Andrea Dovizioso: «Nelle moto c'è un clima da “vinci o muori”, mi fa schifo» | Rolling Stone Italia
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Andrea Dovizioso: «Nelle moto c’è un clima da “vinci o muori”, mi fa schifo»

Dopo la vittoria in Giappone, il Dovi finalmente sogna il titolo MotoGP. «Ma senza ossessioni, si può essere vincenti lo stesso»

Il Dovi c’è. Sta ritto fuori dalla finestra e prova a farsi obbedire dal cancello automatico. Nulla da fare. Per arrivare qui ci siamo lasciati Forlì alle spalle, procedendo verso est. Quando finiscono le case e inizia la vite, siamo quasi arrivati. «Qua è tutto Sangiovese. Lo sapevi che è uno dei vitigni più diffusi d’Italia? Lo usano per fare il Chianti e il Brunello», mi domanda il taxista. Non lo sapevo, ma Wikipedia conferma. Svoltiamo a sinistra e imbocchiamo una strada di campagna, da una parte e dall’altra i campi dissodati.

«Quando concimano, qua te ne accorgi», aggiunge, non proprio riservato, l’autista. Anche se è arrivato dove oltre non si può salire, Andrea Dovizioso è rimasto fedele alla Bassa. «Boh, il telecomando non va», dice il ragazzo, o meglio l’uomo, che contende all’aristocrazia spagnola il titolo più ambito delle due ruote. Ed esce ad aprirci, mentre ancora il cielo sgocciola. «Tutto bene, e tu?», risponde alla domanda più banale del mondo. Non sono io che mi sto giocando il titolo MotoGP, vorrei comunicargli. «Non puoi permetterti l’ansia, quando sei dentro a una cosa così grande. Ci sono tante paure e beghe da gestire, siamo in lotta con dei pluricampioni del mondo: non sono impaziente, non ho fretta che tutto questo finisca».

Entriamo, e lo sguardo converge sull’enorme camino in fondo alla sala. Le librerie hanno parecchi spazi vuoti, di fronte al divano rosso c’è la tv. Andrea ci fa accomodare in una cucina moderna, e anche qui il mobilio è ridotto al minimo. Il suo tono di voce è rilassato, l’accento romagnolo tracima da ogni parola con la esse. Se nel suo atteggiamento c’è una qualche forma di strategia comunicativa, la costruzione di un personaggio o la volontà di evitare potenziali rotture di palle, noi non ce ne accorgiamo. Anche quando non ti dà la risposta che vorresti, cosa che avviene spesso, Dovizioso è estremamente credibile nei panni di se stesso.

Andrea Dovizioso sopo la vittoria del Gran Premio d’Austria. Foto Gold & Goose / Red Bull Content Pool

«Sono un ragazzo normale, che ha il privilegio di avere successo in quella che è la propria passione. La tv amplifica la nostra immagine, soprattutto ora che in tutto il mondo sanno cos’è il Motomondiale. Ma io non mi vedo come mi vede la gente là fuori».

A 31 anni è finalmente arrivato a giocarsi il suo sogno, in sella alla Ducati. In Aragona il 24 settembre non è andata bene: solo settimo, con primo Marquez, ora 16 punti avanti in classifica generale. Ma tutto è ancora aperto. Con Giappone, Australia e Malesia in calendario, ottobre sarà il mese più importante della sua vita, «ma solo di quella sportiva». Infine, il 12 novembre, Valencia: il gran ballo finale, in casa del nemico. «A Phillip Island di solito faccio fatica, a Sepang e Motegi invece mi trovo bene. Ma quest’anno, con le nuove gomme e le modifiche nel regolamento, fare simili calcoli non ha senso. Scendi in pista il venerdì mattina e tutto è diverso da come te lo eri immaginato, e hai appena due giorni per cambiare rotta. Se ti agiti, è la fine».

Il fatto è che ora, a differenza del passato, il Dovi ha qualcosa da perdere. Lo ha dimostrato a Misano, sulla pista di casa, dove si è accontentato del terzo posto. Non è facile adattarsi alla nuova condizione, se non indossi la corazza adatta. «Corro da quando ho 7 anni, ho fatto centinaia di gare con le minimoto, e pianto ogni volta che non riuscivo a fare risultati. Non sono mai stato in lotta per il titolo MotoGP, è vero, ma so bene cosa significa la tensione del traguardo: giocarsi un titolo 125 a 18 anni non è meno impegnativo. Le persone sono sconvolte dal mio exploit, ma io non mi sento in una situazione anomala. Sono particolarmente a mio agio lassù, anzi, sono incazzato che non sia successo prima».

Mentre parla, Alessandra fa il suo ingresso nella stanza. Andrea l’ha conosciuta anni fa in pista, quando lei faceva l’“ombrellina”. Ora risponde a due telefonate in un minuto: nella gestione di un campione, evidentemente, ci sono un sacco di cose a cui pensare. Il suo fidanzato mi stupisce con una definizione tutta sua di vittoria, che poco o nulla ha a che fare con la nostra concezione dello sport. «Non è un vincente solo chi arriva primo», dice. «Per questo adesso non la vivo tipo “Oggi o mai più”. Io voglio vincere perché voglio essere il migliore, ma se qualcuno va più veloce di me gli faccio i complimenti e finisce lì». Non per tutti funziona così, e a Dovi questo non piace affatto.

Non ho l’ossessione del successo. Oggi nelle moto c’è un clima da “vinci o muori”, e a me questa cosa fa schifo

«Vedo sempre più corridori da “vinci o muori”, che ti odiano perché li batti. Un tempo era uno sport di appassionati, in cui i risultati contavano fino a un certo punto. Oggi tifi uno e odi quell’altro, il clima è avvelenato. E a me questa cosa fa schifo». Ora la voce è un filo più concitata, la materia gli sta a cuore. Non fa nomi, «non ci penso neanche», ma nemmeno si trincera dietro l’ipocrisia. «In pista non ho nessun amico, e questo mi spiace», afferma, mentre non smette di tormentare la placchetta di metallo che tiene al collo. «In pochi abbiamo la fortuna di fare questo lavoro, e sarebbe bello condividere certe figate con chi ha le tue stesse esperienze. Ma nel MotoGP girano tanti soldi, e questo crea delle barriere tra noi piloti. Ognuno si rinchiude nel proprio branco, non si fa più nulla assieme».

Ha appena finito di piovere, così ci alziamo e usciamo in giardino. Nella casa accanto abitano la mamma e il padre Antonio, affianco al figlio fin dalle prime sgasate. La rimessa non è tanto più piccola dell’edificio centrale: dentro, su un piedistallo, c’è una moto da cross, in mezzo a decine di tute. «Questa è quella con cui ho vinto al Mugello, ci sono particolarmente affezionato», dice, toglie la tuta dal mazzo e la tiene tra le mani. La Toscana, la prima perla stagionale e la terza in carriera, e la Catalogna, l’Austria e Silverstone. Ma il momento in cui tutto è cambiato è un altro: Assen, 25 giugno. «Il quinto posto in Olanda mi ha confermato che potevamo giocarci le nostre carte. Su quella pista non ero mai andato forte, invece sono partito da dietro e ho ripreso il gruppetto di testa».

Come Andrea sia stato in grado di domare la Desmosedici rimane un mistero. Da sempre la Ducati è tra le moto più veloci del lotto, ma tende a imbizzarrirsi quando trova un cavaliere che non si adatta alle sue esigenze. Lei e Valentino Rossi non si sono mai presi, oggi Lorenzo sta facendo una gran fatica. «Non è sempre stato così. Quando sono arrivato, nel 2013, la situazione era un disastro: c’era un clima pessimo, la moto era semplicemente inguidabile. Poi è arrivato Gigi Dall’Igna come direttore generale, e, col tempo, ha cominciato a cambiare le cose».

Dai complimenti degli addetti ai lavori e le soddisfazioni personali, che non sono mai mancate, alle sportellate con Marquez per primeggiare, però, ce ne passa. «Non so spiegarmi cosa sia successo quest’anno, sono convinto che nemmeno i miei ingegneri lo sappiano. Diciamo che un insieme di cose sono andate al loro posto: io sono sempre stato bene, soprattutto di testa, e gli avversari hanno avuto alti e bassi. Ma non dobbiamo illuderci di essere i più forti, altrimenti gli altri piloti Ducati sarebbero secondo, terzo e quarto».

Andrea Dovizioso durante le qualifiche a Spielberg. Foto Gepa Pictures / Red Bull Content Pool

Continuiamo a parlare di questa incredibile stagione e rientriamo in casa. Ora che ha tolto la felpa, mi rendo conto di quanto sia diventato grosso, molto più di quanto appaia nelle foto e in tv. Sarà suggestione, ma il tatuaggio sul bicipite con il 34, il suo vecchio numero, pare sformarsi, quando tira le braccia dietro il collo. Avevo sempre pensato a quanto potesse essere impegnativo sorreggere quei bestioni carenati in curva, ora ho una risposta.
«La componente fisica è importante, ma nella MotoGP di oggi entrano in scena mille e più fattori», dice. «Quando c’erano i due tempi parlavo soprattutto con i meccanici, ora, tra sensori e parametri di ogni tipo, il ruolo degli ingegneri è centrale».

Questa cosa è curiosa. Un ragazzo di trent’anni, la cui vita è su una sella da quando è un bambino, si ritrova in mezzo a tanti cervelloni. Non si finisce per litigare? «Ogni giorno. Quando scendi dalla moto sei pieno di adrenalina e quasi sempre incazzato, vivi di sensazioni. In linea di massima non mi piacciono gli ingegneri, anche se sono una persona molto precisa e in questo finisco per assomigliargli: devono avere tutto sotto controllo, se non hanno la conferma dei numeri, per loro, stiamo parlando del nulla. Faticano ad ascoltare, a crederti e interpretare quello che dici. Fortuna che ci sono, ma poi servono il feeling e l’istinto di chi guida».

Per cinque anni Dovizioso e la scuderia di Borgo Panigale, con il suo team di 160 ingegneri, hanno lavorato sul loro rapporto, sulle differenze e sulla stima reciproca. «Non sono uno che vuole comandare, so di cosa ho bisogno e cerco di ottenerlo con il rispetto. Ho un ingegnere di pista che ha tre anni più di me, e io non metto becco sulle sue scelte e sui suoi setup». Tutto è più facile quando arrivano le vittorie, e Andrea quest’anno è andato oltre ogni aspettativa. In estate la casa italiana ha fatto un investimento esagerato per Jorge Lorenzo: oltre 12 milioni di euro a stagione per l’ex Yamaha, quasi il doppio di Rossi, più di dieci volte quello che guadagna Dovizioso, che con lui condivide il box. Invece che un segnale di sfiducia, lo zero in meno sull’assegno è diventato una motivazione extra. «La Ducati ha scommesso forte su Jorge: lui è completamente diverso da me, però ci rispettiamo. Ho sempre saputo che il team non mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote, e non è accaduto».

Le prove libere della Ducati sul circuito di Spielberg, in Austria. Foto Gepa Pictures / Red Bull Content Pool

Lo status cambierà dopo questa stagione, nonostante quel carattere che lo porta a non eccedere mai, anche mentre risponde con tono compassato, sempre molto serio, alle mie domande. «Non vado oltre la linea, non cerco di fare notizia. Sono fatto così». E poi è italiano, e Valentino Rossi, da venti anni a questa parte, ha cannibalizzato l’attenzione e l’amore di chi vibra assieme al rumore di un motore. «Un personaggio come lui tende a schiacciarti, ma senza Vale la MotoGP non sarebbe diventata ciò che è. E non è solo: negli ultimi dieci anni ho gareggiato con almeno cinque fenomeni contemporaneamente, e ora, a 31 anni, giocarmi un titolo è qualcosa di favoloso».
Assume così nuovi contorni il tatuaggio che Dovizioso porta sul polso, e che ora ci mostra, appoggiandolo sul tavolo. C’è scritto “Ten bota”, di immediata comprensione anche per chi non mastica il dialetto romagnolo. «Lo abbiamo in cinque, i miei amici più stretti, che mi seguono da quando sono ragazzino. Per tanti anni non ho vinto nulla: abbiamo tutti dovuto tenere duro».

Del suo clan fanno parte gli amici di una vita, compagni di scuola delle medie, che ora «fanno di tutto, dagli elettricisti ai camionisti». «Siamo una famiglia allargata: frequento ancora gli amici di mio padre, con cui faceva cross, e i loro figli, miei coetanei, che a loro volta hanno avuto figli. Ce la spassiamo, a casa dell’uno o dell’altro». Per questo non se ne è mai andato da Forlì, dove è nato e cresciuto. «Sono uno che fa fatica a vivere lontano dalla propria gente: se non ci sono i miei amici, non me ne frega nulla se un posto è figo. Non è la città più bella del mondo, ma è quella in cui ho creato la mia famiglia, e dove sono felice. Non puoi più vivere lo sport “a fuoco” come 30 anni fa: non cerco la vita mondana, e bestemmio ogni volta che devo partire per un evento. I viaggi mi pesano sempre più».

Non ho amici in pista. Ogni pilota si rinchiude nel suo branco: tutti questi soldi hanno messo delle barriere tra di noi

Sento la tele che si accende in sala, e una voce da cartoni animati. È arrivata la vera padrona di casa: Sara. «Ho quasi otto anni», spiega, mentre si esibisce in una verticale in corridoio. «Mai che dica sette e mezzo», scherza Andrea. Figlia di una precedente relazione del pilota, è spesso a bordo pista a fare il tifo per papà.
«Per qualcuno i figli sono considerati un limite, quasi nessuno tra i miei colleghi ne ha. Io ho avuto Sara da giovane, e, quando non sei più solo, vedi la vita in modo diverso, ti dai altre priorità. In questo mi ha aiutato. Se un pilota non vuole prendersi rischi, non è di certo perché ha chi lo aspetta a casa. Se arrivi a quel punto, avresti già dovuto smettere da un pezzo».

E come è cambiato il suo rapporto con il contachilometri che si impenna? «La velocità non mi ha mai dato adrenalina, per quella c’è la competizione. Ho avuto uno shock a 13 anni, quando sono passato dalla minimoto alle 125: ero uno e 47 e ho rischiato di rovinarmi, non ero pronto. Mi eccita di più andare a 60 all’ora nel motocross».
Questa disciplina è la sua grande passione. «Riesco a praticarla due volte al mese, come allenamento. Ho visto l’infortunio di Valentino, ma, se vuoi giocartela con Marquez, devi sempre migliorarti. Può capitare ogni volta di farsi male, ma non possiamo farne a meno».

Sul palco del Mugello per la prima vittoria stagionale. Foto David Goldman / Gold & Goose / Red Bull Content Pool

«Tra fango e tende, dove tutto è più vero», Dovi potrebbe tornare tra qualche anno. «Rimarrò in MotoGP solo finché me la giocherò: se sei ottavo, con simili pressioni, per me non ne vale la pena. Poi avrò tempo per il mio amato motocross, oppure il superenduro in bici».
È passata un’ora e mezza, minaccia di rimettersi a piovere e ci alziamo dalle sedie. Di fianco alla porta c’è una stanza che non avevo notato. Sulle quattro pareti brillano decine di trofei. Ci sono la katana di Motegi, il Sud Africa e il Portogallo. Il più grande risale al 2000, assegnato dal motoclub Terzo Bandini per una gara di minimoto. «Correvo con loro, e siccome sapevano che avrei vinto prendevano le coppe più grandi».

Un posto per il titolo mondiale, nel caso, si troverà. «Ho fatto una promessa: se arrivo primo, regalerò agli amici il mio camper. Mi scazza, perché sono anni che provo a venderlo e nulla. Io corro per le emozioni della gente: ogni volta che vinco una gara, godo all’idea di dare una bella botta di gioia ai tifosi. Se vinco il Mondiale, poi, ciao».

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