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Foto di Sara Fileti, Total Look Dolce&Gabbana

Tiziano Ferro
Oltre gli ostacoli

Il coraggio di cambiare, superare le crisi, ripartire. Tiziano lo dimostra anche con il nuovo album Accetto miracoli. E, nella foto virtuale scattata in esclusiva per Rolling Stone, getta la maschera, si guarda allo specchio con lucida onestà e si rivela senza filtri al suo pubblico

  • «Oggi a L.A. c’è questo grande sole», canta Tiziano Ferro nel nuovo album Accetto miracoli. C’è pure il giorno che c’incontriamo. Faccio l’ultimo tratto di strada fino al luogo dell’appuntamento a piedi, e si sa: nessuno cammina a Los Angeles. I guardiani delle case sulla collina sotto il Griffith Observatory alzano la testa increduli per salutare, sono l’unico pedone che hanno visto e probabilmente vedranno per giorni. L’ultima curva, una via senza uscita. Tiziano s’è nascosto bene. «Sta finendo di registrare un paio di cose». Sulla porta c’è Marco Sonzini, ingegnere del suono con cui collabora. Tiziano, nello studio di Vasco Rossi squattato per un pomeriggio, mi dirà poco dopo che non erano registrazioni vere e proprie: «Mi stavo solo divertendo un po’». L’album è chiuso. Siamo i primi con cui ne parla. Iniziamo. «No, prima chiamo Starbucks: qua non si comincia nessuna chiacchierata senza caffè».
  • Partiamo dal grande sole di L.A., allora.
  • È un posto da fuori di testa. Quando ascolto altri immigrati come me, mi dicono tutti la stessa cosa: non ho punti di riferimento, non c’è un centro, dove vado. E poi: non è facile conoscere gente. Tutto vero. Io però, nella città più alienante del mondo civilizzato, ho trovato esattamente l’opposto. Ho sempre avuto delle reti di salvataggio. Subito avevo degli amici, e tante persone con cui fare musica.
  • Venirci a vivere è stato un piano o una fuga?
  • Un piano no di certo. Sono un grande pianificatore, ma per la prima volta in vita mia ho fatto una cosa senza progettarla. Registro i miei dischi a L.A. dal 2011. Già all’epoca Michele Canova, che era il mio arrangiatore, voleva trasferirsi qui. Il primo passo verso l’amore per questa città è stato conoscere tanti musicisti locali. Nel 2016, ci sono tornato per Il mestiere della vita. È stato allora che ho pensato: finalmente, dopo quasi quindici anni, questo posto mi ha preso, lo capisco, mi riconosco. Quasi quasi mi cerco una casa. Avevo quest’idea in testa, ma mi mancava il coraggio. Tre giorni prima di ripartire per Milano, incontro Victor (Allen, suo marito dall’estate scorsa, ndr). Non posso dire che sia stato amore a prima vista, perché mentirei. A parte la differenza anagrafica – ha quindici anni più di me, ma non li dimostra; e io mi sono sempre sentito più maturo della mia età – non c’è stata quell’attrazione scioccante. Ma io, in qualche modo, ho capito da subito che avrei dovuto dare spazio a quest’esperienza. Mi sono ritrovato in questo posto senza, di fatto, averlo mai davvero scelto. È stato strano. Ero abituato a decidere tutto della mia vita. E pure la vita degli altri. Non vi preoccupate, ci penso io. Voi pensate solo a svegliarvi, io vi organizzo tutto.
  • Mi ricorda una vecchia intervista a George Clooney: diceva che, anche solo durante una cena tra amici, vuole sempre avere il controllo su tutto. Lo lascia solo se capisce che qualcun altro gestirà la situazione: ovvero, preoccuparsi che tutti stiano bene, che ognuno abbia il vino nel suo bicchiere, eccetera.
  • Ecco, io sto prendendo la seconda strada. Non sono più il pianificatore ossessivo di un tempo. Mi sono affidato a un luogo, a una persona. Non avrei potuto fare altrimenti. Ancora oggi mi sveglio, mi guardo intorno e penso: è successo, e basta.
  • Hai trovato il coraggio.
  • Il confine tra coraggio e follia è sottile, stanno nella stessa sfera. Mi sono fidato della pancia. Una volta era più facile. Lo dicevo e lo facevo. A vent’anni sono andato a fare l’università in Messico, a venticinque mi sono trasferito in Inghilterra. Oggi mi stupisce, però è bello.
  • Accetto miracoli è il primo album nato qui.
  • Ed è stato un salto nel buio. Gli artisti dicono sempre la stessa cosa: questo è il mio disco più bello, quello che mi rappresenta di più. Nel mio caso, non so se è vero. Ho scritto il primo album tra i diciassette e i vent’anni, come posso paragonare una cosa di allora a una fatta a quarant’anni? Resteranno figlie di epoche diverse. Però sono convinto che questo sia un disco importantissimo per me. Perché arriva da un momento di crisi, di rottura. Il mio è un lavoro che, se hai la fortuna di farlo bene e tanto, crea tante cattive abitudini. La prima è quella di bastarti. Quando hai una buona risposta da parte del pubblico, tendi a limitare il tuo senso critico e autocritico. Smetti di migliorarti, di essere aperto all’apprendimento. Sarà pigrizia, insicurezza, non lo so. Hai a che fare con un milione di occhi e di orecchie e non sai più quali sono quelli affidabili. Io, per paura, ho tenuto accanto persone che, al posto di stimolarmi, navigavano a vista. Per ingenuità, per soldi, per incapacità di fare altro, perché è più facile così. Ho dovuto estirpare un po’ di erba cattiva. E con questo non voglio dire che fossero persone cattive: non erano più rapporti costruttivi per me. Avevo attorno un ambiente poco creativo, mi sentivo vittima di gente che mi faceva sentire da meno. Da un punto di vista musicale, avevo l’autostima sotto i piedi. Detto onestamente, sentivo che non andavo più da nessuna parte.
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Tiziano Ferro sulla Digital Cover di Rolling Stone Italia
  • Siamo nel…
  • 2016. Il mestiere della vita. Un disco molto faticoso. Lo amo perché l’ho scritto e registrato in un momento di crisi profonda, in cui continuavo a chiedermi: questo lavoro lo posso fare ancora oppure no? Tutte le cose importanti arrivano da un momento di crisi. Azzerare tutto, ripartire dal nulla. Come con Los Angeles. Mi sono rimesso in gioco. Ho ricominciato a suonare il piano, a prendere lezioni di canto.
  • (Flashforward. Torniamo sulle lezioni di canto un mese dopo, durante lo shooting. «La mia insegnante di canto è la figlia di una delle Supremes, Qualcosa Payne (Scherrie Payne, ndr). Non sa che faccio il cantante di mestiere, mi sono iscritto alla sua scuola col cognome di Victor. Ho pure fatto il saggio di fine anno, io da solo al pianoforte. Ho cantato Bonfire Heart di James Blunt, non chiedermi il perché di James Blunt. Ero il primo ad esibirmi, Victor non è voluto venire a sentirmi, per non essere complice della mia bugia. Ma non è una bugia, è un’omissione. Preferisco che la mia insegnante non sappia niente di me. Ho capito di aver ragione quando, qualche tempo fa, mi ha detto: tu dovresti cantare di più, perché non proviamo a preparare un provino per The Voice? Fa ridere, ma è stato bello».)
  • Parlami di Timbaland.
  • Un giorno, scopro dalla Universal che c’è la possibilità di incontrarlo. Non ci posso credere, Timbaland è uno dei miei idoli di quand’ero ragazzo. Vado, lui ascolta i primi demo e dice: iniziamo a lavorarci subito. Sono andato in studio da lui convinto che ci saremmo solo conosciuti. Invece ha preso quella che sarebbe diventata la prima canzone del disco, Vai ad amarti, e si è messo sotto. È stato decisivo per me, non sarei mai uscito dalla comfort zone in cui mi ero infilato. Anche se non stavo più bene, non riuscivo a separarmi dall’ambiente che musicalmente era l’unico che conoscevo. Il problema ero io: non esprimevo il mio parere, non avevo la forza di cambiare. È come quando vivi una relazione tossica: se non te ne vai, la colpa è anche tua. Mi sono buttato nel vuoto, con un produttore totalmente diverso, e per di più così ingombrante. È stata una terapia d’urto utilissima. Non mi sentivo più giudicato da nessuno, è nato un disco libero.
  • Da quali canzoni sei partito?
  • Da Accetto miracoli, di cui avevo scritto il testo subito dopo aver finito di lavorare al Mestiere della vita. Ma la musica non voleva uscire. Era come se inconsciamente non mi sentissi pronto a cantare quelle parole: accetto miracoli. Ci sono tornato su, molto tempo dopo, con Giordana Angi e Antonio Iammarino. Il secondo pezzo da cui è nato l’album è Il destino di chi visse per amare. Anche quello l’ho scritto tre anni fa, è diventato il manifesto della mia ripartenza, del mio voltare pagina. Parla a una vecchia versione di me, è come se avessi finalmente trovato il coraggio di dire a me stesso che qualcosa andava cambiato.
  • La produzione è tutta in mano a Timbaland o sbaglio?
  • Tranne tre canzoni: Amici per errore, In mezzo a questo inverno e Casa a Natale. Sono tutte ballad quasi solo chitarra e voce, non aveva senso coinvolgerlo. Anche Accetto miracoli non avrebbe dovuto produrla lui, poi ho pensato: vediamo cosa può venire fuori. Infatti, in quel contesto, il suo beat è figo. In mezzo a questo inverno, invece, è la prima canzone che ho prodotto interamente da solo.
  • Spiega.
  • Mettiamola così. Ho sempre dato tanto nelle produzioni, sono sempre stato parte attiva negli arrangiamenti. Così come ho pensato la maggior parte delle regie dei miei video, senza per questo firmarli. Il fatto che non mi sia mai stato riconosciuto è una delle cose che mi hanno frustrato di più negli ultimi anni. Per questo ho voluto produrre una canzone da solo. Come per dirmi: tiè, Tiziano, non hai mentito.
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Tiziano Ferro sulla Digital Cover di Rolling Stone Italia
  • Le emozioni al primo ascolto dell’album.
  • Lo dicevo prima: non puoi paragonare una roba che hai scritto a quasi quarant’anni a quella di vent’anni prima. Ma in Accetto miracoli trovo la stessa urgenza, la stessa onestà di allora, anche se oggi sono dettate da motivazioni diverse. Là c’era un certo grado di disperazione, di incapacità di gestire la vita, di parlare col mondo. È cambiato il mio linguaggio, ma la forza è la stessa. Questo mi consola: ho il terrore di diventare disonesto.
  • Ora lo ascolteranno gli altri.
  • È un momento magico, quello prima dell’uscita. Quando un disco tuo diventa degli altri, qualcosa nell’ascolto si corrompe. Ci sono cose che fioriscono dopo. Per esempio: L’amore è una cosa semplice ha avuto sette singoli. Una cosa folle. Erano tutti singoli che non avevo previsto. Il terzo, per dire, fu Hai delle isole negli occhi. L’avevo messa all’inizio perché aveva quei suoni soul e pensavo: questo povero pezzo non se lo filerà nessuno. Ancora oggi lo amano in molti. Quello dopo fu Per dirti ciao! Ci avevo chiuso il disco, parlava di morte, e diventò non solo un singolo, ma un singolo estivo! Dopo ci fu Troppo buono, e poi La fine, perché tutti volevano quella canzone. Quello fu l’album dei singoli che non mi aspettavo, un album fuori controllo. Questo vedremo. Di sicuro – mi sputtano – non volevo Accetto miracoli come singolo. Mi sono fidato del mio manager (Fabrizio Giannini, ndr). Ora aspettiamo che il disco esca, poi capiremo.
  • Balla per me, il duetto con Jovanotti, mi pare in odore di singolo.
  • Non abbiamo fatto piani. Lui è un sogno da quando ero piccolo. Lo conosco da anni, ma non ho mai avuto il coraggio di chiedergli una collaborazione. L’ho fatto ora perché sentivo che era il pezzo giusto. Sono andato a trovarlo a Malibu, mentre registrava Lorenzo sulla Luna. È saltato sulla sedia, ha detto subito di sì. È stata la cosa più facile dell’universo, sembra che cantiamo insieme da trent’anni. Propongo una collaborazione a qualcuno solo quando sento di avere il pezzo preciso, forte. Con Carmen Consoli è andata allo stesso modo. Avevo già scritto una canzone per lei (Guarda l’alba, ndr), ma non le ho chiesto di cantare nulla insieme finché non ho avuto Il conforto. Al Conforto non avrebbe mai potuto dire di no.
  • Torniamo al coraggio.
  • Ho avuto un’unica relazione importante prima di Victor, durata tre anni. Lui mi diceva sempre: tu sei uno coraggioso, non avrai mai bisogno di medicine per il fegato. Era un omeopata. (Ridiamo) Mi spiegò – sintetizzo – che è da lì che arriva l’energia del coraggio, perciò si dice “avere fegato”. Mi diceva un sacco di cose brutte, questa era l’unica roba positiva che tornava sempre. Io non lo so se è vero, che sono coraggioso. Ma sono un uomo di fede. Quello che mi dici non deve per forza essere scientificamente provato. A volte mi basta pensare che può esserlo.
  • La vita ha dato ragione all’omeopata?
  • La gente mi dice che sono stato coraggioso, nel 2000, a propormi sul mercato italiano con quei beat hip hop e R’n’B. Mi rifiutarono tutte le case discografiche, finché un disperato (sempre Giannini, ndr) non mi mise sotto contratto e Xdono andò al numero 1 in due mesi. Ma quello non fu coraggio, era solo passione. Non sperimentavo: era tutto quello che sapevo fare, non c’era alternativa. Poi c’è stato il coming out nel momento massimo della mia carriera. In un Paese come il nostro, mi dicevano, che cosa ne puoi trarre, se non danni? Ma anche lì non c’era coraggio: c’era disperazione. Se non fosse andata così, per me sarebbe stata la fine. E con fine non intendo solo la morte fisica, ma forme di degrado che possono essere ugualmente dolorose. Una morte interiore, emotiva. Per frustrazione, infelicità, ansia, isolamento, mancata stima verso me stesso. Tutti sentimenti che provavo. Il coming out è stato un intervento da pronto soccorso. Anche in quel caso, non ho avuto scelta. Dovevo salvarmi. Se l’avessi fatto per innalzarmi a paladino della causa, forse sarei stato meno convincente. Ho ispirato qualcuno a fare lo stesso? Sono felice. Non mi tiro indietro, mi piace parlarne. Ma sono sincero: non è stato un atto di generosità. Se poi mi chiedi (e non me l’hai chiesto, quindi mi metto nella merda da solo): altri dovrebbero farlo? Allora ti dico che oggi un po’ di irritazione mi viene. Perché comprendo benissimo gli attuali cinquanta-sessantenni, vissuti in un mondo in cui poter esprimere se stessi era fuori da ogni logica umana, sociale, professionale. E giustifico in parte la mia generazione, quella dell’ultimo treno un po’ arrugginito. Io sono cresciuto in un ambiente di grande bullismo, di odio, di spinta verso la negazione. Ogni volta che provavo ad aprirmi, mi dicevano: non dire nulla, fatti i cazzi tuoi. Poi, quando ho capito che dalla gente avevo solo amore, ho detto: fuck it. Per chi oggi ha dai trentacinque anni in giù, però, non ci sono scuse. È il momento. Sono diventato molto meno tollerante.
  • Victor ascolta la tua musica?
  • Si è molto offeso perché ho osato fare un cd con i pezzi del nuovo disco a un’amica prima che a lui. La cosa ha creato molto trambusto in casa. Mi piace il fatto che prenda dalle mie canzoni quello che vuole. Per lui Vai ad amarti è un pezzo molto sexy. Invece parla di risentimento, non c’entra un cazzo. Ma lui è convinto. Per essere un americano, è molto curioso rispetto a tutto quello che non accade qua. In generale, però, non sono quello che fa ascoltare la sua roba agli altri. Con lui è più facile, ma ho ancora questa resistenza. Mi sembra di appesantire le persone. Ogni volta che vedo il mio avvocato, che mi segue da quindici anni e lavora con molti altri artisti, mi dice: sei l’unico che non mi fa mai sentire niente, di solito i tuoi colleghi arrivano qua con cento provini. E lo dice, si capisce, con un certo sollievo. Io non faccio ascoltare i miei pezzi, quando ci sto lavorando, per un motivo semplice: sono fogli vuoti che stai riempiendo della tua vita, perché dovresti aver bisogno dei commenti di qualcuno?
  • Come va la vita da sposato?
  • Le relazioni sono un bel lavoro. Si sta bene, si fa fatica, devi incastrarti, smussare gli angoli, imparare a non importi. Sono un tipo molto indipendente, ma sto bene con Victor perché tutte le piccole rinunce non mi pesano, le vedo parte di uno schema molto più grande. Due vite così diverse che si mettono insieme sono tanta roba. Ma lui è una persona molto generosa, ha la capacità di ascoltare, di accogliere. E di amplificare le cose buone che ho. Mi fa da prisma: dal senso dell’umorismo a ogni minimo talento, riesce a farmeli vedere come proiettati su un muro. Mi ha tolto quel vizio dell’autocritica a tutti i costi, anche quando non ce n’è bisogno. E mi è utile vedere davanti a me una persona risolta, a fuoco con la sua vita. Perché io ho iniziato molto tardi a non sentirmi sempre nel mezzo del terremoto. Ora, qui a L.A., al massimo devo preoccuparmi dei terremoti veri.
  • Ai figli ci pensate?
  • È una delle cose che mi ispirano di più quando penso a me come uomo. Ora mi sento di potercela fare. Quando capisci che non sei più tu quello che deve essere accudito, il primo istinto è volerti prendere cura di qualcun altro. Vedremo, qui ci sono mille opzioni. Si può adottare. Al momento, è ancora un bel sogno.
  • Nel disco canti: «Se mi volto indietro soltanto un secondo, il passato mi annienta».
  • Il passato è un luogo molto pericoloso in cui risiedere. L’ho fatto spesso, tutti i blocchi che ho avuto erano un’eredità del passato. Mi hanno salvato l’accettazione di me stesso, e l’evoluzione come artista. Il problema del passato è che lo ricordiamo attraverso i filtri dell’emozione del momento. La memoria selettiva è molto strana, per chi come me viene da un mondo di paura e insicurezza: tende a selezionare solo ciò che ci ha fatto male. Oggi, finalmente, ho trovato un bel sistema di supporto. La mia vita è sempre stata un puzzle fatto di tanti pezzi da incastrare. Per la prima volta, ne ho solo due – Los Angeles e l’Italia – e si compensano perfettamente. Non provo più quel senso di addio: quando parto per l’Italia sono contento; quando torno qui, pure. Sento di avere una famiglia da una parte e dall’altra. E una bella rete di persone. A quarant’anni, ho imparato a selezionare chi frequentare, non ho più tempo da perdere.
  • Continui a dire “a quarant’anni”, ma li compirai l’anno prossimo.
  • Di recente giravo il video della versione spagnola di Accetto miracoli con Ana Guerra, una ragazza di venticinque anni. Porca miseria, pensavo, io mi sento ancora come lei, sto cantando con una che ha la mia età. E invece no. Un giorno ti svegli e venticinque anni non li hai più. Ma va bene così.
  • Dunque, nel 2020: quarant’anni e un altro tour.
  • So che non sarà incentrato sul disco. Negli stadi si può creare un’intimità con le persone spaventosa, punto a quella. E poi, sì: il tour sarà il pretesto per fare un festone di compleanno collettivo. Penso a un set di soli singoli, tante canzoni vecchie, poche tracce di questo disco. Di sicuro non si chiamerà Accetto miracoli Tour.
  • Se festone dev’essere, puoi accettare però le richieste dal pubblico come Bruce Springsteen.
  • Non se ne parla proprio. Dev’essere tutto pianificato e provato. Negli ultimi tempi, ho lasciato già troppo al caso.
Tiziano Ferro sulla Digital Cover di Rolling Stone Italia