Stazione Birra è un locale per musica live a Morena, una frazione nella zona di Est di Roma, qualche chilometro fuori dal Grande Raccordo Anulare. Uno stabilimento siderurgico abbandonato, allestito per concerti e produzione di birra, che rompe l’andamento più o meno regolare e squadrato di case basse con giardini piccoli. Un miraggio periferico.
Parcheggiamo sul retro del locale e arriviamo in biglietteria: “Siamo qui per il wrestling, siamo di Rolling Stone”. Al centro della sala concerti, dove di solito il pubblico canta i masterpiece di intere carriere reinterpretati da cover band, di fronte al palco, è stato allestito un enorme ring. Tutto intorno sono disposte diverse file di sedie. C’è il tutto esaurito per la Roman Rumble 2025 organizzata da Pro Wrestling Roma: un pomeriggio di salti e cazzotti, tutti contro tutti, in cui ogni due minuti un atleta sale sul ring e chi invece cade dalla terza corda viene eliminato. Chi resta, vince il titolo dei pesi massimi.

Foto: Costanza Musto

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Le circa 200 persone che sono venute a Stazione Birra aspettano l’inizio dello show, mentre le casse scaricano verso il ring Enter Sandman e Smells Like Teen Spirit. Sul banchetto del merch sono impilate le magliette dei lottatori che a breve si esibiranno in un duello senza esclusione di colpi. Ce n’è una bianca su cui è dipinta, tipo ciclostile, una maschera nera stile quella di Rey Misterio con la scritta Uragano Nero, un’altra potrebbe essere uscita da Everpress, da un’hamburgheria hipster o dal tour di Evergeen di Calcutta (quella “Legalize Marinara” per intenderci): ha quadratini verdi su fondo bianco, il disegno di un ring e la faccia del wrestler in rosso. È Omar Prince, che nella bio di Instagram ha scritto “THE ITALIAN FRANCHISE | ITALIANO VERO” seguito dall’emoji della mano a cucchiara.
Tra il pubblico ci sono t-shirt di band metal ma anche una felpa della Love Gange, una coppia di giovani emo, tanti bambini che quando inizierà lo show non staccheranno mai gli occhi dal ring. Una madre mi dice di aver portato il figlio, che credo abbia sette o otto anni, perché si è fissato con il wrestling. Lei non l’ha mai visto, ma lui ha trovato l’evento su internet… ed eccoli qui. E poi un gruppo di tifosi, “Frangia Ostile”. Parlo con il “capo ultrà”. Il nome è ispirato alla curva della Roma e seguono il wrestling italiano un po’ ovunque. Anche se quello Made in USA è ancora un altro pianeta, in Italia il movimento è in crescita – e lui è un grande fan appena tornato dal WWE SmackDown a Bologna – questi incontri sono più autentici: puoi interagire con gli atleti, farti foto, sentirti parte di qualcosa. Tre ragazzi e una ragazza stanno fumando fuori, in attesa che lo show abbia inizio. Fanno arti marziali e da qualche mese hanno iniziato a seguire il wrestling invorticando anche qualche amico: è divertente perché è tutto umano, si conoscono tutti, c’è una bella atmosfera. Una dimensione indie – dico io.

Foto: Costanza Musto

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Parlo con il responsabile comunicazione e ufficio stampa, che è anche un po’ il regista degli show. Mi dice che loro possono portare sul ring qualsiasi cosa, ma se il pubblico non è partecipe, se il pubblico non entra nella storia, non scatta quel meccanismo magico che trasforma un’esibizione in un’esperienza collettiva. Un’esperienza ancora più vera di qualcosa che è vero davvero, perché costruita per essere quasi un’allegoria della vita. Mi vengono in mente le parole di un amico stand up comedian che anni fa mi diceva che la responsabilità della buona riuscita di un suo spettacolo era sempre condivisa, in parte, con gli spettatori: se quando si siedono non si mettono nelle condizioni di poter ridere, non rideranno mai e la serata sarà tremenda per tutti. Me ne accorgo al primo UHHHH che mi scappa di bocca allo schianto sul ring di un lottatore con un costume di lycra fluorescente che peserà quasi poco più di cento chili, che è stato sollevato e lanciato a terra da un altro atleta con un costume intero nello stile dei culturisti di inizio Novecento e i capelli che sembrano usciti da un weekend di Gods of Metal.
Il riff pazzoide e frenetico che Angus Young suona nei primi secondi di Thunderstruck fa capire a tutti che sta iniziando qualcosa di grosso. Le luci si abbassano. Lo speaker annuncia l’inizio dello show.

Foto: Costanza Musto

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Per circa tre ore decine di atleti si alternano sul ring. La dinamica del wrestling statunitense vale anche a queste latitudini: ci sono i baby face, gli eroi buoni che piacciono a tutti, e gli heel, i cattivi, i villain, quelli repellenti e fastidiosi, quelli detestabili che inevitabilmente incanalano l’odio del pubblico. Se i baby face traggono energia dagli applausi, per gli heel ogni buuu e ogni fischio è una medaglia.
Gli atleti escono dal camerino e si fermano sul palco che di solito viene usato per i concerti. Vengono annunciati, mentre alle spalle sono riprodotti i loro video introduttivi. Prendono l’applauso del pubblico e si catapultano sul ring. Flowey Queen è un* wrestler queer. Maschera che copre tutto il viso, una parrucca mezza azzurra-mezza rosa e un vestitino fucsia che copre in modo molto molto parziale un fisico scolpito: The mother of unicorns entra sul ring mentre l’impianto spara Dancing Queen degli Abba. Dave Blasco copre invece la quota romanità con il costume con la scritta “Rome or Death” all’altezza del cavallo. Luke Astaroth “The voice of demons” è l’heel da manuale: maschera a metà tra un remake di Alien e Anthony Hopkins nel Silenzio degli Innocenti, capelli lunghi oltre le spalle e barba incolta, sguardo feroce.

Foto: Costanza Musto

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Ferrari indossa shorts e vestaglia in family feeling con il brand di Maranello, occhiale da sole Carrera con montatura bianca e stringe tra i denti una sigaretta con il bocchino, come il sigaro di Hannibal Smith dell’A-Team. Un eroe che non conosce crisi economiche. Axel Fury è il re dei cattivi e per amplificare questo ruolo, vince la Roman Rumble con una mossa che è l’apoteosi della vile furberia: mentre Flavio Augusto, che è uno dei buoni e si capisce dal logo che cita quello di Super Mario, pensa di essere l’unico rimasto sul ring ed esulta acclamato dal pubblico, Fury, che tutti pensavano essere stato eliminato ma che invece si era nascosto con un astuto stratagemma, lo prende alle spalle e lo scaraventa giù dalle corde. A questo giro hanno vinto gli heel. È la premessa di un riscatto dei buoni che andrà in scena, forse, nella prossima puntata.
Mentre gli atleti saltano sulle corde, si buttano sugli avversari, danno e prendono calci e pugni, mettono in scena sketch con oggetti di scena, tutto il pubblico guarda il ring con occhi incantati. La Frangia Ostile tira fuori cartelli e parrucche. Alcuni bambini scorrazzano tra le sedie. Una signora con i capelli blu e le Doc. Martens sotto il ginocchio urla ammazzalo o finiscilo nei momenti più concitati, ma è in realtà solo una rappresentazione artistica di una violenza simbolica. Perché tutto il wrestling è una partita sul confine tra quello che è e quello che immaginiamo che sia. Un’allucinazione iperrealistica o un’esperienza reale allucinata.

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Alla fine dell’incontro, nel backstage, conosco Karim Brigante, uno dei pochissimi wrestler professionisti in Italia: «Ho sempre sognato di fare il pro-wrestler, e appena ho potuto sono andato negli Stati Uniti. Quando avevo 22 anni vendetti la macchina che mi lasciò in eredità mio papà e mi sono unito a una delle più importanti scuole di wrestling del mondo: l’accademia di Harley Race, un ex campione del mondo degli anni Settanta e Ottanta. Da lì ho iniziato la mia carriera da professionista che mi ha portato a lottare in 18 Paesi. Quando è arrivato il Covid sono dovuto tornare in Italia. Mi sono detto “che faccio? che non faccio?” e per continuare a svolgere la mia professione ho iniziato ad allenare. Con l’aiuto di Pro Wrestling Roma e Italian Wrestling Association, e di Diego Piacentini, con la sua scuola a Frosinone».
Per gli altri atleti questo non è un lavoro con cui portare a casa uno stipendio fisso. Eppure intraprendere la carriera del wrestler è complesso e totalizzante: sono combattenti – che devono allenarsi – e attori – che mettono in scena uno show. «Dietro c’è un lavoro incredibile. A 360 gradi. Artistico, perché devi fare uno spettacolo credibile agli occhi del pubblico. Non devi offendere la loro intelligenza. Ma se devi essere credibile, al tempo stesso non devi far male al tuo avversario e non fare male a te stesso. O meglio, non devi far male oltre a un certo limite. Perché ci si fa male sempre. Al tempo stesso, bisogna intrattenere tutto il pubblico. Siamo degli artisti».

Foto: Costanza Musto

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Non c’è termine migliore, perché i lottatori sono anche autori del loro stesso personaggio. Lo scrivono istante dopo istante, in ogni momento della loro carriera e della loro vita: la scelta del nome, il look, le punchline, i gesti distintivi, il merch, i post sui social, i contenuti. «Il tuo personaggio è una vocazione artistica. È quello che ti piace, ma è anche quello che funziona. Un incrocio tra quello che vorresti fare, quello che ti suggerisce l’allenatore, e soprattutto quello che funziona per il pubblico. Tante volte il wrestler è la vera personalità dell’atleta, però elevata alla millesima potenza. È la personalità dell’atleta se non avesse confini».
Mentre parliamo si affaccia Camilla, una Wrestling Doll vestita e truccata come fosse parte della Suicide Squad. È la moglie di Karim, si sono incontrati nella prima Roman Rumble di Roma, due anni fa, poi Karim le ha fatto la proposta di matrimonio. Sul ring. «A livello femminile qualcosa si è smosso. Negli ultimi tre anni le donne sono aumentate. Io personalmente sono un preparatore atletico e ho un bagaglio sportivo molto ampio. Come sport di combattimento vengo dal kick boxing, ma una disciplina che mi ha molto aiutato nella conoscenza del mio corpo è stata la ginnastica artistica. Prima di affacciarmi al professional wrestling per 12 anni ho giocato a calcio. Le botte le prendevo anche lì».

Foto: Costanza Musto

Foto: Costanza Musto
Quando esco dal backstage, Stazione Birra sta tornando a essere un locale per concerti. Il confine tra reale e immaginario si riprende, tangibile e definito. È nel barman che sciacqua i bicchieri, negli addetti alla pulizia che passano lo straccio, nei wrestler in borghese che si salutano prima di andare via. Quando esco e torno alla luce del sole mi chiedo cosa sia successo nelle tre ore precedenti. Era vero? La risposta la ripesco nelle parole di Karim: «È come il cinema o il teatro, nessuno si chiede se un film è vero. Entri al cinema, ci resti due ore e per quelle due ore sei catturato nel mondo costruito dal film. Qui è lo stesso, entri per farti catturare emotivamente». È un meccanismo che costruisce storie, progettato per definire una realtà parallela in cui farsi risucchiare e urlare UHHH ogni volta che qualcuno sbatte sul ring. Semplicemente questo.













