare che subito dopo sarei tornato al rap per sfruttarlo. Così ho preso le distanze.

Foto: Gabriele Micalizzi, Collettivo Cesura per Rolling Stone Italia. Total look: C.P. Company
Visto quanto ci siamo detti finora della tua storia: cosa è stato il rap per te?
Il rap che ho fatto nei ’90 è stato l’ultimo genere musicale che ho fatto anche per appartenenza personale. Nell’85 ho conosciuto degli occupanti delle case a Bologna e frequentandoli mi sono innamorato dell’hardcore. Nel rap, subito dopo, ho trovato una musica di formazione.
E cosa ti ha portato lontano dal rap, cosa ti ha fatto decidere invece che volevi solo più cantare?
Un giorno una voce ancestrale mi ha detto che il bambino che avevo dentro era oramai diventato un uomo, un adulto, e voleva scrivere le canzoni che sognava di scrivere da bambino. E così ho iniziato a fare musica, non per qualche scena o collettivo, ma per necessità umana, personale.
Però non ci credo che in questi 25 anni non hai scritto pezzi rap.
Ne ho sempre scritti, ma più come divertissement senza un testo serio. Facevo un rap che cazzeggiava. Quando però poi ho scritto Tutte le stelle, il brano con Ele A, mi sono detto «porca miseria, ho appena scavato dentro di me e tirato fuori qualcosa di serio usando la forma del rap». E qui sono scattati gli allarmi; prima di quel momento non sarei riuscito a scrivere un pezzo rap serio. È un brano che non ha tematiche hip hop, ma che usa il rap come narrazione. E io volevo fare un disco rap che dicesse qualcosa di introspettivo.
Che tu voglia o no, che tu ti sia allontanato o meno, rimani uno dei padri della scena italiana. Ma quando hai deciso di tornare al rap ti sei confrontato con qualcuno dei tuoi compagni dell’epoca?
Ne ho parlato con Dee Mo (suo compagno di collettivo nell’Isola Posse All Stars, ndr), ma mi ha detto che avrebbe voluto sentire Tutte le stelle solamente dopo che era stato pubblicato. Invece quando ho scritto Littlefunkyintro gliel’ho voluta far sentire perché aveva la stessa arroganza rap post-Sangue Misto, quella in cui, in pratica, rappi dicendo di essere meglio dell’altro. È l’unico brano di quella tipologia in questo disco, ma è comunque molto vero, e così si è guadagnato la sua cittadinanza nell’album.
E che ha detto Dee Mo?
A Dee Mo è piaciuto parecchio, mi ha detto che non c’era una rima fuori posto, che spaccava. Avevo paura che il mio rap e la mia attitudine fossero datati, invece in quel momento ho capito che ero ok.
Cosa è cambiato maggiormente nel tuo modo di fare rap?
Ora non sono più uno che sta in un collettivo, in una band, sono una persona che sta da sola, un osservatore che cammina per il mondo. Quindi ora parlo di sensazioni personali, non più di una scena. Se prima eravamo tutti sotto lo stesso fascio di luce proveniente da un’astronave, ora la situazione è più frastagliata e siamo dei ronin che camminano per le pianure e le colline raccontando la propria esperienza di passaggio.
Hai sempre definito il rap come un genere adolescenziale. E per molto tempo penso che tutti siamo stati d’accordo su questo. Essendo però il rap un genere giovane, solo ora ci troviamo ad ascoltare dei rapper adulti, maturi. Penso a Marracash che di anni ne ha 45, o Guè che ne 44. Tu torni a rappare a 57 anni.
All’epoca non esisteva un pubblico. O meglio, era un pubblico di ragazzi. Ora il rap lo ascolta il giornalista, il medico, l’autista. Prima c’era un’attitudine condivisa tra pubblico e artisti, chi ascoltava il rap era la gente che andava alle jam, ora ai concerti viene la gente normale che vuole flippare un attimo con il genere. Il rap è diventato la normalità. È cambiato il linguaggio, la fruizione. E ci tengo a dire: io non appartengo alla scena hip hop, ho solo fatto un disco di genere.

Foto: Gabriele Micalizzi, Collettivo Cesura per Rolling Stone Italia. Total look: C.P. Company
Canerandagio è zeppo di featuring, un po’ come I messaggeri e 107 Elementi. Ce ne sono molti, e molto differenti, ma volevo soffermarmi su Hype, il brano con Fabri Fibra e Myss Keta. Un motivo è perché è un brano simbolico per la scelta di due artisti così differenti, l’altro è perché il beat è un Easter egg che spoileriamo oggi al pubblico: è costruito su Scattano le indagini di Fabri Fibra, tratto da Turbe giovanili del 2002, il primo storico album solista di Fibra scritto sulle delle tue basi che non avevi usato perché avevi deciso di mollare il rap. È uno strano cerchio che si chiude, direi. Come è nata l’idea?
Me l’ha messa in testa un’amica, che è anche la mia discografica, e mi è cresciuta dentro. E a Fabri è piaciuta subito. È un pezzo su come l’apparenza sia diventata l’essenza. Oramai non c’è più spesso l’opportunità di approfondire: l’apparenza ci basta.
Però devi spiegarci perché Myss Keta? Cosa c’entra in questa storia?
È stato fondamentale un mio passaggio a Milano. Ho visto la sua produttività, la sua violenza, una città dove tutto è molto figo ma dove se respiri muori. E allora ho scritto quel ritornello. E ho pensato: se devo scrivere un ritornello su delle forme di nulla che diventano reali non devo chiamare un francescano che fa la predica e ci dice che l’hype è qualcosa di brutto, ma Myss Keta, un progetto che è nato come critica a tutto questo. Lei è un personaggio fantastico. Questo comunque intendevo quando dicevo che non mi piacciono le scelte safe. Andy Warhol avrebbe amato questo concetto e io voglio l’arte come Andy Warhol, non come i frati francescani.
E dal pubblico, immagino, apriti cielo.
La coerenza e la responsabilità me la aspetto dai politici, non dai cantanti. Se sei un parlamentare con delle condanne nessuno ti dice niente, se sei un cantante che invita un featuring scomodo sei una sorta di meretrice. Questa cosa non l’ho ancora capita. Se qualcuno si prende male perché invito Myss Keta deve ricordarsi che il commerciale sono i banchi del supermercato, la musica è un’altra cosa.
Il tuo ritorno al rap è stato anticipato lo scorso anno dalla strofa su FoglieMorte con Fibra e dalla serata cover di questo Sanremo dove ti sei unito a Shablo, Tormento, Guè e Joshua per un mash up di Amor de mi vida dei Sottotono e della tua Aspettando il sole. A mio avviso è stato un momento storico che entrerà di diritto nella storia del rap. È stata la consacrazione del rap come genere in Italia, un Paese dove per tanto tempo è stato discriminato. Tu come hai vissuto quell’esperienza?
Sul momento non avevo colto l’importanza di quella performance, sarò sincero. L’ho capita dopo che molti mi hanno detto qualcosa di simile a quello che stai dicendo tu. Non seguo così tanto Sanremo e non avevo pensato che alla fine il rap come genere non era mai davvero arrivato. Anche se qui nello specifico parliamo di due brani rap con un ritornello radiofonico.
E con un successo radiofonico.
Sì, per me ai tempi era una sfida quella di creare un pezzo rap che avesse anche un ritornello che potesse girare in radio. Quando Frankie hi-ngr e Riccardo Sinigallia hanno scritto Quelli che benpensano ci volevano andare in radio. E anche io quando ho scritto Aspettando il sole volevo andare in radio.
Aggiungiamo anche che vedere te e Tormento assieme sul palco, dopo il beef negli anni ’90, è stata una riconciliazione per qualcosa che forse era ancora ferita aperta nel rap italiano.
Se a quest’età fossimo ancora lì a rinfacciarci delle frasi di quei tempi saremmo degli scemi. È cambiato il mondo. Pensa anche al beef con J-Ax; con gli Articolo avevamo dissapori ben più profondi. Ma è come quando due generali di due fazioni differenti capiscono che solo l’altro è l’unico che ti può capire veramente, che ti conosce, perché in comune c’è lo stesso campo di battaglia. Certe estremizzazioni sono molte italiane, ma il rap è un po’ tricky perché è un genere di rappresentanza: non rappresenti solo la musica, ma è come se rappresentassi una stazione radio con delle linee editoriali. Ecco, a volte noi litigavamo sulle linee editoriali.

Foto: Gabriele Micalizzi per Rolling Stone Italia. Total look: C.P. Company
Parliamo invece del concerto che terrai il 5 novembre al Forum di Milano, dal titolo Universo Neffa.
Il nuovo album sarà al centro di questo concerto…
A proposito, ma la parte 2? Arriverà prima di Universo Neffa?
Da qui a novembre ci sarà parecchia ciccetta, mettiamola giù così.
Scusami per l’interruzione, torniamo al concerto. Ci sarà quindi molto rap, mi pare di capire.
Guarda, ti dico la verità, non ci ho ancora pensato tutto. Ci sarà una percentuale di musica rap, sicuramente superiore al 50%, e una parte di canzoni di questi 20 anni di musica suonata e scritta sulle note e non sulle basi.
Un’ultima curiosità su Canerandagio prima di salutarci. Volevo farti una domanda tecnica. Il mix delle voci è molto in faccia, veramente fuori dal beat.
In FoglieMorte pensi fosse meno?
Sì, qui è decisamente più avanti. E volevo chiederti il perché di questa scelta stilistica.
Ho voluto fare un album con basi molto minimali e sonorità piuttosto sporche. Non ho fatto le basi come vanno ora, super hi-fi, super compresse in cui è difficile poi trovare lo spazio per la voce. Onestamente ho solo pensato che la cosa interessante di questo disco era il rap…
E volevi che tutti ti sentissero rappare per bene.
Sì, ma non solo me, anche gli altri featuring! Però sì, volevo sbattere il rap in faccia a chi ascolta.
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Photographer: Gabriele Micalizzi, Collettivo Cesura
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Direction: Leftloft
Fashion Editor: Francesca Piovano
Talent Stylist: Floriana Serani
Stylist Assistant: Eugenia Casciu
Video Operator & Editor: Omar Cristalli
Photographer Assistans: Giacomo Spedicato, Agnese Barbarani, Anna Perazzini, Sergio Attanasio
Talent MUA: Eleonora Volpi using Make Up For Ever
Per la location si ringrazia lo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo e il collettivo.