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Marco
Lillo

Scrittore e Giornalista de Il Fatto

Marco Lillo

Scrittore e Giornalista de Il Fatto

  • Marco Lillo, giornalista de “Il Fatto”, è uno dei più importanti giornalisti d’inchiesta del paese. Nel giugno del 2017, a seguito della sua inchiesta sul caso Consip (e della vicenda Sciarelli/Woodcock) e di una denuncia per diffamazione dell’indagato Alfredo Romeo, furono perquisiti il suo ufficio, la sua macchina, il suo computer e quattro case, perfino quella della sua ex. Ma le vicende giudiziarie che lo coinvolgono, da cronista e pure da imputato, sono numerose.
  • Tra penale e civile direi che ad oggi mi sono preso circa 100 querele, ma non ho mai perso una causa. Poi certo, alle volte può accadere che gli editori si accordino con la parte offesa e patteggino un risarcimento extragiudiziario per non andare in tribunale. Può accadere all’insaputa del giornalista che ha scritto il pezzo incriminato.
  • Come accadde con Matteo Renzi?
  • Sì, su L’Espresso avevo scritto un pezzo a quattro mani con un altro giornalista. Lui scrisse una cosa inesatta e fummo querelati entrambi da Renzi. Poi Renzi rimise la querela e si accordò con l’editore per un risarcimento (di 22.500 euro n.d.r.) con una clausola di riservatezza. Io non lo sapevo neanche.
  • Qual è il nodo principale quando si discute di giornalismo e libertà di stampa, secondo lei?
  • Sulla faccenda querele, la questione più spinosa, a mio parere, è quella dello squilibrio tra querelato e querelante. Un giornalista che non ha un’assistenza legale garantita dalla testata per cui lavora e si trova a scrivere di argomenti delicati, in caso di denunce risponde col suo patrimonio personale. Rischia i risparmi della famiglia. Al contrario, i manager, la autorità pubbliche, gli amministratori delegati di grande aziende, i politici, a querelare hanno solo vantaggi: non pagano gli avvocati perché glieli paga l’azienda o magari il partito, quindi, se perdono, non perdono nulla ma se vincono e ottengono un risarcimento, la somma va a loro, non all’azienda o al partito.
Tra penale e civile direi che ad oggi
MI SONO PRESO
100 QUERELE (CIRCA)
ma non ho mai perso una causa
  • Qual è la soluzione, a patto che esista?
  • Sono dell’idea che un dirigente d’azienda o di un partito, qualora decida di intentare una causa e la vinca, debba poi eventualmente destinare il risarcimento all’azienda o al partito.
  • Accumulare querele, per un giornalista, vuol dire anche dover investire molto tempo nella propria difesa.
  • Il tempo investito su queste cose è moltissimo. Diciamoci la verità, una querela è una grandissima rottura di coglioni perché in alcuni periodi, prepararsi per la difesa, può portare via anche due ore al giorno. Il mio avvocato mi tratta come un bambino di due anni. Io magari sto preparando un’inchiesta, ho altro da fare e lui mi insegue perché gli consegni delle carte, mi telefona cento volte.
  • Non ha mai avuto paura delle conseguenze del suo lavoro? Di una condanna?
  • Noi giornalisti, soprattutto quando facciamo inchieste complesse, già conviviamo con la paura di sbagliare, che c’è sempre. E fa star male. Quindi c’è una prima sanzione di tipo sociale che è la propria coscienza. Poi ci sono le ovvie preoccupazioni materiali per l’editore.
  • Lei va ai suoi processi o manda gli avvocati?
  • Certo che ci vado, anche perché a noi de “Il Fatto” dicono “giustizialisti", ma io ogni volta che vado in aula e so che sarò nelle mani di un giudice, mi faccio il segno della croce. Ci sono giudici che non leggono le carte, che si trovano di fronte a dispute complesse o a inchieste complicate come alcune delle mie e non sai mai se hanno capito o letto tutto.
  • Per esempio?
  • Una volta mi ha fatto causa una gigantesca società canadese perché sosteneva che con una mia inchiesta avevo fatto crollare le quotazioni della società in borsa del 10%. Al processo si presentavano questi mega avvocati canadesi dell’accusa vestiti di nero, con le loro valigette, che creavano un’atmosfera alla Grisham, ma io avevo molta più paura di un eventuale giudice poco preparato che di loro.
  • L’ha vinta, alla fine, quella causa.
  • Sì, mi sono difeso anche in prima persona, come del resto faccio quasi sempre. I giudici, tendenzialmente, sono convinti che i giornalisti siano un po’ cialtroni, invece magari io ho lavorato sei mesi giorno e notte per quell’inchiesta e voglio spiegare il lavoro che c’è dietro, la fatica. Spesso restano stupiti.
  • Lei ha mai fatto causa a qualcuno?
  • Una volta, a Daniela Santanchè. Mi disse “stronzo” durante un programma in tv. Mio figlio rivide la scena a “Striscia la notizia” e prese il mio telefono per inviarle un sms in mia difesa. Allora la denunciai, ma più per dare una lezione di vita a mio figlio che per il fatto in sé.
  • Come si risolve il problema della querela “facile”?
  • Vorrei che ci fosse una sanzione sociale per i potenti che perdono le cause che so, con i piccoli giornali. Tu, amministratore delegato, perdi la causa, e vieni licenziato. Inoltre, se hai chiesto 10 milioni di risarcimento e perdi, ci rimetti un milione di euro. Sono per scoraggiare il più possibile dal fare cause intimidatorie ai giornalisti. Inoltre bisognerebbe creare un fondo che tuteli i giornalisti denunciati da poteri forti perché abbiano assistenza legale gratuita.
  • intervista di Selvaggia Lucarelli
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