A cosa è servito Vermicino, a cosa serve ‘Alfredino – Una storia italiana’ | Rolling Stone Italia
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A cosa è servito Vermicino, a cosa serve ‘Alfredino – Una storia italiana’

La serie Sky sul trauma collettivo della morte di Alfredo Rampi spinge a riflettere non sulla vittima, non sugli eventuali colpevoli, ma sui telespettatori, ignari d'essere co-protagonisti della trama di un film

A cosa è servito Vermicino, a cosa serve ‘Alfredino – Una storia italiana’

'Alfredino - Una storia italiana', il 21 e 28 giugno su Sky

Foto: Lucia Iuorio

«Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremo ricordare, che cosa dovremo amare, cosa dobbiamo odiare». La chiusura della diretta fiume del Tg2 del conduttore Giancarlo Santalmassi – il testo è da antologia, sta in esergo alla voce wikipedia su Vermicino – è correttamente recitata nel finale di Alfredino – Una storia italiana, quattro puntate di produzione Sky che raccontano daccapo (a chi non c’era?) il trauma collettivo del bambino morto in fondo al pozzo. «Prima che cadesse nel fosso della televisione», scrisse Aldo Nove in Woobinda (1996). E chi se lo dimentica? A 40 anni dai fatti qualcuna di quelle risposte è stata data? E questa serie è capace di darne?

Molto in parte. Gli sceneggiatori Barbara Petronio e Francesco Balletta e il regista Marco Pontecorvo, che erano bambini all’epoca e oggi hanno in curriculum molta fiction mainstream, provano a distogliere lo sguardo da Alfredino, che per scelta esplicita non vedremo mai in fondo al pozzo dopo le prime immagini felici di una vacanza al mare (dove è scattata la polaroid che lo ricorda per sempre). E a dirigerlo sulla mamma Franca Rampi interpretata da Anna Foglietta con piglio da Anna Magnani. L’idea di fondo è quella di ricordare che, una volta spente le telecamere della cosiddetta “tv del dolore”, la signora Franca (così la conoscevano tutti) scelse di non rispondere a quasi nessuna delle centinaia di richieste di interviste da tutto il mondo con ulteriori lacrime e dolori e subì per questo l’attacco dei primi haters, a cominciare dalle critiche per essere stata fotografata in calo di zuccheri con un ghiacciolo in mano; ma, invece di cedere alla tentazione di reagire, si impegnò nell’invenzione e nel varo della Protezione Civile, trasformando così la sua rabbia privata in impegno civile.

Un messaggio in bottiglia lanciato 40 anni addietro contro l’imbarbarimento delle folle, la cannibalizzazione dell’opinione pubblica, la morte della politica istigata dalla televisione? Diciamo di sì. Ma in Alfredino non ci sono cattivi veri (“tranne noi mostri”, avrebbe aggiunto anni dopo Blob). Neppure il padrone del terreno che coprì il pozzo con dentro il bambino e venne arrestato lo fu veramente. Non fu un vero antagonista l’ingegnere Elveno Pastorelli, comandante di Vigili del Fuoco, interpretato dall’attore Francesco Acquaroli (duro ma buono, colonna delle nostre serie e del nostro cinema: l’equivalente di un Renzo Palmer nel film anni ’70). Sono ragazzi a un passo dalla vita adulta nell’estate delle scelte gli speleologi del Club Alpino, con Giacomo “Spadino” Ferrara, che arrivarono prima di tutti. Il puro folle Angelo Licheri, ipnotizzato da una notte di diretta, venne, si calò in trance e in canottiera, e fu più vicino di tutti al bambino nei 45 minuti passati a testa in giù a 60 metri di profondità. Il Pertini di Massimo Dapporto è oggi un’immagine sbiadita, lunare, silenziosa.

Foto: Lucia Iuorio

Persone che si ritrovarono prigioniere del proprio ruolo, dalle aspettative degli altri e di sé su di loro, che furono travolte dalle conseguenze impreviste di un’azione, da una notizia che si rivelò una speranza: lo tiriamo fuori. E invece no. Incapaci di pensare insieme, probabilmente: ecco uno dei mille usi metaforici di una favola accaduta non a caso sul limitare del nuovo boom italiano anni ’80. Man mano che il tempo passa e tocca daccapo raccontare la vicenda, è sempre più forte la sensazione di essere stati protagonisti non tanto dell’imprevedibilità della cronaca – e della sua epifania televisiva. Piuttosto, ignari spettatori/protagonisti di un film o due. Guardati dalla televisione che pensavamo di stare guardando.

Il direttore del Tg1 Emilio Fede che decise di raddoppiare la diretta non stop del Tg2 con il suo telegiornale conosceva bene L’asso della manica di Billy Wilder (1951), nel quale un giornalista senza scrupoli lascia morire per vanagloria un tizio imprigionato in una grotta. Anche nel film di Wilder ci sono le trivelle, la grande folla di curiosi e i venditori di panini. Pensò, Emilio Fede (e l’ha raccontato di recente), che quella volta poteva anche finire bene. Neppure andrebbe dimenticata, se parliamo di immagini e immaginario, la grandiosa scena della Dolce vita di Fellini con la carnevalesca apparizione della Madonna tra le folle nella campagna romana. Gli sceneggiatori di Alfredino decidono di sfoltire molto la questione televisiva: entrano nella redazione del Tg2, osservano sul volto del giornalista che fiutò per primo le potenzialità del caso lo stupore delle conseguenze sul pubblico di una diretta non stop. Passa in cavalleria il profumo del complotto di aver spinto così tanto la notizia in modo da mettere in secondo piano la scoperta della liste della P2. Sospetto avanzato da Giancarlo Santalmassi di recente. È un fatto che i protagonisti di quella vicenda, 40 anni dopo, sono tutti pentiti.

La cosa sorprendente è che lo stesso Elveno Pastorelli, prima di recarsi sul teatro delle operazioni, decise di scavare un pozzo parallelo a quello dov’era caduto il bambino per raggiungerlo e provare a salvarlo perché in archivio aveva trovato il resoconto di una analoga vicenda americana degli anni ’40, quella della bimba californiana Kathy Fiscus. Dalla quale prendono ispirazione parziale proprio il film di Wilder e un episodio di Quella casa nella prateria, uno dei primi serial dell’epoca, che però non fu trasmesso da noi. La bambina anche quella volta morì. Tutto televisivo anche l’altro incredibile intreccio della vicenda, sottolineato dagli sceneggiatori: il pompiere (Vinicio Marchioni) collegato col fondo del pozzo spiega ad Alfredino che il rumore mostruoso e vicino della scavatrice è come quello delle lame rotanti di Mazinga. I cartoni giapponesi erano un altro dei segni della mutazione in corso.

Foto: Lucia Iuorio

Traumi da boomer. Certo, Alfredino – Una storia italiana offre l’esperienza forte di essere nello sguardo dei soccorritori nel pozzo. Ma è stupido prendersela con il cinismo della tv. Alfredino solo e invisibile è il controcampo di Tutto. “Dio guardava il figlio suo / e in onda lo mandò”. La cosa più bella mai scritta su Alfredino Rampi l’ha cantata anni fa Francesco Bianconi dei Baustelle in rappresentanza di tutti i bambini che nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1981 si addormentarono sul divano davanti alla tv accesa. Compreso lui. Riascolteremo la canzone per intero nel prefinale di Alfredino, portata in cielo dai droni che volano su Roma. Un videoclip brechtiano, fuori dalla total immersion d’epoca di facce e costumi della serie. Dal juke box risentiremo invece Per Elisa di Alice, che quell’anno vinse il Festival di Sanremo, e Cuccurucucu di Franco Battiato, dall’LP più venduto nel 1981; e – piuttosto incongruente a meno di qualche motivo che mi sfugge – Impressioni di settembre della PFM, per segnare l’alba di un nuovo giorno. Walter Veltroni, che ad Alfredino aveva dedicato un libro una decina d’anni fa, aveva voluto ricordare tutt’altre canzoni di allora: Sarà perché ti amo, Gioca jouer, Maledetta primavera arrivata seconda al Festival di Sanremo. Chissà, avrebbero fatto un effetto migliore?