Manuel Agnelli: «Il prossimo anno a X Factor? Non lo so. Ho voglia di tornare alla mia musica» | Rolling Stone Italia
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Manuel Agnelli: «Il prossimo anno a X Factor? Non lo so. Ho voglia di tornare alla mia musica»

Dopo la fine dell’ultima edizione del talent show e l’uscita di ‘Diabolik’, che vede due suoi brani da solista in colonna sonora, incontriamo a Roma il leader degli Afterhours. Un pranzo in cui Sua Maestà si racconta senza filtri. Come al solito, più del solito

Manuel Agnelli: «Il prossimo anno a X Factor? Non lo so. Ho voglia di tornare alla mia musica»

Manuel Agnelli

Foto: Stefania D'Alessandro/Getty Images

Casadante, Roma (buono il filetto, bravi). Siamo dietro l’Esquilino, il locale è un po’ dark, quando Manuel Agnelli entra cambia la vibrazione dell’aria. Se giri con lui te ne accorgi subito, attorno a quella figura un po’ tamarra e un po’ mistica c’è sempre un misto di timore reverenziale misto a un “che cazzo vuoi”. Poi sorride, fa una battuta, e chiunque si sente a casa. Un misto di pericolo e complicità che è poi, probabilmente, la definizione migliore del suo rock senza rete. Pranziamo insieme e quello che ti colpisce di Manuel è che non svicola mai, non dribbla la domanda, risponde sempre. E che ti costringe sempre a tenere alto il livello. Si parla di tutto, ci si diverte parecchio. Da fan ero andato lì con il libro che avevo scritto su Maradona per regalarglielo e come solo altre cinque volte nella mia vita (Éric Cantona, Francis Ford Coppola, Bruce Springsteen, John Landis e Steven Spielberg) volevo una foto con lui. Venti minuti dopo esserci salutati mi sono reso conto di non aver fatto nessuna delle due cose. Ecco, è raro perdere il controllo del proprio lavoro e andare altrove, con Agnelli è l’unico modo di stare in partita. Lancia bombe, racconta molte cose, rivendica, si incazza e ha momenti di tenerezza: in quasi tre ore si respira il necessario e si parla tanto, dagli Afterhours a X Factor, dalla voglia di recitare al suo voler “rompere i coglioni”. E capisci perché chiamarlo Sua Maestà non è un’esagerazione, ma un dato di fatto. La profondità degli abissi (il titolo del brano che è dentro Diabolik, l’altro è Pam Pum Pam) a lui non fa paura, ci si tuffa curioso. Come in fondo dovrebbero fare tutti gli artisti, gli intellettuali, i ribelli. Ma a naso in Italia a essere tutte e tre le cose c’è solo lui.

Cominciamo dalla fine. Confessa, eri emozionato a X Factor quando hai cantato il tuo primo pezzo da solista.
No, non ero emozionato, è che dovevo imparare a cantarla, La profondità degli abissi. Era la prima volta che la facevo in pubblico. In studio naturalmente è più facile e poi, per via della pandemia, l’ho dovuta abbandonare per più di un anno per poi recuperarla ora, in piena gara, in piena azione, e mi son trovato abbastanza spiazzato. Sembra un pezzo facile, ma non lo è. Con i suoi salti di ottava, le sue strofe basse, va domata e io forse ho sottovalutato la situazione. Quindi sì, confesso, ma non era emozione, al massimo ruggine: non è la prima volta che mi capita, mi accadde pure a Sanremo 2009, a X Factor tre anni fa con Bianca. Eppure ho fatto altre cose, pure più emotivamente potenti, come l’ultimo Festival insieme ai Måneskin o il duetto con Daniele Silvestri in Argento vivo, in cui la mia parte era molto complessa e impegnativa ed è andata alla grande. Mi piace che succeda, che ci sia quel momento di difficoltà, che arrivi senza preavviso, che ci sia questo rischio, ancora dopo 35 anni. Quando salgo sul palco non provo emozione ma questa tensione, forte, sì. Spero non se ne vada mai perché se ogni tanto la pago, la maggior parte delle volte mi dà tanta benzina.

Il Covid ha cambiato molto il rapporto di tutti noi con la musica. Vale anche per te?
Tutto è cambiato, a partire dallo stare in mezzo alla gente alla mia maniera. Le regole son diventate altre, ma credo che quella roba, come effetto secondario, mi abbia fatto tornare la voglia di andare in tour, di sbattermi in giro, di salire in macchina e farmi un sacco di chilometri, quelle cose che a un certo punto ho finito per dare per scontate. Cose elementari, come la voglia di fermarmi a parlare con le persone: dopo tantissime date in una carriera, la routine è dietro l’angolo. Quando lo dico la gente pensa che io sia viziato, ma io dico solo la verità e la verità è che cantare 300 volte la stessa canzone è difficile, diventi un burattino, stai facendo una cosa per un altro, non per te stesso. E allora di questa pandemia che ci ha sconvolto un lato positivo possiamo trovarlo, ed è che il Covid ci ha riportato la passione e la voglia di fare le cose che amiamo. A me ha portato una voglia enorme di cantare le mie canzoni in giro. Non che io sia l’unico, credo stia succedendo a tutti quanti, ma per me è qualcosa di speciale.

La sensazione è che per te ripartire sia una condizione dell’anima. Quello che fai non ti basta mai e vuoi sempre andare oltre. Quando potresti sentirti arrivato, ricominci. Perché?
Sono un eterno insoddisfatto e non è una questione di bassa autostima, ho un’alta considerazione di me. Ma è per quella voglia di fare sempre meglio che ogni volta ho bisogno di ricominciare, di non sedermi mai su quello che ho fatto, perché non ne sono mai contento e non lo sono di me. Penso sempre di poter fare le cose diversamente e meglio, e c’è pure un’altra cosa: mi annoio molto facilmente. Sono una persona che ha gusti molto più vari, molto più ampi di quanto non possa sembrare dalla musica che faccio. Ho scelto una direzione che forse era quella che pensavo di fare meglio e che mi dava più energia, ma a me piace sentire e fare tantissime cose, che urlano nella mia testa e che vogliono uscire e mi dicono “Fai questo, fai quello!”. E spero di avere il tempo di farle tutte. Se si ha la possibilità di fare tv, cinema, musica di ogni tipo, perché non approfittarne?

Momento. Cinema? Reciterai?
Sì, in realtà l’ho già fatto e mi è pure piaciuto parecchio. Ho recitato in una serie western che uscirà l’anno prossimo – i tempi del cinema sono incredibili! Fai una cosa e la vedi realizzata un anno e mezzo dopo – ed è pure in inglese. Interpreto un gentiluomo del Sud degli Stati Uniti, della Louisiana, che è andato in quel posto perché lui e il suo socio hanno trovato un affioramento di petrolio. E così abbiam piantato una trivella, che vogliono tutti: vogliono comprarcela oppure ammazzarci per prenderla. È una produzione internazionale con Sky di mezzo e Francesca Comencini come regista delle prime tre puntate, si chiamerà Django. Dentro ci sono attori internazionali, americani e inglesi soprattutto. E Noomi Rapace come protagonista femminile, un’esperienza nuova e pazzesca che ho voglia di rifare. Messo nella giusta collocazione ovviamente, non è che pretendo di fare chissà che cosa, però è tutto connesso, non è che mi sono messo a fare il giardiniere o il giocatore di basket.

Non son mica d’accordo sul fatto che hai fatto “la musica che sapevo fare meglio”. A me sei sempre sembrato uno ostinatamente fedele a sé stesso e alla ricerca di cose nuove per questo.
Fedele a me stesso mi piace. Io non sono mai stato– anzi quelli che lo sono mi stanno sulle palle – uno fedele alla linea, come tutti vorrebbero vedermi o mi rimproverano di non essere stato. Ho sempre avuto le idee molto chiare sul fatto che avrei sempre e solo dovuto fare quello che sentivo giusto per me. Non meglio per me, ma giusto. E quando ho cominciato ad avere i Canadair di letame addosso, come a Sanremo nel 2009, quando mi si sono aperti in testa facendomi piovere addosso una pioggia di critiche, soprattutto interne, dal mio pubblico, la mia reazione è stata semplice, lineare: “O vi fidate, o levatevi dai coglioni”. Non faccio cose per avere approvazione, è il male del nostro secolo l’ossessione del consenso, tutti lo cercano, anche e soprattutto nell’arte, dove c’è la corsa al sensazionalismo che porta alla visibilità. Una versione minore e squallida del consenso. Abbiamo perso completamente il senso, il gusto dell’essere divisivi. A me piace esserlo, mi piace che alcuni mi seguano e mi amino e altri mi odino. Mi piace tanto creare odio per quello che dico e faccio, creare discussione e conflitto.

Citando Guccini, “spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato”.
Io ho cominciato a fare musica per rompere i coglioni, poi la cosa è cambiata radicalmente, è da ipocriti pensare di riuscirci quando il tuo pubblico diventa enorme, ma mi è sempre rimasto il pallino di fare cose impopolari, di non essere etichettabile, magari di diventare pop in alcune situazioni, più leggibile in altre, nazional popolare a X Factor.

Ricordo la tempesta scatenata da quella scelta e il sorriso sornione, proprio qui a Rolling, con cui hai affrontato le critiche, sapendo che avresti fatto ricredere tutti. Che tu avresti cambiato X Factor e non il contrario.
Penso molto semplicemente che non sono in grado di fare altrimenti. Rimanere me stesso è il mio limite, non so fare altro: in tv, in questo talent, è diventato un vantaggio. Non sono più intelligente o ho più talento nel recitare di altri, ho solo quest’incapacità di tradire ciò e chi sono. Avevo paura di X Factor dopo averlo accettato? Certo, fosse solo per le valangate di merda arrivatemi addosso dai miei amati fan, e perché era un mondo che non conoscevo e che sapevo non essere facile. Per l’ennesima volta mi dicevano che ero un venduto, ma io ero sicuro di sapermi e potermi ritagliare uno spazio anche se lì dentro non c’era. Sai perché? Perché è quello che faccio da tutta la vita: facendo dischi da solo, andando a suonare in locali improbabili musica improbabile per questo paese, immaginando una carriera dove nessuno la vedeva con un genere che nessuno pensava potesse vendere e ora siamo qui a scoprire che è durata 35 anni e non accenna a finire. Sono abituato a essere contro veramente, non dal divano con un esercito di affiliati dietro, ma contro tutti, anche contro il tuo pubblico quando è necessario. C’è stato un periodo che questa mia indole era talmente tanto passata che chi amava me e la mia musica mi criticava solo per sentirsi come me. Meccanismi malati ma stimolanti, tutta roba che ti fa crescere molto. Alla prima della Scala, altra cosa per cui sono stato criticatissimo, ho visto il Macbeth di Verdi. E Shakespeare fa dire a Macbeth alla fine: “Cos’è la Storia se non un gruppo di idioti che si agitano per niente?”. Togli la Storia, metti il rock, l’alternative italiano, e mi sa che è una gran verità. Ovviamente è una provocazione, ma chi sono io per dare torto a William?

Si può fare un bilancio di quest’esperienza a X Factor?
X Factor per molti versi per me è stato davvero tanto liberatorio, mi ha tolto da un ambiente che stava marcendo, soffocato dalle sue stesse leggi e dogmi. E pensare che io mi ero unito a quell’ambiente perché non c’erano le prime e non volevo avere i secondi, ho sempre odiato gli obblighi. Ora invece l’alternative italiano, e non solo, è diventato un posto asfittico e asfissiante. X Factor è stato un bel vaffanculo a tutto questo per me e allo stesso tempo sono cresciuto come professionista, ho imparato un sacco di cose, ho capito cos’è la tv, nel bene e nel male. È stata un’esperienza meravigliosa da fare a 50 anni, mi è cambiata la vita dopo mezzo secolo che stavo al mondo, non è mica facile. È stato vitale, è stato bello ed è stato una lezione a me e a tutti: si può fare, puoi cambiarti la vita, in ogni momento, non devi rimanere legato a ciò che gli altri pensano di te.

Insomma fedele alle proprie idee, non a quelle altrui o che, peggio, si sono fatti di te.
Esatto, perché allo stesso tempo ho sempre avuto molta difficoltà di fronte ai gruppi che saltavano di palo in frasca, una volta dediti all’elettronica, un’altra che si buttavano sul reggae per poi fare folk. Un progetto è un progetto per me, deve avere una sua personalità, una sua identità e gli After son sempre stati così: vari quanto vuoi ma con una matrice rock’n’roll molto precisa. Ho fatto tante cose, poi che costruiscono la mia identità personale, invece, ma che non finiscono sui giornali: due tour da tastierista con Damo Suzuki, ho suonato con Hugo Race e John Parish in Songs with Other Strangers (progetto clamoroso in cui artisti e performer si scambiano ruoli e strumenti in live totalmente anticonvenzionali, un trip musicale sopraffino, c’è anche un bel doc che lo racconta, nda), ho suonato il pianoforte in un trio di musica classica facendo l’opera 100 di Schubert. Queste cose non fanno click e quindi per la gente sono solo un tamarro rock’n’roll che rotea il microfono a torso nudo. Io sono anche quello e me ne vanto, però è logico che ho tante altre cose che voglio fare e dire, non solo professionalmente. Ho smesso di scrivere quando ho capito che poteva diventare un’altra parte professionale di me, non volevo contaminarla con le recensioni, con la parte lavorativa, con l’artigianato che ci devi mettere quando una cosa diventa un lavoro. Volevo che rimanesse una cosa viva, perché è già difficile a 55 anni portare un nuovo disco e dire “ti piace?”. A questa età è inaccettabile, io so cosa mi piace e voglio essere e non voglio sottopormi al tuo giudizio per avere approvazione, più invecchi e più è così. Per questo i vecchietti terribili piacciono tanto, perché dicono quello che pensano e non gliene frega un cazzo se non sei d’accordo.

Sei una specie di Clint Eastwood del rock.
Magari. Dico solo che sottoporre quello che faccio agli altri è diventato sempre più pesante. Per questo esce un disco ogni 5 anni, non perché sono figo. Così va e lo accetto anche perché sono un privilegiato, uno a cui è andata benissimo, uno che ha avuto un successo straordinario, incredibile, anche in termini numerici. Se penso a quando giocavo a pallavolo ad alti livelli e decisi di mollare tutto a 19 anni per inseguire il sogno del rock, ricordo solo che tutti mi davano del matto. “Ma come – mi dicevano – vinciamo tutto nel mondo nel volley e tu vai a suonare? Ma sei pazzo?”. E invece ho avuto ragione, ho avuto cose che mai avrei potuto neanche sognare senza la musica. E qui, in Italia peraltro, credo che neanche all’estero avremmo avuto tanto, anche se ci abbiamo pensato tanto ad andarci, l’ultima volta negli anni 2000. Avevamo un giro meraviglioso negli Stati Uniti, venivamo da 10 tour coast to coast, ma si trattava di ricominciare a fare rock lì, rock e basta, mentre rimanere in Italia voleva dire provare a continuare una battaglia, era altro, era contaminare il costume di un paese, di rimanere una voce forte, particolare, unica che diceva cose diverse e fastidiose. E sono tuttora convinto che fu una scelta giusta.

Forse ora i Måneskin lo devono anche a quella mancata partenza il successo, non solo all’averti avuto come giudice e mentore.
Può essere, è un modo di vederla e mi piace. Loro hanno un talento enorme, se avessi lavorato con un altro gruppo non sarei riuscito a fare quello che abbiamo combinato insieme noi. Loro sono unici, sono dei grandissimi comunicatori prima ancora che eccellenti musicisti, è questo che la gente non capisce. Credo però di avergli trasmesso, al momento giusto, un certo gusto non tanto per la trasgressione, che era già nel loro Dna, ma una legittimità nell’essere trasgressivi. Tutti mi dicevano a X Factor “devi parlarci con Damiano, è un po’ sfrontato, devi calmarlo questo ragazzo”. Ovvio che ci ho parlato: “Col cazzo che devi trattenerti” gli ho detto. E credo che questo li abbia spronati, come credo di potermi intestare di avergli indicato una certa direzione rock’n’roll. Loro potevano essere tantissime cose, sono contaminatissimi e continuano a esserlo ed è solo un bene. Ma lavorare su quell’identità rock, rafforzarla, ha fatto parte del lavoro mio e di Rodrigo D’Erasmo e ne sono felice. Certo se solo mi fossi fatto dare le royalties per aver scelto come cover Beggin’ ora avrei un castello (ride di gusto, nda), ma va benissimo così. Questo mi fa sentire orgoglioso, sento che ho avuto un ruolo finalmente produttivo, al di là di me stesso, un ruolo importante in qualcosa che sta invertendo il senso unico di un mercato italiano fatto e strutturato solo per importare il rock e non esportarlo, ora tante band nasceranno convinte di poter arrivare in tutto il mondo, e questo cambia tutto.

La stessa scommessa fatta con i Bengala Fire?
Sui Bengala mi sono fidato e affidato all’istinto. E funziona quasi sempre, come è vero il contrario. Quando non gli do ascolto e magari ci vado più cerebrale o peggio sento quello che dicono altri, le cose vanno male e mi tocca dire “te l’avevo detto”. Con loro ci ho parlato, oltre che ascoltarli suonare e ho capito che la loro bravura con gli strumenti, il fatto che suonassero bene, si accompagnava a una grande capacità e voglia di imparare e a tante potenzialità inespresse. D’altronde vengono dalla provincia, fino a pochi mesi fa gli unici input erano la rete e gli amici che dicevano loro che dovevano suonare come i Fontaines D.C. perché così si fa e tu devi fare quella roba lì perché sennò non ce l’hai fatta. Io ho solo capito che erano bravi e gli ho detto: “Ci siete riusciti, ora non dovete più compiacere i vostri amici, ora dovete diventare voi stessi”. E così naturalmente li ho portati a superare la cover band, il gruppo di genere: ho capito di avercela fatta quando hanno fatto il pezzo di e con Motta, dimostrando a tutti cosa possono essere, con un arrangiamento molto particolare che ha colpito l’autore stesso. E quello è il mio ruolo, non vincere una gara di merda che non capisco davvero a chi interessi, ma far crescere le persone in modo che possano fare questo lavoro. Che poi crescano lì dentro o dopo un anno o due come i Måneskin, che già eran cresciuti parecchio a X Factor – arrivarono secondi ed erano dati all’inizio a 1 a 18 dai bookmaker – poco importa. Ma è questo che mi rende più orgoglioso del lavoro fatto in questi anni. In loro ho visto la personalità, l’educazione musicale, la perizia tecnica, una grande volontà di diventare qualcos’altro, di uscire dalla scatola che si erano costruiti attorno. Lo so, è stata una scommessa ma sono contento di averla fatta. Diciamo che lo sono stati tutti: dei Mutonia mi piaceva il frontman sfrontato e con una bella voce, non per estensione ma per timbro, a me dell’acuto e del bel canto non me ne frega nulla. Devono crescere tanto, ma sono degli stoner che mi piacciono e la scommessa è stata averli presi dopo una Adele fatta meglio dell’originale. Là mi sono detto e ho detto loro: se riuscite a fare ‘sta roba qua potete fare anche tutto il resto. Guarda che ora abbiamo una gran bella generazione di musicisti: i Little Pieces of Marmalade, i Bengala, i Mutonia che peraltro coprono un arco bello grosso del rock (più hard rock i primi, più brit i secondi e desert rock i terzi). Certo chi non ascolta rock queste differenze non le sente. Cazzi loro. E poi Erio: tutti hanno visto che artista fosse, ma lui è un talento a sé, sapevo come sarebbe finita ma gli si doveva fare spazio, dargli la possibilità di cantare, di esprimersi. Mi dispiace solo che la sua parte più ruvida e rock non abbiamo fatto in tempo a mostrarla: purtroppo i pezzi devi sceglierli due settimane prima, quindi gli errori o le correzioni di rotta dettate dall’ultima puntata non puoi seguirle.

Insomma, hai scelto X Factor anche perché era arrivato il momento di restituire qualcosa?
No, mi sono conquistato tutto da solo. Pochi si ricordano che io sono padrone di me stesso. A chi mi dà del venduto, dell’accomodato, ricordo che decido tutto della mia vita, non ho obblighi con nessuno, non ho mai avuto un padrone che mi dicesse cosa dovevo fare ed è stata la ragione per cui ho fatto musica. Non per avere successo, fama, donne, soldi o per produrre chissà che cosa, ma per essere libero. E finora ci son riuscito. Però tutto questo che ho fatto per queste band è una briciolina di Storia di cui sono felice, che va oltre tutto. Certo mi sarei accontentato anche solo di me stesso, sia chiaro, nel senso che il mio progetto era fare la musica che volevo, liberamente e di viverci in modo da non dover chiedere niente a nessuno. E ci sono riuscito.

Da solo, ma Manuel Agnelli è allo stesso tempo individualità e fare squadra. Non a caso facevi a livelli alti uno sport di squadra e sei il leader della band più importante della musica italiana. Di tutta la squadra e di tutte le squadre, però da fuori sembra che per te Rodrigo D’Erasmo ricopra un posto speciale.
Mi ha salvato la vita, è uno esuberante, è tanto, è una presenza enorme. Lui è un musicista della madonna, una persona super intelligente, un grande organizzatore con doti diplomatiche pazzesche, è un grande lavoratore e mi fido di lui, perché è un talento immenso che non riesce a non mettere tutto sé stesso in quello che fa. Ed è arrivato in un periodo fondamentale per me, salvando la mia vita professionale in un momento in cui gli After erano diventati una mini-azienda con ruoli ormai stantii che stavano uccidendo la creatività e persino la voglia di godersi ciò che si era raggiunto, che avevamo e stavamo vivendo. Può succedere, le band sono dei gusci per ragazzini, non è roba da adulti, la band ti difende dal resto del mondo, ma per questo sono anche fragili. Questo è il motivo per cui a X Factor anche se le band non vincono mai se la vivono sempre meglio degli altri, c’è sempre una complicità che li protegge. Ma quando diventi adulto inizi a sapere cosa vuoi, come, perché, quando. Sei sicuro di come lo vuoi sentire e vivere e metterlo in discussione sempre dentro una band non è facile, diventa molto pesante. Ed era diventato così anche per noi. Quando è arrivato Rodrigo, è arrivato risoluto a togliermi un sacco di peso professionale e nel frattempo lavorava tanto musicalmente, e meravigliosamente. Questa è una roba che gli After avevano smesso di fare, non lavoravano più. Pretendevano, chiedevano ma non davano. Una cosa che rischiava di diventare decadente, se già non lo era diventata. Quando è arrivato lui è cambiata la prospettiva: poi lui è come me, siamo uomini da palco, grandi personalità, siamo due tigri. E sì siamo vanitosi entrambi. Che poi pure sta cazzata che l’artista deve essere umile, ma non scherziamo, è un’ipocrisia tutta italiana. L’artista è l’antitesi della persona umile, l’artista non deve esserlo, deve esprimere il proprio ego ai massimi livelli. L’artista umile non esiste, è una contraddizione in termini. So che per questo avere a che fare con me è difficile. E infatti ho a che fare con chi mi conosce bene e mi accetta per quello che sono. Se ti tieni in casa una tigre poi non ti puoi lamentare se ti morde, ti sbrana. Ho smesso di pensare di essere sbagliato nell’essere così mentre per anni chi era intorno a me ha cerca di convincermi che lo ero, per controllarmi. Tipico di questo paese. Noi che siamo due tigri non lo abbiamo mai fatto, non ci siamo mai controllati né abbiamo mai cercato di farlo. E glielo riconosco. Poi mi piace anche quella parte insondata e insondabile dei rapporti, non farsi troppe domande su chi sei, su chi siamo. Mi è successo anche con Paolo Mauri, che mi ha insegnato e difeso, anche e forse soprattutto da me stesso, perché io fossi libero. Con Giorgio Prette ho lavorato 25 anni, un matrimonio nel bene e nel male. Sono state tutte tappe importanti.

Ti stai vedendo Get Back, la docuserie di Peter Jackson sui Beatles, di’ la verità.
Get Back? Lo vedrò, ma ho un po’ paura, perché ho le mie idee radicate sui Beatles, su quel periodo – ho visto molti filmati di allora, soprattutto della lavorazione di Let It Be – e mi hanno anche formato come artista e come uomo. Temo di vederle sovvertite quelle idee, ma lo vedrò.

Tornando a X Factor. A un certo punto hai detto “è stato”. Licenza poetica oppure stai pensando a mollare?
Ripeto, è stato importante. Mi ha insegnato anche a usare la tv, non solo a farla. Che è la parte più divertente, mi ha cambiato la vita anche economicamente e lo dico senza ritegno, soprattutto perché con quei soldi ci ho fatto cose che reputo belle, i festival, Ossigeno (la trasmissione di Rai 3, clamorosa, nda), Germi, il mio locale centro culturale a Milano. E tutti noi abbiamo lavorato perché questa cosa ce la meritassimo. Può darsi anche che non prosegua però, ho tanta voglia di tornare a suonare e anche di lasciare un ambiente che le sue pareti ce le ha e a volte sono pure belle strette, che ha le sue regole ed è un’esperienza che credo di aver esplorato abbastanza. Mi ha dato tanto ma mi ha pure preso tanto e sinceramente mi piacerebbe tornare a suonare per il suonare, indipendentemente dall’algoritmo e le convenienze. Quindi a domanda diretta ti rispondo: non lo so. So che mi manca tanto tanto tanto la musica.

Sembri stanco.
Ci metto tutto dentro quando lo faccio, lavoro come un matto e anche questo non è facile sostenerlo, lo faccio per essere onesto con il ruolo che ho lì e con i musicisti con cui condivido il mio percorso lì dentro. Per me è onere e onore quel ruolo ed è vero che è rimasto solo X Factor come sbocco per molti o quasi tutti e quindi la responsabilità aumenta.

Erio me lo ha proprio detto, “senza X Factor avrei smesso”.
Sì, è così, ma non può essere un ricatto per tenermi lì, come se io fossi indispensabile al mondo musicale italiano e che se me ne andassi succederebbe chissà che cosa. Io devo e voglio fare solo ciò che è giusto per me, indipendentemente da ciò che è necessario o meno. Parliamoci chiaro, il mio ruolo è ingigantito anche dal fatto che non ci sono altre trasmissioni musicali in Italia, ce ne fossero cinque o sei io sarei meno fondamentale e tutto sarebbe più leggero. Questo ruolo che non voglio più, vorrei tornare a suonare con un’altra leggerezza, senza il peso di questa responsabilità. Sì, è vero che X Factor è l’unico posto in cui si fa musica in tv, ma non è colpa mia.

Però una delle cose che ti ha dato è stato forse un nuovo entusiasmo. La profondità degli abissi sembra scritta da un ventenne.
È un complimento vero? C’è chi non lo capisce quel pezzo, e critica tanto per criticare, senza riflettere. Basta capire che è stato scritto per Diabolik, è un po’ cartoon e vuole esserlo, mi sorprende sempre tanto la superficialità dell’analisi di molti. Ed è il motivo per cui adoravo le tue pagelle pure quando mi mettevi 5 – se non fosse che ora lì a X Factor mi chiamano tutti Sua Maestà e ancora non ho capito se è fighissimo o se devo odiarti -, mi piacciono perché sono divertenti, ma pure perché spesso mi sentivo capito. Come si fa a non comprendere che non avrei mai fatto come primo singolo da solista La profondità degli abissi se non fosse stato un pezzo per un film e un film come quello poi. Il pezzo è così perché ho dovuto parlare un certo linguaggio, pure nel videoclip. Non è difficile, quell’atmosfera, quell’immaginario visivo dovevamo riprodurlo. Nel video ci sono poi io che ammazzo me stesso che è anche un segnale sul mio processo di rinascita attuale, il tentativo di fare di nuovo altro, di ricominciare. Poi criticatemi pure, ne avete tutto il diritto, ma almeno per i motivi giusti.

Sembri un altro Manuel Agnelli. Basta con gli Afterhours e ora si naviga in solitario?
Gli After non si sono sciolti, né si scioglieranno, ma è vero che c’è un nuovo Manuel Agnelli. Ora il guscio del gruppo non è protettivo ma asfittico. Io mi sento più stimolato a fare cose mie, peraltro tutti hanno avuto progetti solisti nel gruppo e ditemi perché non dovrei provarci pure io. Per carità, è vero che gli After me li sono intestati io, l’80% dei pezzi li ho scritti io, ma quando sei solo è diverso e io ora voglio quella libertà totale. Non voglio avere progetti in questo momento, voglio una totale indipendenza e possibilità di andare ovunque.