La storia del jazz nelle mani di Kamasi Washington | Rolling Stone Italia
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Kamasi Washington, l’intervista

È l'architetto del revival musicale della West Coast e contemporaneamente il genio che ha contribuito agli ultimi due album di Kendrick Lamar. Ma per il sassofonista il successo è solo l'inizio

Kamasi Washington, l’intervista

Nonostante gli osanna ricevuti fino a questo punto – è il primo motore immobile del jazz revival della West Coast, ha conquistato le migliaia di persone che l’hanno ascoltato al Coachella e ha partecipato alla prestigiosa Biennale del Whitney Museum – Kamasi Washington, 37 anni, non sente di essere diventato qualcuno. Certo, è uno dei pilastri degli ultimi due album di Kendrick Lamar (è responsabile di tutti gli arrangiamenti d’archi e delle parti di sax tenore di To Pimp a Butterfly e DAMN.) e sì, le sue composizioni spirituali hanno davvero rivitalizzato il genere. Tuttavia ascoltando le sue parole sembra che stia ancora vivendo alla giornata. «Sono un messaggero», si limita a spiegare. «Adesso che la gente sta a sentire devo cogliere l’opportunità di offrire un messaggio».

Non è stato facile arrivare al suo livello. Quando era solo un talento, Washington e i suoi amici suonavano nel garage dei genitori: siamo a Inglewood, in un cubicolo che chiamavano “La Catapecchia” e non così lontano dalla pista d’atterraggio dell’aeroporto di Los Angeles. È qui che insieme al West Coast Get Down – un collettivo straordinario di musicisti che comprendeva il bassista Stephen “Thundercat” Bruner, il trombonista Ryan Porter e il pianista Cameron Graves – scriveva in condizioni pietose, avvolto da un caldo asfissiante, coltivando uno sguardo nuovo sul futuro.

Washington si sosteneva facendo il turnista – ha suonato per anni nelle band di Snoop Dogg, Chaka Khan e tanti altri – in un periodo storico in cui il jazz non era né popolare né influenza del mainstream, quando la musica del West Coast Get Down era considerata arcaica e relegata in piccoli club. L’equipaggio, però, ha mantenuto i nervi saldi anche quando il mondo fuori dalla Catapecchia andava fuori controllo.

Nel 2015 pubblica il primo album The Epic, un’esplosione lunga più di tre ore e piena di riferimenti a una tradizione decennale – dal gospel al big-band jazz, fino al funk -, riuscendo a fondere l’essenza psichedelica dei sessanta di Pharoah Sanders, Sun Ra e John Coltrane con il suono sorridente della fusion dei settanta, quando il jazz coinvolgeva anche il pubblico mainstream. The Epic arriva due mesi dopo Butterfly di Kendrick: è un periodo intenso negli Stati Uniti, i temi pacifisti e di unità sociale si intrecciavano profondamente con quelli dei diritti dei neri statunitensi, e l’esordio di Washington nasceva per tamponare le ferite di una comunità che continuava a piangere morti innocenti uccisi dalla polizia.

Due anni dopo – con la presentazione di Harmony of Difference alla Biennale del Whitney – Washington va oltre, proponendo versioni diverse della stessa melodia in tutte e sei le composizioni dell’EP. «La mia speranza era di mostrare alla gente la bellezza delle nostre differenze attraverso le armonie create mescolando musiche diverse», diceva in un comunicato diffuso insieme all’album.

Voglio fare musica che sia più grande della politica

Il materiale a cui sta lavorando adesso – Heaven and Earth, il suo prossimo album, esce a giugno – sposa l’estetica big band di Epic e Harmony con le tonalità oscure e gli orizzonti sconfinati di capolavori come Spiritual Unity di Albert Ayler e Live-Evil di Miles Davis. Per riuscirci non può permettersi di affrontare direttamente questioni socio-politiche: la cronaca ombreggia l’album ma non lo oscura mai completamente. «Sono cose che mi colpiscono in profondità, ma non lascio che mi consumino», spiega. «Una persona come Donald Trump non può influenzare il modo in cui amo i miei fratelli. O cosa penso dei miei vicini. Voglio fare musica che sia più grande della politica, se ti dedichi troppo all’attualità finisci per perderti».

L’arte di Kamasi Washington è ricerca di una vibrazione superiore, al di là dell’ansia e dei tweet provocatori. Mentre la gente si divide in razze e gruppi politici, Washington vuole mostrarci un’umanità buona e l’innocenza un po’ bambinesca sommersa dalla sfiducia generale e dalla sofferenza sociale. È un intenzione percepibile ascoltando brani catartici come The Rhythm Changes e la vulcanica Askim. È nello swing maestoso di Humility e nella caleidoscopica Truth. È per queste canzoni che è il musicista più chiacchierato del jazz mainstream.

Per Kamasi, però, è solo l’inizio. «Mi sento libero di suonare quello che voglio», dice. «Sono arrivato al punto in cui tutte le parole che voglio dire passano per il mio sassofono».

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