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‘Mi chiamavano Tatanka’, l’iconico Dario Hübner si racconta in un’autobiografia


“Ho segnato più di 300 gol, l’ho fatto in tutti i modi possibili e immaginabili. Le porte le sfondavo, come un animale. Non per niente mi chiamavano il Bisonte. Non per niente mi chiamavano Tatanka”

Foto: Getty Images

È uscito da pochi giorni il libro Mi chiamavano Tatanka: Io, il re operaio dei bomber di provincia, l’autobiografia di Dario Hübner. A quasi dieci anni dalla sua ultima partita ufficiale, il calciatore che dai campi della provincia è diventato capocannoniere in Serie A, B e C1, racconta la sua storia, «il racconto di un ragazzo che non aveva nulla e che ha realizzato il suo sogno», come ha detto al Corriere della Sera.

Nell’estratto che trovate qui sotto, Hübner racconta com’è nata la sua ossessione per i Queen, band che ascoltava in ogni momento: prima delle partite, in ritiro, e in macchina nel tragitto verso l’ospedale dove sono nati i suoi due figli.

Il pilota di Formula Uno sta alla Champions League come Freddie Mercury sta alla Coppa del Mondo. Ho iniziato ad ascoltare i Queen da ragazzino, ero pazzo di loro e ancora oggi restano il mio gruppo preferito. Merito di quelle feste di paese che dalle mie parti chiamano Osmiz. Era proprio in quelle simil-sagre, tra prosciutto, salame e vino, che si intravedevano anche i primi venditori ambulanti di audiocassette. Un giorno, dopo aver sentito un brano da un amico, mi cadde l’occhio proprio su una cassettina dei Queen. Appena tornai a casa me ne innamorai. Mi piaceva la voce di Freddie – la migliore che abbia mai ascoltato – e mi piaceva il fatto che si riuscissero a distinguere bene tutti gli strumenti della band: la chitarra di Brian May, il basso di John Deacon, la batteria di Roger Taylor. Mi affezionai subito.
Mi mettevo davanti allo stereo e, non appena in radio passava una loro canzone, ero pronto a schiacciare il pulsante REC per registrarla. Alla prima cassettina registrata ne seguì una seconda, poi cominciai ad acquistare le versioni originali. Almeno fino a quando non arrivò il lettore CD. Di quelli ne prendevo a valanga, tutti esclusivamente dei Queen. E dato che nel nuovo formato erano disponibili anche gli album vecchi, decisi di recuperarli tutti. Volevo la collezione completa. Dal primo, Queen, uscito nel 1971, all’ultimo del 1995, Made in Heaven, pubblicato postumo la dipartita di Freddie. A furia di ascoltarli, credo di essere diventato uno dei fan più accaniti in circolazione. Nella mia auto, la chiavetta USB coi loro brani più belli non manca mai e a casa, in salotto, non manca neppure una libreria contenente solo libri, CD e DVD dedicati proprio ai Queen.
Ho amato alla follia il film Highlander con Christopher Lambert, soprattutto per la colonna sonora composta da brani stupendi come Who Wants to Live Forever, Hammer to Fall, Gimme the Prize, One Year of Love e Kurgan’s Theme. Ascoltavo sempre i Queen, anche in ritiro. Lo sanno bene i compagni di squadra che con me hanno condiviso la camera. Molti di loro hanno iniziato ad ascoltarli proprio grazie a me.
Purtroppo, uno dei miei più grandi rimpianti è quello di non essere mai riuscito ad assistere a un loro concerto live. Si erano esibiti a Milano – al Palasport di San Siro – nel settembre del 1984, ma all’epoca in tasca non avevo ancora i soldi per permettermi di acquistare il biglietto.
Cercai di recuperare qualche anno dopo, quando decisi di andare a Londra a fare un vero e proprio pellegrinaggio sulle orme di Freddie Mercury che ormai non c’era più. Presi l’aereo e partii, eravamo io e mio cognato Diego. Visitammo in successione la storica sede del Fan Club, che oggi si trova fuori Londra, la celebre abitazione di Freddie – Garden Lodge, Logan Place 1 a Kensington – in cui visse per buona parte della sua vita e sul cui muro, tra le migliaia già presenti, apposi anche la mia dedica. L’ultima tappa sarebbe dovuta essere la tomba del cantante, che secondo i più si troverebbe al Kensal Green Cemetery, un cimitero grande come una città. Girammo a piedi per un paio d’ore, poi alzammo bandiera bianca.
 
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