Con 'Il nome della rosa' la Rai ha sfornato il suo 'Trono di Spade' | Rolling Stone Italia
Interviste

Con ‘Il nome della rosa’ la Rai ha sfornato il suo ‘Trono di Spade’

John Turturro è Guglielmo da Baskerville nella nuova serie sul capolavoro di Umberto Eco: «La conoscenza ci protegge dagli eccessi di potere»

Foto Fabio Lovino

Il nome della rosa di Giacomo Battiato e John Turturro (che ne è attore e sceneggiatore protagonista) è la serie Rai della svolta. È talmente ben pensata, scritta, girata e interpretata che avrebbe potuto farla HBO, se solo avesse avuto a disposizione i diritti di Umberto Eco e le maestranze di Cinecittà. Cioè: col cacchio.

Agli italiani non capita spesso di autodiagnosticarsi sintomi di nazionalismo a sfondo cinetelevisivo, soprattutto in occasione di un’anteprima stampa organizzata da Rai Fiction. Eppure, è esattamente quello che ci è capitato ieri in viale Mazzini. Terminata la proiezione delle prime due puntate, e partiti gli applausi anche da parte dei più eruditi e sediziosi tra i critici tedeschi in sala, il nostro cuore si scioglieva all’idea che, con Il nome della rosa (trasmessa dal 4 marzo in prima mondiale su Rai 1), la Rai stesse entrando, fashionably late come la gran signora che è, nell’età d’oro della televisione. A quel punto, solo per noi, un salterio trecentesco, gioioso quanto anacronistico, poteva cominciare a suonare l’inno di Mameli.

È più che una serie bella o molto bella: è un atto di diplomazia culturale. Del resto, l’abbiamo venduta alla BBC mentre era ancora in fase di sviluppo. Sembrano finiti una volta per tutte i tempi in cui, ogni volta che ospitavamo un amico inglese, la cui nazionale era in città per farci del male a rugby, bisognava nascondere il cofanetto di Pride and Prejudice con Colin Firth, pur di non dargliele tutte vinte.

Foto Fabio Lovino

Il nome della rosa è davvero un prodotto messianico: l’intervento divino sul palinsesto che si attendeva da prima della stagione 1 di Che Dio ci aiuti. È un piccolo, grande Game of Thrones italiano e italocentrico, tanto raffinato nel rappresentare la grandezza della cultura italiana, quanto aggressivo nella conquista dei piccoli schermi globali. Fa felici tutti: dai nerd echiani, che vanno in brodo di arsenico alla prima scena nella farmacia di Severino da Sant’Emmerano, dove ogni alambicco ha la sua etichetta corretta, anche se si tratta di scriverla in cinese; al pubblico con aspettative più piccolo-borghesi, come vedere veri attori pronunciare vere battute; ai ragazzi che si perdono negli occhi della rossa occitana, ai dirigenti Rai che si perdono in quelli entusiasti del Presidente e dell’Amministratore delegato.

Se dobbiamo proprio trovargli un difetto è un certo eccesso di sicurezza, quasi uno sprezzo del pericolo, per fortuna ben riposto. Ma che brivido, prima della proiezione, nello scoprire che le due principali variazioni rispetto al libro riguardano gli unici due personaggi femminili, interpretati entrambi da due giovani attrici italiane. Ma dopo le prime battute recitate in occitano da Antonia Fotaras, qui nel ruolo di una ragazza in fuga dalla guerra, il mood cambia e, da preoccupato, esplode in un garrulo mai più cagne!, mettendo da parte anche un ultimo retropensiero al fatto che, se nella Rai di qualche anno fa non ce ne fossero state tante, forse non sarebbe mai esistita una serie come Boris. Ma bene così.

Turturro è ovunque, e sia nel film che nella vita sei sempre a chiederti dove ficcherebbe il naso e in che lingua: inglese, tedesco, italiano volgare o latino. Che stia visitando l’abbazia di Eco o viale Mazzini è comunque alla scoperta di cose nuove, come chi rastrella la ghiaia del giardino zen o chi gestisce quel catering dalle polpette eccezionali. Un attore tanto attento e preparato è spesso un ghost writer performativo, aggiunge sempre qualcosa alla sceneggiatura, anche quando non improvvisa, solo recitando. Questa volta ha anche scritto, e si vede e si sente.

Rupert Everett. Foto Fabio Lovino

Tra la proiezione e le interviste si aggira con un piglio da professore universitario molto distinto, con dietro un codazzo che, per questa volta, sembra composto meno da addetti stampa e più da cultori della materia. Qualcuno fa notare: Turturro ci sta facendo il regalo di festeggiare così il suo compleanno. Forse tiene molto a noi, forse non tiene molto al compleanno. Di certo tiene molto a Eco e molto poco al paragone con Sean Connery. Lo sistema con una sola citazione: «Non ho mai visto il film originale con Sean Connery, anche se lo amo. L’ho sempre visto come James Bond, ne avevo anche un pupazzo, e forse non sarebbe stato utile». È densissimo nei pensieri. Nel silenzio della biblioteca della Rai, dove un’intuizione geniale dell’ufficio stampa ci ha condotto, tra classificatori e scaffali, John parla davvero come uno studioso. «Tutti inventano storie per spiegare il mondo e tu puoi credere nelle storie o credere in chi le racconta, lasciandoti andare, sospendendo la tua incredulità. È qualcosa di molto umano, ma è anche la stessa cosa che ci fa ammazzare tra di noi», dice.

Per il giorno del lancio la Rai ha fatto le cose in grande. Due monaci senza volto, col cappuccio alzato, fanno da guardia all’ingresso di viale Mazzini, così torvi che uno è portato a dichiarare a loro il nome sull’accredito, invece che ai più placidi vigilantes. L’Umberto Eco che alberga in ognuno di noi, specialmente quando lo rileggiamo di mattina presto, comincia a vedere tutto allegorico. Persino il cavallone di bronzo simbolo della Rai ci sembra un simbolo di forza e libertà. Scorgiamo un’Audi e una BMW parcheggiate accanto alla reception. Sono chiaramente simboli di due forme di potere: forse quello temporale e quello spirituale? Più probabilmente, Presidente e Amministratore Delegato.

Il fatto che non sia la tipica anteprima stampa di Rai Fiction comincia a farsi più evidente quando, nell’attesa dei titoli di testa, comincia la gara a chi ricorda più frati e relativa città di origine. Ovviamente vince il solito tedesco, che sa pure Nicola da Morimondo.

Stefano Fresi. Foto Fabio Lovino

La sede Rai pare operosa come una badia benedettina contemporanea, col famoso giardino zen al posto dell’orto e un discreto buffet invece del refettorio. Per l’occasione di oggi, nel foyer che precede la sala della proiezione, è stato installato una specie di dungeon medievale. Scrittoi, calamai, astrolabi. Ovunque sono piazzate porte tratte dalla scenografia della serie. Quella che separa la sala del buffet dal dungeon, ad esempio, è giustamente decorata con alcuni dannati che lottano contro le diaboliche tentazioni della carne, che almeno in questo caso, al termine delle due ore di proiezione, assumerà la forma di polpette. Dopo la proiezione, il cast sarà atteso qui da telecamere e altri strumenti di tortura. Alla quinta o sesta intervista, inizia la ricerca di una safe word, nel caso la situazione degeneri. Fabrizio Bentivoglio la troverà in un classico vado.

Stranamente, la prima puntata parte così così. La scena iniziale è l’unica per cui non si può fare a meno di immaginare che una vocina tentatrice abbia sussurrato a chi la scriveva, in un crescendo di ingarellamento con gli States e GoT: Sì, fammela alla Trono di spade, Auditel is coming, Che ce frega del panzone noi c’avemo Umberto goal. Il fatto è che è una scena di battaglia presa a volo d’uccello in cui, fra i clangori delle armature, un giovanissimo Adso da Melk viene inquadrato mentre alza disperatamente il volto verso la camera. Ci piace pensare che la presenza di un solo paio di tette, in tutta la prima serata, sia stata parte della trattativa.

Per il resto, un capolavoro di attenzioni e visioni d’insieme, di minuzie e di grandi idee, di pratica e teoria. La sola biblioteca è un gioiello fotografico e concettuale. È più magica di qualunque Hogwarts, perché resta sempre fisica e credibile nei meccanismi e nei più piccoli rumori che ne azionano i segreti. I minuti a disposizione del regista e la sua sensibilità sono tali che il racconto si dilunga, a volte, in digressioni che sono quasi dei microdocumentari sulla vita in abbazia: dalla fabbrica della pergamena alla doratura delle miniature. La parola inchiostrata, fin dalla sigla di testa, vigila su tutti i significati di una serie che è enciclopedica come enciclopedici sono il libro e il mondo da cui è tratta.

Turturro, Sammel e Lombardi. Foto Fabio Lovino

Molti squadroni di serie A hanno una forte base italiana, ma la differenza la fanno gli stranieri. Così è anche per il cast del Nome della rosa. Stefano Fresi è un Salvatore gargantuesco, una torre di Babele antropomorfa e semovente, anche se staticamente molto più salda. Poliglotta solo col pensiero, come se avesse inghiottito diversi vocabolari, ma senza digerirne nessuno, ruba costantemente le scene condivise al suo mentore Remigio da Varagine, interpretato da Fabrizio Bentivoglio. Ci riesce grazie al suo esperanto comicamente stentato, che remixa tutte le lingue di origine degli altri monaci, e a una presenza scenica che è uno studio instancabile, con nuove scoperte ad ogni inquadratura, su dove inizi l’uomo e finisca l’animale. È impossibile resistergli quando, dopo la piccola lezione di egalitarismo che gli fa Remigio, realizza dunque di essere bello, bellissimo anche lui, e sembra crederci veramente, mentre rimette mentalmente in gioco il suo nasone bitorzoluto, frutto delle ore di trucco che rendono Fresi praticamente irriconoscibile, se non fosse per la volumetria.

Stupendo è Roberto Herlitzka nel saio di Alinardo da Grottaferrata che previde l’Apocalisse. Il Maestro potrebbe dire qualunque cosa, anche in inglese – lingua di cui, confessa, non conosce una parola – e sarebbe comunque il migliore in campo. Ammalia quando ci dice che gli è piaciuto molto recitare in una lingua straniera, perché per il solo fatto di essere riuscito a pronunciare una battuta, gli sembrava di essere bravissimo. Ringrazia la sua dialect coach con la grazia e la condiscendenza di un hollywoodiano purosangue che avesse appena presentato un film in cui canta in barese.

Gli altri monaci sono uno più bravo dell’altro, quasi tutti a denominazione controllata, secondo le nazionalità dei personaggi originali. Su tutti i ruoli minori eccelle, probabilmente, il Berengario di Maurizio Lombardi.

Michael Emerson è uno strepitoso, controllatissimo fantasista in un ruolo molto difficile: l’abate Abbone. Dalla sua faccia devono trapelare, con diverse tipologie di intensità, perfettamente temporizzati, tutti i guai del plot, presenti, passati e futuri, anche quelli che ancora non abbiamo ripassato. Dà il meglio di sé nelle scene con la sua amata statua, che veste e agghinda come la sua Barbie mariana, afflitto dai sensi di colpa e dall’assenza di una manicure decente. Riguardo Rupert Everett, che fa Bernardo Gui, il rivale di Guglielmo nella disputa tra papato e impero, ci sembra che sia il caso di aspettare le puntate successive.

Antonia Fotaras e Greta Scarano. Foto Angelo Turetta

John Turturro è Guglielmo da Baskerville due volte: per la trama e per il giovane Damian Hardung, di soli vent’anni, che interpreta il suo Adso. Alla tavola rotonda riservata a Rolling Stone scherza: «Damian si è impegnato tantissimo nella parte, era infaticabile a scovare piccoli problemi e incongruenze ovunque, tanto che a volte gli dicevo di lasciarsi un po’ andare, perché non sempre era necessario un approccio del genere. È una delle menti più brillanti che io conosca. Infatti, spero che non prosegua col cinema, ma che magari si iscriva a medicina». A vent’anni si può tendere un po’ a strafare, se si è contemporaneamente il novizio di Guglielmo da Baskerville e di John Turturro.

Una vaga nota politica: il vero leit motiv dell’anteprima di viale Mazzini è quanto sia attuale il medioevo, e non solo per temi specifici (come il ruolo della donna nel mondo), ma anche per uno più generale. In conferenza stampa lo dicono praticamente tutti: attuale, attualissimo, ma solo con accezione vaga o positiva. John è il primo che ha il coraggio, o l’inconsapevolezza, di essere realista. «Gran parte della storia sta nel fatto che la conoscenza sia protezione dal potere eccessivo. Per questo la prima cosa che fanno i demagoghi è cercare di sopprimere la conoscenza». Non se ne rende conto, ma si sta rendendo ormai insbobinabile da Libero. È frate Guglielmo l’uomo da cui la sinistra può ripartire? Ai compagni della mozione Baskerville: è inglese e, purtroppo, non è mai esistito.

Il nome della rosa, anche per la Rai del 2019, continua ad essere uno sbalorditivo modellino di mondo, di cui ogni edificio è a sua volta un mondo a sé, zoomabile e ruotabile perché mostri al meglio i personaggi e i simboli che ne abitano le stanze. Siamo tutti sospesi come droni davanti alla bellezza innevata di quell’abbazia inesistente, che sa spiegarci così bene, in tutte le lingue che conosce, con tutti i dettagli che mostra o che nasconde che, come ogni farmacia che si rispetti contiene tanti veleni quanto rimedi, così ogni biblioteca, sito internet o serie tv può contenere tante verità quante menzogne.

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