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Kobe Bryant non era uno stupratore

Nel 2003 fu indagato, ma mai condannato, per stupro. E visto che esiste la presunzione di innocenza, non è giusto parlarne come di uno stupratore

Kobe Bryant. Foto di Christian Petersen/Getty Images

Le parole sono importanti, le sentenze di più. Parafrasando Nanni Moretti, chi accusa male pensa male e fa male agli accusati, specie se quelli sono morti e non possono neppure più difendersi. L’accusato di queste ore è lo scomparso Kobe Bryant, che nel 2003 fu indagato (ma mai condannato) per stupro.

Nelle ore seguite alla sua morte, diversi giornalisti hanno ricordato sui social quell’episodio, linkando articoli dell’epoca. E giustamente, visto che la vita degli scomparsi va ricordata nella sua interezza. Allo stesso tempo, però, alcune attiviste e attrici di Hollywood hanno definito Bryant “uno stupratore”.

La prima è stata Evan Rachel Wood. L’attrice famosa per aver interpretato Dolores nella serie Westworld ha twittato sicura: “Kobe era un eroe dello sport, ma era anche uno stupratore”. Poi è arrivata Lauren Hough, attivista per i diritti delle donne: “Kobe Bryant era un fottuto stupratore”. Parole che non sono ricostruzioni del passato di Kobe né provocazioni intellettuali e neppure opinioni. Sono affermazioni al tempo indicativo, quello della certezza: e quindi, tecnicamente, passibili di denuncia per diffamazione.

I fatti, una volta tanto. È l’estate del 2003. Kobe Bryant, stella 25enne dei Los Angeles Lakers, vola in Colorado dove lo attende un’operazione al ginocchio. Fa il check in un hotel-spa vicino alla clinica. Si fa accompagnare da una concierge alla sua camera. Qualche minuto dopo segue la donna in un tour privato della proprietà. La invita nella sua camera, ottenendo un sì. I due iniziano a baciarsi.

Quello che succede nei minuti successivi sarà l’oggetto delle indagini. Bryant parlerà di un rapporto consensuale seguito ai baci. La donna, che andrà a denunciare il giocatore alla polizia, dirà di essere stata stuprata.

Inizia l’inchiesta, difficile e raccontata dalla stampa americana alla ricerca di un nuovo caso alla O. J. Simpson. Viene fuori che Bryant aveva dapprima negato ogni contatto fisico con la donna (l’uomo era già sposato con una figlia), per poi cambiare versione davanti alle fonti di prova fornitegli dalla polizia, tra cui un livido sul collo della donna (che affermò di essere stata presa per il collo), segni e sperma di lui all’interno della vagina e sangue di lei sulla maglietta di lui. Alla fine Bryant dice che sì, c’è stato sesso, ma è stato consensuale.

I suoi avvocati diffondono il nome della concierge più volte, vanificando tutti gli sforzi della polizia di proteggerne l’identità. E si prodigano per sostenere la sua inattendibilità come accusatrice, ricostruendo i suoi trascorsi sessuali e psichiatrici. Presto, la donna smette di collaborare con gli investigatori. Si rifiuta di testimoniare. “Forse perché realizzò di aver sbagliato ad accusare Bryant”, scrive oggi il Guardian. “Forse perché era solo una 19enne terrorizzata, che non poteva reggere l’ostilità dei media e la controffensiva di un uomo ricco e famoso”. Il caso penale contro Kobe Bryant, quello che avrebbe portato a una sentenza, è morto. Ai procuratori non resta che archiviarlo. La donna, invece, porta avanti una causa civile e chiude un accordo con Kobe. Impossibile saperne i termini, anche se qualcuno parla di 2,5 milioni di dollari.

Dopo che il caso viene archiviato, Bryant se ne esce con un comunicato piuttosto lungo. Non ammette alcunché, ribadisce che per lui il rapporto è stato consensuale, ma adesso riconosce che “per la donna non lo era”. Il momento più difficile della sua vita è appena finito. La moglie Vanessa, alla fine, ha deciso di rimanere al suo fianco e non divorziare. Gli sponsor, invece, se ne sono tutti andati.

Bryant decide di rinascere con un nuovo nome. Non si chiamerà più Kobe, ma Black Mamba, come il serpente più letale dell’Africa reso famoso dal film Kill Bill. Si riprende, vince nuovi campionati, richiama a sé gli sponsor. E non parla più di quell’incidente. Neppure 15 anni dopo, quando in pieno #Metoo viene escluso dalla giuria di un festival cinematografico.

Ora che è morto, sua moglie e i suoi figli sentono qualcuno definirlo uno “stupratore”. In America, in Occidente. In uno stato di diritto in cui vige la presunzione di innocenza, un concetto talmente abusato ma in fondo nobile e semplicissimo. Quello che dice che ognuno è innocente fino a prova contraria. Quello che impedisce al vostro vicino di casa di affiggere un manifesto fuori dalla porta in cui è scritto che siete dei pedofili o a un giornalista come me di scrivere che vostro padre è un assassino.

Grazie a quel principio, nessuno può essere definito un criminale senza la base di una fonte certa che lo confermi: una condanna definitiva, oppure una sua ammissione di colpevolezza. Black Mamba non ha mai ammesso di aver stuprato nessuno; e non è mai stato condannato per quello. Quindi no, non si può dire che Kobe Bryant è uno stupratore. Chi lo fa, non ottiene giustizia, ma rischia di negarla alla famiglia un uomo morto.

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