Negli uffici di Friar Park, la residenza dove ha vissuto col marito George, Olivia Harrison prende una lettera che ha trovato di recente. L’ha invitata George alla madre nel 1968, nei giorni in cui i Beatles erano dal Maharishi in India. «Sono diventato famoso e ho accumulato tanta ricchezza materiale», scriveva, «e questo m’ha fatto capire che c’è di più nella vita… Ora so che raggiungerò la vetta autentica, che è la piena realizzazione di sé».
Per Olivia Harrison, che col figlio Dhani gestisce il patrimonio del marito scomparso nel 2001, l’aggettivo “materiale” ha un significato particolare in questo momento. Dopo aver pubblicato l’edizione deluxe di All Things Must Pass, i due stanno infatti preparando una versione simile per l’album successivo, ovvero Living in the Material World. Il 15 novembre uscirà in vari formati un’edizione per il 50esimo anniversario che includerà una versione remixata del disco originale, 12 tra outtake e alternate take, e poi chicche da nerd come Recording Notes, un libriccino che racconta la realizzazione del disco giorno per giorno. Si scopre così che alle prime session partecipò anche Phil Spector, ma «problemi personali e stanchezza», oltre a grane con l’ufficio immigrazione, lo spinsero ad abbandonare il progetto.
Uno dei pezzi forti della riedizione, oltre ai demo acustici di Give Me Love (Give Me Peace on Earth) e Don’t Let Me Wait Too Long, è un demo mai sentito prima di Sunshine Life for Me (Sail Away Raymond), canzone che sarebbe poi finita in Ringo di Ringo Starr suonata da The Band. C’è la Band anche in questa versione. «L’hanno incisa per Ringo», racconta Olivia Harrison, «con George che ha cantato la traccia vocale mentre faceva vedere ai musicisti come suonarla. Adorava suonare con loro».
Living in the Material World è uscito nel 1973 – non cade quindi esattamente il 50esimo anniversario, ma come dice Olivia «che fretta c’è?» – e viene dopo il triplo All Things Must Pass, che aveva dimostrato il valore di Harrison dopo la fine dei Beatles. Un’eredità pesante, ma il disco non ha deluso le aspettative: Give Me Love (Give Me Peace on Earth) ha scalzato My Love di Paul McCartney dal primo posto in classifica esattamente come l’LP ha rimpiazzato Red Rose Speedway di Macca nella charts degli album, dove Material World è rimasto in vetta per cinque settimane.
Olivia Harrison, che ha incontrato il futuro marito solo un anno dopo mentre lavorava alla casa discografica A&M a Los Angeles, ricorda la prima volta che ha sentito Give Me Love. «Per andare al lavoro mi facevo ogni giorno in auto la strada da Hermosa Beach e La Brea. Ascoltavo la radio e la passavano di continuo. Trasmetteva positività. Ero in sintonia con George e quella musica, provavo le stesse cose, ho iniziato a fare meditazione e cose del genere. Quella canzone era la colonna sonora delle esperienze che stavo facendo. Era semplicemente perfetta per me».
Il marito, dice Olivia, ricordava con affetto l’album e le session per le quali aveva reclutato amici come il bassista Klaus Voormann, il batterista Jim Keltner, il tastierista Gary Wright e membri dei Badfinger. «Gli era molto affezionato. L’aveva fatto con gli amici stretti, aveva acquisito un nuovo livello di fiducia, si divertiva di più». Sarebbe arrivato poi un periodo più travagliato, con problemi alla gola durante il tour del 1974 e la causa per il plagio per My Sweet Lord.
Nonostante il successo, Living in the Material World è stato all’epoca anche criticato. Nel disco precedente Harrison aveva cominciato ad esprimere il suo credo in Krishna, ad esempio in pezzi come Awaiting on You All o la stessa My Sweet Love. Ma per certa critica e alcuni fan dei Beatles le canzoni a sfondo religioso di Living in the Material World erano semplicemente troppo. Per una Give Me Love c’erano The Light That Has Lighted the World e The Lord Loves the One (That Loves the Lord), oltre Sue Me, Sue You Blues che raccontava delle dispute legali dopo lo scioglimento dei Beatles.
«All Things Must Pass ha portato dritto a Material World, che ha reso ancora più chiare le cose. All’epoca c’era chi diceva che era troppo spirituale, ma a George non importava. Ai tempi di My Sweet Lord sapeva di avere osato, sapeva che alla gente poteva non piacere, ma è andato avanti per la sua strada: “Questa è la vita”, diceva, “è cambiamento”».
Non lo preoccupava l’idea che i fan che desideravano un George più spensierato alla fine lo abbandonassero? «Ne era consapevole, ma non se ne preoccupava perché sapeva che c’era una verità in quel materiale, che piacesse o meno. Sapere che la gente certe cose non le voleva sentire non lo scoraggiava. Diceva che bisogna bilanciare una vita così incredibilmente materiale con almeno una parvenza di vita interiore votata alla saggezza».
Secondo Olivia Harrison la fiducia che aveva nel disco era anche frutto del concerto per il Bangladesh che aveva organizzato l’anno prima dell’inizio delle session di Living in the Material World. «Grazie a quel concerto ha messo di preoccuparsi. All’inizio non credeva d’essere in grado di mettere insieme una manifestazione del genere. Non era mai stato un frontman e non si rendeva conto dell’influenza che esercitava sugli amici e del fatto che c’era gente che lui rispettava e che lo sosteneva. Dev’essere stata una bella conferma e anche una spinta incredibile. A quel punto, non aveva più dubbi su quel che stava facendo».
Un’ulteriore prova della fede del marito è finita tra le mani di Olivia Harrison quando ha trovato a casa un tappo di bottiglia con dentro un foglietto con la frase scritta a mano da George “Be here now”, che è anche il titolo di una delle canzoni dell’album. «Potete pensare quel che volete su questo o su quell’argomento, ma una cosa è certa, era sincero e convinto ed è questo che rende il disco buono. Oggi la gente ha una mentalità più aperta, il mondo è cambiato, la meditazione o le tecniche di auto-aiuto sono viste in tutt’altra maniera. Nessuno dice più che questa roba è troppo spirituale. Dhani mi ripete sempre di non trasformare George in un santo. D’accordo, ma era un uomo saggio e onesto».
Da Rolling Stone US.