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Eddie & Sunny

Dal 24 Marzo al cinema

Eddie & Sunny
Dal 24 Marzo al cinema

di Boris Sollazzo

Desmond Devenish: «Vi presento ‘Eddie & Sunny’, l’America che non conoscete»

Attore, scrittore, regista, sceneggiatore, ha voluto raccontare una storia dura e potente di amore e riscatto, di dolore e rinascita, disperata e di speranza. E lo ha fatto con l’Italia

La storia degli innamoratissimi e incoscienti Bonnie & Clyde homeless di questa società bastarda, Eddie & Sunny (nelle sale dal 24 marzo), in fuga da una (quasi) legittima difesa che li ha portati a uccidere due criminali affiliati a un cartello della droga, nasce dove finisce. Con le immagini di un film documentario a cui l’autore del libro omonimo accede perché coinvolto nel progetto, nelle riprese. Talmente tanto, a un certo punto, da doverne scrivere. Stacey Cochran guardando quella realtà, quell’America profonda, precaria, senza casa, quella comunità dolente, ne scrive un libro, un romanzo, profondamente reale e tragico ma anche pieno di speranza. Dopo essere passato dalle sue pagine è diventato di nuovo un film, questa volta di finzione, grazie alla Iervolino & Lady Bacardi Entertainment e al talento di Desmond Devenish, regista californiano che nei suoi film ha fatto tutto (anche l’attore) e che dalla Spagna ci spiega perché questo ha una storia speciale. E perché lo è anche l’Italia.

Come nasce Eddie & Sunny?

Quando convivi così tanto con una storia, diventa fondamentale per te, e me ne sono reso conto quando ho incontrato lo scrittore Stacey Cochran in Arizona, a un festival dove avevo portato il mio film precedente, Misfortune. Si è avvicinato a me, aveva amato il mio lungometraggio, e con un impeto generoso mi ha detto che voleva condividere con me una storia. E ha cominciato a raccontarmela. Morale della favola, dopo che l’ha fatto ho letto il suo libro. L’ho divorato in due riprese, e ha avuto un impatto fortissimo su di me. Innanzitutto, parla benissimo del ruolo sociale, emotivo della famiglia, la sua è una riflessione strutturale soprattutto sui nuclei famigliari americani. E su un certo tipo di disagio, perché negli Stati Uniti e in particolare a Los Angeles ci sono molti, troppi senzatetto, e lui si concentra su questa realtà. In più, qua si parla di giovani coppie, di generazioni che dovrebbero guardare al futuro e invece sono ancorate a un presente durissimo. Ecco, per tutti questi motivi questo film è diventato importantissimo per me.

Hai capito subito che ne avresti fatto un film?

Ho ancora forte il ricordo di quando leggevo il libro e mi rendevo conto in tempo reale quanto scene, personaggi, dinamiche, ritmi fossero cinematografici. Io ho fatto del mio meglio per dare vita a tutto questo, per dargli profondità, forza. Dovendo per forza adattare e comprimere tutto questo materiale, e bilanciando azione e dramma, senza perdere la potenza narrativa del racconto originario.

Per raccontare così bene gli homeless come hai fatto? Sei andato in mezzo a loro, li hai intervistati?

Sono sincero, non ho avuto bisogno di andare sul campo a sentire quella realtà, a viverla, per poi restituirla. Stacey ha scritto un’opera così bella anche perché ci è entrato dentro, l’ha attraversata, si è documentato come professore e come uomo ha voluto incontrare i senzatetto, ascoltare le loro storie, provare a restituire loro una visibilità che non hanno mai avuto, perché la società preferisce ignorarli e loro spesso preferiscono nascondersi. Il personaggio di Sunny so che esiste, che ha gravitato attorno a lui, dove insegnava, quindi quello che avevo tra le mani era più di un racconto: erano pezzi di vita profondamente reali. E poi a me interessava andare oltre la realtà, tener dentro alle immagini il dolore ma anche la speranza, lo shock ma anche la gioia di vivere. Quelle cose che tengono vivi tutti noi e che sanno dare una scossa a chi guarda. Vediamo tanti film tragici, che ci lasciano cupi verso il futuro, ma qui la speranza è ostinata, anche nei momenti peggiori. E credo che renda Eddie & Sunny diverso. Cosa saremmo senza la speranza?

Come hai trovato Gabriel Luna e Joanna Vanderham, i due protagonisti? Hanno un’alchimia bella e inquietante.

Bella definizione. Il casting è stato un processo molto interessante, ci concentravamo su Eddie e Sunny alternativamente, tornavamo dall’uno e dall’altra, perché l’uno non poteva prescindere dall’altra, l’uno definiva l’altra. Quando è arrivato Gabriel qualcosa è cambiato, è stato enormemente stimolante averlo con noi. Io avevo già immaginato il personaggio, ma lui è arrivato e lo ha preso e modellato, facendolo crescere, divenire tridimensionale. Gabriel ha portato molto di suo, ad esempio il suo senso di lealtà nei confronti della famiglia. Poi è arrivata Joanna e lei, be’, l’hai vista, ha un carisma, un fascino, una forza naturale. E l’elettricità tra di loro è stata immediata. È meraviglioso, perché dopo anni che ci pensi, con il casting arrivano questi estranei che cercano di dar forma ai tuoi pensieri. E questi incontri ti servono a definire il tuo pensiero, a capire meglio le tue scelte, le tue visioni, a sapere perfettamente quello che vuoi. Così, quando ti compaiono davanti agli occhi quelli giusti, li riconosci subito e finalmente incontri i personaggi che hai tanto cercato. E ti ritrovi all’improvviso in una relazione con uomini e donne che fino a un attimo prima, ti rendi conto solo lì, non conoscevi davvero, ti limitavi a immaginare. E questa cosa è un grande shock, a modo suo, ma anche un’enorme ricompensa allo stesso tempo.

Eddie & Sunny

La loro interazione è affascinante, perché rovesciano gli stereotipi di genere classicamente hollywoodiani. Lui dolce e paterno, lei muscolare e più ruvida.

Sono sincero, sono riluttante a mettermi in un discorso in cui si parla di gender qualifications, anche se ho capito cosa vuoi dire. E in effetti Sunny ha tante qualità che un tempo avremmo definito virili, e questo la rende affascinante. Il punto è che la loro è una sorta di lotta tra due anime contrastanti ma unite, che si contaminano. E che devono prendere decisioni per salvare la famiglia. Il senso qui non sta nei singoli, ma nella coppia, nella famiglia, non ha senso giudicarli separati. Sunny è la più instabile, ma anche quella che sa forse cavarsela meglio per strada. Eddie ha valori forti, un senso della paternità potente, e in effetti a volte potresti avere la tentazione di aspettarti da loro comportamenti opposti. Ma poi hanno una bussola morale simile, che li aiuta, nei problemi e nelle tentazioni, a scegliere la strada giusta. Per sopravvivere. Ognuno ha le sue qualità: sono una coppia, appunto.

L’Italia, con la produzione della Iervolino & Lady Bacardi Entertainment, ha avuto un ruolo fondamentale in questo film. Ci racconti come è andata?

Era una situazione interessante per me, perché inizialmente, quando ho cominciato a studiare l’ambiente raccontato nel film, sono partito dal Sud degli Stati Uniti. Da subito ho potuto contare sull’aiuto di Silvio Muraglia: ha contribuito in così tanti modi al film (dalla produzione alla sceneggiatura, nda), è un fenomeno, un professionista geniale con una visione potente delle cose. Ricordo quando ci hanno detto che avremmo girato questo film in Belize, e sinceramente ero basito, ma poi è stato bellissimo e si è creato qualcosa di speciale, non so se per la magia del set o cos’altro. Ma ammetto che all’inizio portare l’America in Belize mi sembrava folle. E poi l’Italia, girare a Roma e fuori Roma, e ancora il Guatemala. A Roma ero terrorizzato dai cartelli stradali! Erano in italiano, e poi la natura mi sembrava lontana dagli Stati Uniti, mi chiedevo come avremmo fatto. Ma con lo straordinario scouting delle location fatto, anche io ora stenterei a credere al giro del mondo che abbiamo fatto. Penso al parcheggio dei caravan, un campeggio a Ostia divenuto USA grazie al lavoro scenografico perfetto di Viviana Panfili. E quest’esperienza di ricerca dei luoghi è stata troppo importante, anche per impostare il look, l’estetica del film, una cosa per me fondamentale. Girare in questi posti è stato fantastico anche per questo. E poi se trovi un posto vergine cinematograficamente, mai visto e non facilmente riconoscibile, e puoi riprenderlo e dargli una vita, è emozionante. Per te che giri ma anche per lo spettatore che si trova davanti a qualcosa di completamente diverso. Sono stato molto fortunato, anche per la crew che mi ha affiancato, consigliato, sostenuto, guidato in questo viaggio. Si sentiva sempre la passione per ciò che facevano, e ci capivamo profondamente: amo la sensibilità europea, l’attitudine italiana. E poi nelle maestranze sentivi l’esperienza e la passione, il cinema è dentro di loro: confrontarmi con il loro sguardo, con l’occhio di tutti gli italiani sul set e nel cast tecnico, è stato uno degli arricchimenti più grandi di questo percorso. Avete il cinema dentro, addosso. Per nessuno di loro il film era solo un lavoro, tutti erano profondamente coinvolti in quello che facevano, è stato davvero un privilegio poter camminare insieme. Meraviglioso.

Ti sei chiesto come mai negli ultimi anni finalmente il cinema americano accende i riflettori sugli invisibili?

Penso che dopo anni di visione edulcorata, nella working class, nell’America profonda abbiamo trovato la natura genuina di un Paese che pensavamo di conoscere meglio e che stiamo riscoprendo nel bene e soprattutto nel male solo ora. Penso che, quando guardi al sistema di valori americano nella sua essenzialità, la cosa che emerge in maniera netta è che gli americani prima di tutto vogliono stare al sicuro, vivere al riparo dai pericoli. A tutti i costi. In realtà, però, questo va totalmente contro all’American Dream, un sogno di apertura fondato sul coraggio di andare oltre, di arrivare alle vette più alte, di viaggiare verso la frontiera, e quindi anche di rischiare l’abisso e il baratro molto facilmente. C’è una parte d’America sconosciuta e prevalente che è la piccola e media borghesia di colletti blu, che vogliono una vita semplice. Senza grilli per la testa. Tutti questi sono fuori dallo stereotipo che l’America ha voluto veicolare, dall’immagine di sé che ha offerto dentro e fuori dai suoi confini, e così questa maggioranza silenziosa a lungo non ha avuto chi la rappresentasse davvero. Anche al cinema. Il loro essere senza grandi pretese non è glamour. Ma è profondamente onesto. Come i film che li raccontano negli ultimi anni, pieni di verità.

Eddie & Sunny

Il viaggio di Eddie e Sunny ha anche qualcosa di cristologico. Lui non è il padre del figlio che portano con sé, sono una famiglia in fuga senza una casa.

E nel libro lei era incinta! Scherzi a parte, non lo so. Posso dirti però che il primo personaggio che mi ha affascinato è stato Eddie. Lui che potrebbe fuggire in qualsiasi momento e invece rimane. Lei non è sua moglie, lui non è suo figlio. Ma quest’uomo sente che è la cosa giusta da fare. Lui ha una scelta, in una situazione e in una famiglia che non ne ha molte. E che ne ha avute pochissime in passato. Ma lui ha un senso della famiglia e dell’onore mai banali.

Parlavi dell’estetica del film. Hai fatto molte scelte coraggiose di regia. Ci racconti il tipo di lavoro che hai fatto, le tue ispirazioni?

Intanto vorrei sottolineare che per me lavorare con Simone Mogliè, il direttore della fotografia, è stato un privilegio, mi sono ispirato a molto cinema italiano, dal neorealismo a Pier Paolo Pasolini. Io amo che i film non siano glamour, o meglio che non cerchino di esserlo, ma che abbiano un approccio schietto, duro con lo spettatore. Non devi stilizzare la realtà, mi piace centellinare il mio sguardo, il mio stile, non imporlo. Per me è importante che l’action sia vero, in troppi film vedi che l’azione è schematica, coreografata, innaturale. Quelle cose hanno un posto preciso nel cinema, e in alcuni casi vanno bene, adoro Michael Bay. Ma io volevo qualcosa di più ruvido, reale, che senti addosso, come le scene di notte iniziali, che ti portano dentro il punto di vista dei protagonisti. E poi il primo momento action, quando loro si ritrovano di fronte i due sgherri del cartello della droga: volevo che la scena fosse caotica, disordinata, come nella realtà. Per questo l’abbiamo ripresa da più punti di vista. Infine, era importante che molte delle scene si svolgessero in auto. Perché volevo si sentisse una claustrofobia vivida, quel veicolo è il centro delle vite di questi tre.

E ora cosa ti aspetta?

Un progetto a cui teniamo tanto. Si chiama Iguana Song e sarei felicissimo di poterlo fare, è leggermente più politico di questo, ha bellissimi personaggi. Sarebbe bello girarlo in Italia. Girerei lì i miei prossimi dieci film! Girare da voi e con voi è entusiasmante. Anzi, lasciamelo dire: è romantico.

di Francesca D'Angelo

Gabriel Luna, l’umanità prima di tutto

Dopo ruoli in blockbuster cine-televisivi come ‘Terminator – Destino oscuro’ e ‘Agents of S.H.I.E.L.D.’, in ‘Eddie & Sunny’ si confronta con la storia di un senzatetto che parla delle urgenze di oggi. «Faccio questo mestiere per accendere i riflettori sui dimenticati»

«Avevo bisogno di interpretare una persona comune, con problemi comuni. Insomma, un uomo che fosse drammaticamente umano». E così Gabriel Luna, aka Ghost Rider nella serie Agents of S.H.I.E.L.D. (ma pure l’indimenticato cyborg Rev-9 in Terminator – Destino oscuro), è passato dalla mezza quintalata di supervillain, supereroi e bad guy sparsi al toccante ruolo da protagonista di Eddie & Sunny. Il film, nelle sale dal 24 marzo, è una storia che unisce poesia e thriller, cristallizzata nello sguardo di un padre che non si arrende. Il tizio in questione è per l’appunto l’Eddie del titolo, interpretato da Gabriel: un senzatetto che vive in un’automobile insieme alla sua famiglia improvvisata. La sua è una scelta di vita estrema, dettata in parte dall’amore per la compagna Sunny, in parte da cause di forza maggiore. Con loro c’è anche il piccolo Jackson Cody (Lorenzo McGovern Zaini), il figlio biologico di Sunny che Eddie considera comunque sangue del proprio sangue. Ovviamente, da una premessa così, le cose non possono che andare male. Eppure, senza fare spoiler, possiamo dirvi che a prevalere è il sogno di un padre che promette al figlio di comprare una barca grande, per vivere di pesca e felicità, nel “blu infinito”. È quello che, fin dal minuto due, ti resta in testa: l’orizzonte “blu infinito” del mare. Non la droga, l’alcol o i crimini, ma il loro sogno di famiglia disperata. E finisci per crederci pure tu, fino alla fine. Contro tutto e tutti. Il film, prodotto dalla Iervolino & Lady Bacardi Entertainment, si ispira all’omonimo bestseller di Stacey Cochran, ed è stato girato anche in Italia.

Non mi stupisce che tu abbia accettato subito la parte.

Come ti dicevo, ero reduce da una serie di ruoli molto action, anche da supervillain, e desideravo cimentarmi con un personaggio diverso, che fosse sfidante a livello umano. Eddie è un padre che ha perso tutto nella sua vita, che fatica a vedere la luce in fondo al tunnel dei propri guai, eppure promette il mondo intero alla sua famiglia. E lotta per quel sogno. È stato davvero interessante approcciarsi alla figura di un padre che ama così profondamente il figlio, anche se non è biologicamente il suo.

Sai cosa pensavo guardando il film?

No, dimmi.

Moltissime pellicole affrontano il tema – giustissimo – dei rifugiati, degli immigrati o dei carcerati, mentre pochissime storie si occupano dei senzatetto. E dire che è una realtà diffusa: in qualsiasi posto del pianeta ci imbattiamo in clochard, ma è come se non ci interessasse. Perché, secondo te?

Hai proprio centrato il punto, sai? Tra le ragioni per cui faccio questo mestiere c’è proprio il desiderio di accendere i riflettori sulle persone dimenticate, di suscitare l’interesse verso i problemi reali del mondo. La questione dei senzatetto è assurda, a maggior ragione per me che vivo in America: è incredibile pensare che, in un Paese dove la maggior parte della popolazione è abbiente, non ci prendiamo cura dei nostri fratelli e sorelle senza casa, che vivono gettati per strada. Ti faccio un esempio. Qui a Los Angeles c’è un quartiere chiamato Silver Lake, nel cui parco è stata allestita una tendopoli. Puntualmente viene sgomberata dalle forze dell’ordine, ma capisci bene che la soluzione non può essere questa, ossia mandare tutti via. Tra l’altro buttarli fuori dalla loro tendopoli, che per loro rappresenta l’unico posto sicuro, vuol dire spingerli a commettere crimini perché, a quel punto, sarà la loro unica arma per sopravvivere. Servirebbero soluzioni sistematiche. Poi, ovvio, è complesso, perché si tratta di affrontare diversi problemi: il costo della vita è caro, gli stipendi sono bassi, curarsi è un investimento che non tutti possono permettersi… Servono soluzioni radicali e su più fronti.

Quanto la pandemia ha peggiorato le cose?

Molto. Forse non ce ne rendiamo conto, e questo vale soprattutto se si ha una rete famigliare alle spalle, ma è alto il numero di persone che, in seguito alla perdita del proprio lavoro, sono diventate dei vagabondi. Io, per esempio, sono venuto a conoscenza della storia di un insegnante delle medie che, dopo aver perso il lavoro, non sapeva come pagare l’affitto. Ha chiesto quindi a un amico di poter dormire da lui, sul divano, e così è stato per qualche giorno, ma poi non è più potuto restare. Ha cambiato una serie di posti, ma di fatto era senza fissa dimora: nel giro di due anni è passato dall’avere un lavoro stabile alla strada… Purtroppo la sua storia non è così rara come ci piacerebbe credere.

A proposito di pandemia. Dopo due anni di Covid, ci ritroviamo nel bel mezzo di una potenziale terza guerra mondiale. Secondo te quale sarà il prossimo step?

In che senso?

Eddie & Sunny

Voglio dire: sei più incline a pensare che in un futuro prossimo arriveranno gli alieni o che le macchine si ribelleranno?

Ah, guarda! Dopo gli ultimi tre anni che abbiamo passato, direi che può succedere di tutto. Per questo mi sono promesso di concentrarmi solo ed esclusivamente sul presente.

Insisto. Scegli: alieni o macchine?

Ok, allora dico macchine.

Perché speri di avere un vantaggio?

Diciamo che, nel caso, chiamiamo il mio amico Schwarzenegger e nessuno si farà male, ok? (ride, nda) Comunque effettivamente la tecnologia sta facendo passi da gigante. I robot stanno già sostituendo l’uomo, per esempio nei processi di manutenzione o nelle fabbriche, creando peraltro disoccupazione. Ho poi visto recentemente girare per strada dei piccoli robot: li usano per le consegne, al posto dei rider. Credo siano dotati di sensori che permettano loro di orientarsi nel traffico. Tuttavia, più che la presa di coscienza delle macchine, il mio terrore è che si scada in un uso errato della tecnologia, che la si utilizzi per sorvegliarci o addirittura come deterrente violento.

Putin avrebbe di certo qualcosa da dire a riguardo… Cosa pensi della guerra che si sta consumando in Ucraina?

La guerra è sempre terribile e senza senso. Sempre. Non ci sono eccezioni a riguardo. Ho ascoltato testimonianze di soldati russi che non vorrebbero essere lì, in Ucraina, così come ho visto video di cittadini che protestano contro le scelte di Putin. Come purtroppo spesso accade, la volontà del popolo non è in linea con quella politica… Personalmente, prego per il popolo ucraino. Non so come andrà a finire, ma sono convinto che la globalizzazione possa giocare a nostro vantaggio: siamo tutti interconnessi quindi possiamo davvero isolare economicamente la Russia, mettendola alle strette. Credo sia questa la strada da percorrere: non le bombe ma le sanzioni.

Un’ultima domanda. Cosa replichi ai registi che lamentano la crescente invasione dei cinecomic al cinema e in tv?

Rispondo che un film è un film. Nella mia carriera ho preso parte sia a grandi blockbuster che a piccoli film, e il processo è lo stesso. I titoli della Marvel vanno quindi rispettati e onorati in quanto film, perché è questo quello che sono, e non “altro” rispetto alle produzioni classiche o autoriali. Poi, certo, cambia l’ordine di grandezza: su un film Marvel o su una serie HBO, come quella che sto girando adesso (The Last of Us, dal creatore di Chernobyl Craig Mazin, nda), puoi trovare una crew di 500 o addirittura 900 persone tra trucco, parrucco, effetti visivi… Ma la dedizione e la professionalità sono sempre le stesse. Ed è questo in fondo che rende il cinema… cinema.

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