Rolling Stone Italia

Giorgio Canali: «Il coronavirus è la prova generale dell’esercito nelle strade»

A 62 anni d'età, il chitarrista è ancora un anarchico che pensa che la dietrologia sia l'unica scienza esatta. Per sfogarsi dà testate al microfono e continua a produrre musica fieramente indipendente

Foto: Nicola Montanari

Non è facile intervistare un artista che, per sua stessa ammissione, si sente immortale «finché qualcuno non mi smentirà», ha deciso di bestemmiare «per principio», a ogni concerto tira almeno tre testate al microfono «come anti stress» e ha dedicato un album a László Tóth, l’iconoclasta che con un martello vandalizzò la Pietà di Michelangelo Buonarroti. Perché Giorgio Canali non suona il rock, lui è rock: «Infatti a 62 anni mi vesto ancora come i bimbi scemi».

Ci vediamo a Correggio, poco prima che l’Italia venga bloccata dai decreti per contrastare il coronavirus, in un bar dove mentre io bevo spremuta lui ordina vini bianchi uno dietro l’altro in perfetto sincrono con l’accensione delle sigarette. È appena uscito con un lavoro molto interessante, Love Tore Us Apart – Play Joy Division, per celebrare il quarantennale della morte di Ian Curtis, ma certamente non è il solo motivo che mi ha spinto nel cuore dell’Emilia paranoica cantata dai CCCP con i quali condivise l’album Epica Etica Etnica Pathos e le successive reincarnazioni CSI e PGR. Perché Canali, oltre a sfornare album potentissimi e portare in giro concerti incendiari con i suoi Rossofuoco, dal ’99 è l’alchimista di alcune delle produzioni indie che maggiormente hanno segnato gli ultimi vent’anni: Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus e Motta.

A tutto ciò, il cantante e chitarrista originario di Predappio associa una caratteristica non comune: l’estrema schiettezza. E forse anche per questo – e per le imprecazioni utilizzate come rafforzativo di alcuni concetti a cui tiene particolarmente – non lo si vede spesso (a dire il vero quasi mai) nei “salotti buoni” della musica italiana. Lui però se ne frega, perché «difficilmente si libereranno di me con tutti i dischi che ho messo in giro» e quando sarà il momento di farsi da parte non ha dubbi sulle modalità: «Proverò a volare precipitando da 400 metri».

Partiamo dal disco: perché proprio i Joy Division?
È un lavoro nato dieci anni fa per il trentennale di Ian Curtis, che abbiamo portato dal vivo un po’ ovunque. Era nato dalla richiesta del Museo di Storia Naturale di Reggio Emilia, così si è sviluppato in mezzo alla paccottiglia di bussolotti con dentro dei feti e strani cani impagliati. I Joy Division fanno parte della mia genetica, per noi che siamo sulla sessantina è difficile toglierci di dosso Ian Curtis e la maledizione del primo post punk, che poi è stato chiamato new wave. Però li abbiamo affrontati diversamente da chiunque altro: loro partivano da basso e batteria e noi facciamo a meno proprio di basso e batteria. Le canzoni sono ridotte agli arrangiamenti minimali per chitarra elettrica e chitarra baritono, registrate su un sequencer con un terzo chitarrista fantasma. È un lavoro che ha già superato un centinaio di concerti, ma chiuso il progetto è arrivato il quarantennale e siccome il pubblico ha sempre risposto bene, per chi non ha assistito adesso c’è il disco.

I Joy Division fanno parte della tua adolescenza, ma qual è la prima immagine che ti ricordi di Giorgio Canali bambino?
Quella in una foto custodita chissà dove: io in pantaloncini corti, cicciottello, con una mano nella taschina, perché ero già molto timido e non sapevo come mettermi in posa, guardavo il fotografo con aria stupita. Quei pantaloncini corti li ho portati fino alla terza media. Mia madre sosteneva che tenessero lontano dalle cattive compagnie. Adesso posso dirlo: non servono a un cazzo!

Poi la cattiva compagnia sei diventato tu.
Dopo ci è esploso in faccia il punk. Prima ci ritrovavamo con una chitarra in mano a dire: “Mi piacciono i Beatles e voglio imparare le loro canzoni”. In seguito è cambiato tutto: “Non sanno suonare niente e salgono sul palco? Allora ci vengo anch’io”. Bastavano tre accordi, spesso anche due. Comunque, ero un rincoglionito fino all’età della ragione, verso i 18 anni. Ricordo che a 17 c’erano le elezioni, il punk nel ’75 non era arrivato in Italia, e ho seriamente rischiato di votare Movimento Sociale. Mio padre era stalinista e l’avrei fatto solo per andargli contro. Per fortuna non è successo.

Sei originario di Predappio, il paese noto per aver dato i natali a Benito Mussolini. Come vivi questa storia che a ondate si ripresenta e divide le coscienze?
Predappio è storicamente antifascista. Adesso qualcuno ha approfittato di una certa rilassatezza per farci un business, infatti ci sono almeno un paio di supermercati dell’idiozia menefreghista. Ma per il resto la gente non è fascista. Per anni c’è stata una amministrazione di sinistra, decisamente refrattaria a quello schifo delle celebrazioni, mentre ora è in carica una vera destra. Il sindaco, tra l’altro, si chiama come me, Canali, ma è di un’altra genia che è sempre stata fascista, per cui non mi stupiscono deliri come quello di non finanziare la gita ad Auschwitz. Di stupidità è pieno il mondo, ne ho trovata parecchia anche rossa, ma di solito è nera.

Come è avvenuto, invece, il tuo passaggio da fonico a membro dei CCCP?
Stavo facendo musica sperimentale e mi sono reso conto che la gente, piuttosto che pagarmi per ascoltare la mia musica, mi avrebbe pagato per ascoltare la loro e così ho imparato il lavoro di fonico. Ho fatto di tutto, dai balli di liscio agli spettacoli porno dell’agenzia di Riccardo Schicchi con Moana Pozzi e Cicciolina. Prendevo un sacco di soldi per schiacciare play sul registratore e aprire un microfono. Poi ho deciso di concentrarmi su quello che mi piaceva. Ero in giro per l’Europa con i Litfiba e i CCCP li ho conosciuti in Unione Sovietica. Da lì è partito il delirio di Gianni Maroccolo, anche lui uscito dai Litfiba che mi ha coinvolto dicendomi: “So che a te piacciono le macchine, ma proviamo a fare roba più suonata. Portati una chitarra”. Prima la usavo solo per strimpellare. Dopo poco è stato automatico entrare nei CCCP.

Guardandoti indietro, come definiresti quell’esperienza che si è trasformata in CSI e PGR?
Sono stato un CSI e un PGR forzato, perché contemporaneamente per cinque anni ero il fonico dei Noir Désir. Prendevo treni e aerei per tornare in Italia a registrare e quando non ce la facevo qualcuno mi sostituiva. Sono stato tirato dentro in questa esigenza di avere l’ultimo album dei CCCP e questo aveva dato l’input per continuare. I due emiliani (Ferretti e Zamboni) e i due toscani (Maroccolo e Magnelli) erano rimasti in quattro e quando votavano erano pari, gli mancava l’ago della bilancia. Non credo che né gli uni né gli altri fossero felici di avermi in mezzo, perché sono un dissidente rompicoglioni, però ha funzionato proprio perché eravamo completamente diversi l’uno dall’altro.

Recentemente ho incontrato Giovanni Lindo Ferretti, che mi ha ribadito la sua vicinanza a Papa Benedetto XVI e a Giorgia Meloni. Mi sembra impossibile un dialogo fra voi, eppure collaborate da anni.
Siamo in buonissimi rapporti, se parliamo di vino, cibo e musica andiamo d’accordo. L’importante è non affrontare temi etici e politici. Quando l’ho visto vicino alla Meloni mi ha fatto ridere, anche se è terrificante. Poi come tutte le cose l’hanno sopra-mediatizzata. Lui è sempre stato così, un massimalista religiosissimo. Una volta gli serviva il “papa buono” Togliatti, poi si è scelto Papa Ratzinger. Ha bisogno di un Papa. In questo momento, però, penso che sia uno dei peggiori nemici di Bergoglio. Ultimamente, però, mi spaventa essere d’accordo con Ferretti, così come di ritrovarmi  al cento per cento con Gianni Maroccolo. Siamo sempre stati in conflitto, io e Gianni. Ci siamo mandati a cagare almeno dieci volte: “Te e me è l’ultima volta che facciamo qualcosa insieme”. Invece ultimamente concordiamo su tutto. Magari facciamo un partito.

Anche da solista e poi supportato dalla band Rossofuoco ti sei tolto delle grandi soddisfazioni. Dall’album Che fine ha fatto Lazlotòz dedicato una figura alquanto controversa.
Quello è stato un viaggio surreale nell’iconoclastia del punk. C’è chi si scandalizza, perché László Tóth ha massacrato un’opera d’arte. Invece secondo me ha rovinato una bellissima opera di artigianato pregiato, ma La Pietà non la definirei arte. Un vero artista è Jackson Pollock, oppure Hieronymus Bosch. Mentre Michelangelo e Leonardo non mi hanno mai emozionato. Comunque, erano dieci anni che avevo materiale mio da cantare e a un certo punto il Consorzio Produttori Indipendenti, che produceva cani e porci, si è chiesto: “Perché non fare un disco con la roba di Giorgio?”. E quindi il primo album era pieno di amici.

Ti è mai mancato l’ottenere un successo di massa, o è qualcosa a cui non aspiri?
Forse non sono capace di fare cose che vanno incontro al gusto dei più. Se fossi capace, probabilmente lo farei. Oppure non riesco a compiere quel passettino più lungo per sputtanarmi e piacere a più persone. Ma fondamentalmente, non credo di avere la qualità di arrivare a tutti. I messaggi che lancio attraverso i testi sono criptici, si comprendono a una terza lettura e quando la capiscono alla prima mi fanno abbastanza incazzare.

Foto: Nicola Montanari

È piuttosto significativa anche un’altra parte della tua attività, cioè quella di produttore. Hai tenuto a battesimo alcuni dei progetti indie più interessanti degli ultimi anni: Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus, Motta.
I Verdena erano una delle poche cose interessanti in giro. Li conoscevo da un anno e quando mi hanno proposto di curare la produzione è avvenuto naturalmente. Sono delle piccole teste di cazzo, ma adesso sono cresciuti. È stato magico lavorare con loro, con Roberta basso andavamo d’accordo, con Luca batteria quasi, con Alberto meno perché era sospettoso. Meno male che a un certo punto Roberta gli diceva: “Stai zitto e suona”. Dopo qualche anno, però Alberto mi ha chiesto scusa per la supponenza, aggiungendo: “Adesso so cosa vuol dire produrre i Verdena”. Ma loro avevano delle composizioni potentissime. Sono stupendi ancora oggi, non si sono mai sputtanati per avere successo, sono tra i pochissimi a tenere i cachet bassi che permettono i biglietti a 12-13 euro al massimo e per me è più di un valore aggiunto, dovrebbe essere obbligatorio per tutti. Vasco Brondi ha fatto la scelta giusta di chiudere con Le Luci della Centrale Elettrica, come noi con i PGR. I suoi dischi sono bellissimi, uno più dell’altro, e l’ultimo un capolavoro.

C’è qualcuno che hai prodotto che non ha raggiunto il grande pubblico, ma secondo te lo meriterebbe?
Ce ne sono parecchi. Per esempio, i L’Upo di Vimercate sono fantastici, prima si chiamavano Fuori Orario. Abbiamo fatto insieme un paio di album, ma nessuno se li è mai filati. Nel mio album Perle per porci ho infilato dentro tante cose che secondo me meritavano e c’era anche un loro pezzo. Oppure un cantautore come Mattia Prevosti di Varese, secondo me scrive benissimo. Per ora è difficile buttarsi in questo genere, ma ha un album che farà uscire su Spotify e staremo a vedere. Così come gli Operaja Criminale di Roma, che sono diventati la backing band di Motta.

Federico Fiumani dei Diaframma ha dichiarato: “Il rock ormai sensibilizza solo i già sensibilizzati”. Tu che suoni da sempre musica rock, che ne pensi?
Io non suono musica rock, io sono un rocker. Infatti, a 62 anni vado ancora in giro vestito come i bambini scemi. Ha ragione Fiumani, è la verità. Perché la gente è influenzata dalle mode, da quello che va o non va. Internet che è un po’ la nuova radio, non aiuta a diffondere solo le cose buone, come vediamo, ma le epidemie di merda si espandono molto più velocemente. Però, come cantava Neil Young, “rock and roll can never die”. È così divertente salire su un palco, scuotere il culo e spaccare la chitarra contro gli amplificatori che qualcuno ci sarà sempre a portarlo avanti. Se hai i soldi per farlo, sennò la chitarra e gli ampi te li fai prestare.

Il mondo indie in questi anni è cambiato moltissimo, dallo stesso ambiente sono usciti artisti come Tommaso Paradiso e Calcutta ora considerati mainstream. Cos’è l’indie oggi?
Con il termine indie venivano definite le etichette indipendenti che si affidavano a piccole distribuzioni. In questi giorni mi ha fatto ridere la foto che mi hanno mandato di una autoradio in cui passava un pezzo dei CSI ed eravamo catalogati come indie. Ma eravamo tutto fuorché indie, se vuoi alternativi, ma registravamo per la Universal non per la Rosa Rossa Records. Allora ho risposto con una battuta: “Sì, eravamo talmente avanti, che adesso siamo indie-etro”. Paradiso e Calcutta sono pop. Che siano partiti dal circuito indie è normale, com’era normale che dal Folk Studio di Roma negli anni ’70 uscissero De Gregori e Venditti, il diavolo e l’acqua santa.

Ultimamente è diventato indie anche Gianluca Grignani, facendo il percorso inverso.
Ho ascoltato solo tre sue canzoni vent’anni fa, perché mi hanno costretto per La fabbrica di plastica. Non l’ho mai incontrato, ma ho letto spesso di sue apparizioni su palchi altrui ubriaco e in questo lo apprezzo, perché il teppista ogni tanto va fatto.

Con Jovanotti invece hai un ottimo rapporto. Eppure, tornando a De Gregori e Venditti, sembrate davvero il diavolo e l’acqua tanta.
Lorenzo è fantastico, spettacolare, riesce a veicolare un ottimismo che vorrei avere io e con una intelligenza rara. Alla gente poi tira il culo se uno ha successo, quindi diventa il bersaglio di un sacco di stronzate. Come quella menata finto ecologica all’avversione ai concerti da spiaggia. Li abbiamo sempre fatti e adesso non vanno bene. Woodstock era ecologico? Diventi filo-qualcosa quando fa comodo sparare addosso agli altri. Pensa che lo detestavo Lorenzo. Con i CSI gli abbiamo aperto un tour e la prima volta sono salito sul palco con un adesivo sulla chitarra con un sole che ride e la scritta “Jovanotti, no grazie”. Quando l’ha visto era contentissimo, lo voleva a tutti costi. Invece di trovare uno che mi mandava a quel paese ho scoperto una persona magnifica e molto sincera a differenza di altri che cavalcano argomenti etici in modo utilitaristico.

Al riguardo Piero Pelù, che tu conosci bene, è stato accusato di essere un “borghese che gioca alla rivoluzione” sempre dal suo amico storico Federico Fiumani. Che ne pensi?
Sono molto amico di Piero, siamo come fratelli da sempre nonostante le strade si siano divise. C’è da dire che i Litfiba hanno iniziato a fare dischi di merda, lì non ci piove e ci ridiamo spesso ogni volta che ci vediamo. Non credo che Fiumani sia amico di Piero come rivendica, perché se sei un amico certe cose gliele vai a dire di persona. Pelù da sempre vuole arrivare al grande pubblico, i Litfiba stessi ne erano la dimostrazione. Certo, mi fa incazzare che quando cavalca delle battaglie strafighe è bersaglio delle critiche perché sembra che lo faccia in modo utilitaristico. Forse a volte lo fa, però almeno cavalca quelle giuste.

Siamo anche reduci dal tormentone “le brutte intenzioni, la maleducazione…” che ha visto coinvolti Morgan e Bugo a Sanremo. Che idea ti sei fatto della questione?
Marco (Castoldi, in arte Morgan, ndr) se lo conosci lo prendi com’è. Purtroppo, si sta suicidando da solo, e anche in maniera piuttosto vistosa. Si sta lanciando dai cornicioni degli hotel più alti in pieno centro. Abbiamo passato spesso serate insieme, ma con Bugo sono molto più amico viste le 90 date e un album condivisi. A Sanremo Cristian (Bugatti, in arte Bugo, ndr) non doveva farsi trascinare in quelle menate mediatiche, che sono il terreno di battaglia di Morgan. Appena vedrò Bugo gli diro: “Che cazzo hai fatto, imbecille? Quella danza lì non si balla!”. Da sempre voleva andare a Sanremo, nell’ambiente è risaputo, e forse ha perso lucidità. La volta che c’è riuscito si è portato dietro il guastafeste, ma non credo che venderà più dischi o avrà più gente ai suoi concerti.

Secondo te Morgan è un grande artista o un fenomeno mediatico?
Oggi un fenomeno mediatico. Però è vero che Morgan è un anarchico, uno vero. Anarchia non vuol dire andare in giro con il cane e la cresta. I punkabbestia possono essere anarchici, ma l’anarchia è un’altra cosa. Morgan si sta suicidando perché gioca troppo con certe cose, come gli eccessi. Non giudico la vita privata finché riesci a gestirla, ma quando trascini in storie di merda gli altri inizi a starmi sulle palle.

Non hai mai desiderato di partecipare a Sanremo?
Il nostro rapporto con Sanremo è sempre stato buffo, sia con i CSI che i PGR. Avevamo un atteggiamento da furboni. Ogni volta un paio di noi dicevano “andiamo a Sanremo” e altri due rispondevano “non se ne parla” e alla fine non si decideva mai. So che io e Ferretti eravamo d’accordo sia sull’andarci che sul non andarci.

Hai parlato di atteggiamento anarchico. Qui siamo nell’Emilia rossa…
Scusa se ti interrompo, ma l’Emilia rossa è morta negli anni ’80, quando hanno iniziato a entrare nel giro le Coop. È tutto finito un po’ di tempo fa. Per alcuni è preistoria.

Le tue posizioni sono note, ma vorrei proporti un gioco: che musica faresti ascoltare ai politici di oggi per dargli un segnale?
Gli consiglierei di mettersi in cuffia del death metal a tutto volume e spaccarsi le orecchie. Quella gente li è veramente pericolosa. Io ho molta paura di quello che riescono a crearsi attorno. Stanno cavalcando ingenuamente i social, ma sai, io sono un complottista.

Ti riferisci alla situazione odierna, cioè alle misure restrittive per combattere il coronavirus?
La dietrologia è l’unica scienza esatta, per me. I politici sono il perfetto strumento di un potere che vuole toglierci tutte le libertà. L’emergenza coronavirus mi fa paura, come se fosse una prova generale di blindatura, per giustificare l’esercito in piazza. Hanno sbagliato faldone, chiudendo i bar dalle 18, quello era il protocollo in caso di sedizione. È chiaro che i carabinieri sono troppo ottusi, ma ci sarà sempre qualcuno che farà la roba sbagliata. L’ho vista strana questa cosa, l’anno prossimo chissà quale sarà l’emergenza. Bisogna starci attenti, perché c’è in giro quella che sembra una “prova generale di controllo totale”.

Tu sei anarchico?
Mi sentivo così fino al 1984. In quell’anno sono andato al Meeting internazionale degli anarchici a Venezia e li ho mandati tutti a cagare. Sai perché? Una mattina mi sveglio su una panchina e vedo il “compagno anarchico” che porta in giro una scolaresca facendogli vedere le bellezze del festival. A un certo punto gli ho detto: “Parla per te, coglione!” E me ne sono andato. “Noi” e “anarchici” sono due parole che non si coniugano. Lo hanno capito bene gli spagnoli, che a ogni meeting si contrappongono tra possibilisti e oltranzisti e a un certo punto si menano. È l’unica cosa interessante di quegli incontri.

Qual è il tuo rapporto con le regole, visto che viviamo in un periodo di disposizioni molto restrittive?
Sono fatte per essere infrante! Chiaro che le rispetto, io pochissimo, cerco di passare tra le maglie, se posso. Sono fortunato di vivere in un Paese in cui l’anarchia di comodo paga. In Svizzera o negli Stati Uniti sarei già in galera da un pezzo. Ma le regole etiche non vanno mai infrante.

Un po’ come la bestemmia, che mi sembra faccia parte dei tuoi “rafforzativi” per esprimere un concetto. In un’intervista lo scrittore Massimo Fini ha raccontato: “In piscina, dei ragazzini mi avevano rubato il costume dall’armadietto, che avevo lasciato aperto. Ridatemelo, dicevo. E loro niente. Ridatemelo, e loro sghignazzavano. Ridatemelo porco d..! E me l’hanno ridato”. Usi questa imprecazione nello stesso modo?
La bestemmia è sempre utile. Bestemmio per principio. Sono obbligato ad ascoltare un sacco di discorsi violenti di anti-abortisti, anti-divorzisti, gente contro l’eutanasia che spesso hanno una matrice cattolica e per me quelle sono bestemmie. L’unico modo per farli sentire offesi come mi sento io è bestemmiare. Si chiama rappresaglia. Ma non dico dieci bestemmie per ogni cosa di quel tipo che sento in giro.

Un po’ come le testate al microfono che sferri durante i concerti?
È uno sfogo bellissimo. Da piccolo, quando ero incazzato, davo le testate sul muro. Infatti mi sono incrinato qualche vertebra e soffro ancora di cervicale, ma ho una fronte che se ti do una testata ti ammazzo. Ci sono due-tre punti nel concerto dove so che ci sta bene una testata ed è liberatorio, appunto come una bestemmia.

Come ti approcci alla religione?
Non me ne voglia chi è religioso, ma credo sia la più grande delle superstizioni. Se hai un amico immaginario e lo vedi solo tu non sei normale, se invece lo vedete in tanti si chiama religione.

Quindi non temi il tempo che passa?
Credo che tutti lascino traccia in questo mondo. In fondo di questo si tratta: lasciare tracce in giro. C’è chi fa figli per lasciare una traccia, o anche per avere un sottoposto perché è sempre stato sottomesso, ed è l’atteggiamento della maggior parte delle persone. Secondo me tutti vogliono lasciare un ricordo, chi scrivendo “viva la figa” sul muro, chi facendo canzoni, chi realizzando libri o quadri. Una traccia credo di averla già lasciata. I CD hanno mille anni di smaltimento, per cui con tutti quelli che ho messo in giro saranno cavoli vostri cercare di farli fuori.

Se potessi decidere, come vorresti morire?
Io sono immortale, prima di tutto. Ne sono quasi convinto, poi magari qualcuno mi smentirà. Comunque, se dovesse succedere vorrei morire volando. Dai 20 ai 30 anni sognavo tutte le notti di volare. Era fighissimo! Alla fine, mi ero quasi convinto di saperlo fare. Forse basta concentrarsi tanto e inizi a levitare. Però se proprio deve accadere, precipitando da 400 metri. Vicino a Correggio c’è la Pietra di Bismantova (montagna caratteristica dell’Appennino reggiano, ndr), un bel salto da fare. In caso di depressione totale credo che farei l’ultimo sbattimento di salire fin lassù a piedi. Come nella canzone Precipito, ma senza parapendio.

Iscriviti