Le recenti notizie secondo cui alcuni ex e attuali giocatori dell’NBA avrebbero simulato infortuni e scambiato informazioni riservate con scommettitori corrotti hanno lasciato tifosi e media sotto shock. È solo l’ultimo di una serie crescente di scandali che coinvolgono atleti americani e ambienti di gioco d’azzardo, emersi da quando, sette anni fa, la Corte Suprema ha aperto la strada alla regolamentazione delle scommesse sportive da parte dei singoli stati. Questi scandali hanno riacceso il dibattito sulle riforme e persino sull’ipotesi di nuove proibizioni.
Quando si parla di atleti scoperti a barare, tornano alla memoria alcuni casi celebri. C’è la famigerata World Series del 1919, il cosiddetto scandalo dei “Black Sox”, in cui ai giocatori furono pagate mazzette per perdere di proposito. C’è lo scandalo del point-shaving del 1978 al Boston College, quando studenti-atleti vennero pagati dalla mafia per limitare il numero di punti segnati dalla propria squadra. E poi il caso di Tim Donaghy, l’arbitro NBA beccato nel 2007 a scommettere sulle partite che lui stesso dirigeva.
Sono tra i casi più noti di combine nella storia dello sport americano, e ciascuno provocò un’ondata di indignazione nazionale sulla questione dell’integrità sportiva e sulla forza corruttiva del gioco d’azzardo. Vale però la pena ricordare che in tutti questi episodi si è arrivati alla verità quasi per caso. I giocatori dei White Sox del 1919 furono scoperti grazie alla tenacia di un giornalista investigativo che seguì le voci raccolte dalle sue fonti. Il caso del Boston College emerse solo dopo che Henry Hill — sì, quello di Quei bravi ragazzi — confessò tutto quando venne arrestato per droga e messo sotto protezione. Lo schema di Donaghy fu scoperto incidentalmente durante una più ampia indagine dell’FBI sul crimine organizzato, dopo una soffiata da parte di un informatore. Se i più grandi scandali sportivi sono stati smascherati quasi per fortuna, viene spontaneo chiedersi quanto altro sia successo senza mai venire alla luce.
Nel corso degli anni sono circolate innumerevoli voci di partite truccate, combine, manipolazioni del punteggio e ogni altro tipo di scorrettezza, in praticamente qualunque sport si possa immaginare. Nel 1983, PBS trasmise un episodio di Frontline che analizzava i legami tra football professionistico e criminalità organizzata, insinuando che alcune partite fossero state manipolate da futuri giocatori e allenatori entrati nella Hall of Fame. Negli anni Novanta ci furono numerose accuse — alcune dimostrate, altre no — di scommesse truccate nel basket universitario, che portarono un gruppo di parlamentari a introdurre il Student Athlete Protection Act, una proposta di legge che voleva vietare le scommesse su sport di licei e università, anche in Nevada (la legge non venne mai approvata). Negli anni 2000, Andy Murray fece scalpore nel mondo del tennis affermando che «lo sanno tutti» che ci sono partite truccate nel tennis professionistico.
Nulla di tutto ciò sorprendeva scommettitori professionisti o bookmaker, che hanno sempre avuto un istinto preciso nel capire quando qualcosa non torna nei mercati delle scommesse. Sono loro a rimetterci quando una delle parti in gioco dispone di informazioni riservate. Per gran parte della storia moderna americana, l’unico luogo in cui si poteva scommettere legalmente era il Nevada, e quasi mai quello era il posto scelto dai truffatori per puntare (furono proprio i bookmaker di Las Vegas ad avvisare le autorità nel 1993 quando uno studente di Arizona State provò a scommettere 250.000 dollari su una partita di basket, cosa che portò all’arresto di due giocatori per combine). I truffatori più sofisticati sceglievano bookmaker illegali o con base all’estero, dove fino a un passato molto recente l’ammontare delle puntate superava di gran lunga quello dei bookmaker regolamentati negli Stati Uniti. Di solito esiste un andamento prevedibile nel flusso di denaro scommesso sulle partite in tutto il mondo, e chi passa le giornate a controllare quei movimenti sviluppa un istinto per capire quando accade qualcosa di inspiegabile. Per i bookmaker non regolamentati, l’unico modo per difendersi quando scattava il campanello d’allarme era smettere di accettare puntate su quella partita sospetta. Gli scommettitori che sentivano puzza di bruciato semplicemente evitavano quella gara, avvisando altri di fare lo stesso. L’FBI e le leghe sportive, di fatto, restavano sole.
Alla vigilia dei Mondiali di calcio del 2006, il calcio stava combattendo quella che veniva spesso descritta come un’“epidemia” di partite truccate in tutto il mondo. Si scommettevano miliardi di dollari sul calcio, nei mercati regolamentati e in quelli clandestini, su quasi ogni continente. Vietare il gioco non era una soluzione realistica. FIFA scelse un’altra strada: implementare sistemi di controllo dell’integrità che utilizzavano i dati sulle scommesse provenienti da tutto il mondo. L’analisi di quei dati offriva un vantaggio ancora maggiore rispetto all’intuito dei bookmaker esperti che monitoravano i mercati. La FIFA non si rivolse solo ai bookmaker regolamentati e autorizzati, ma riuscì a convincere anche quelli del cosiddetto “mercato nero” a collaborare. Non potevano impedire ai criminali di provare a truccare le partite, ma potevano individuare dove accadeva e avvisare le autorità competenti. Com’era prevedibile, una volta migliorata la tecnologia per individuare le combine, il numero dei casi scoperti è salito vertiginosamente.
La stessa cosa sta accadendo oggi negli Stati Uniti. La diffusione delle scommesse sportive regolamentate nel Paese ha portato non solo all’istituzione di nuove agenzie statali incaricate di vigilare sui bookmaker, ma anche all’adozione di sistemi di monitoraggio dell’integrità simili a quelli sviluppati dalla FIFA negli anni 2000, in cui i dati provenienti dai bookmaker regolamentati vengono condivisi e analizzati alla ricerca di anomalie (quelli offshore o non regolamentati non partecipano). È stato proprio questo tipo di monitoraggio a permettere alle forze dell’ordine di incastrare il giocatore dei Toronto Raptors Jontay Porter e il giro di scommesse con cui collaborava, l’anno scorso, e la settimana scorsa Terry Rozier dei Miami Heat e l’ex Cleveland Cavalier Damon Jones (Rozier ha negato ogni illecito, così come Chauncey Billups — Hall of Famer e allenatore dei Portland Trail Blazers — arrestato per il suo presunto coinvolgimento in un’organizzazione parallela dedita al poker truccato e ritenuto da molti uno dei cospiratori senza nome nel caso dell’FBI sulle scommesse sportive). Porter è già stato squalificato a vita dalla NBA e rischia anni di carcere per i reati a cui si è dichiarato colpevole.
Il problema è che, per l’opinione pubblica, l’impressione è inquietante: un giorno legalizzi le scommesse sportive, il giorno dopo fioccano scandali di partite truccate. L’assunzione più comune è un rapporto di causa-effetto, quando in realtà è più un caso di correlazione. Quando accendi la luce, gli scarafaggi scappano. Se la spegni, non spariscono: sono sempre lì. La domanda non è se le scommesse legali stiano corrompendo lo sport — ma quanto gli sport fossero già corrotti. E cosa possiamo fare — ora che la luce è accesa — per ripulire il disastro?
Una delle idee più discusse è vietare le “prop bet”, cioè le scommesse sulle prestazioni individuali di un giocatore. Questo tipo di puntata era centrale nei casi Porter e Rozier, in cui i giocatori si sono finti infortunati per uscire dalle partite in anticipo e assicurare che le scommesse sul loro rendimento inferiore alle attese risultassero vincenti. I critici sostengono che queste scommesse siano troppo facili da manipolare, riguardando un singolo atleta, e che vietarle potrebbe rassicurare i tifosi sul fatto che i giocatori diano il massimo in ogni azione.
Le prop bet sono estremamente popolari negli Stati Uniti. Molti giovani scommettitori sono arrivati alle scommesse sportive tramite il fantasy sport, dove imparano a prevedere le prestazioni individuali, e le prop bet offrono l’equivalente più vicino a quel gioco. Una conseguenza della loro popolarità è stata la crescita fenomenale delle “same-game parlay”, scommesse che combinano più prop in una sola partita con la possibilità di vincite molto alte. Queste puntate soddisfano una seconda ossessione tipicamente americana: scommettere poco e vincere tanto.
Per i consumatori, però, sono pessime: i bookmaker offrono quote meno favorevoli del giusto. A chi le gioca, non interessa. Chi mai fa i calcoli quando compra un biglietto della lotteria? Il risultato è che le parlay sono diventate la principale fonte di guadagno dei bookmaker regolamentati. Vietare le prop bet significherebbe eliminare un ingrediente fondamentale del prodotto più redditizio per le piattaforme di scommesse. È probabile che i bookmaker userebbero tutta la loro influenza per impedire che ciò accada.
Potrebbero, però, accettare di smettere di offrire le quote sui “meno” — cioè sulle prestazioni inferiori alle attese. Continuerebbero a far scommettere sui “più”, e dov’è il danno? Se un’atleta prova a segnare più punti possibile affinché un giocatore d’azzardo vinca una scommessa — è ciò che ci aspettiamo che faccia comunque, quindi dov’è il fallo? Ma una scommessa che offre solo “più” senza un “meno” è un “mercato a senso unico”. Senza quote su entrambi i lati — over e under — è impossibile capire se il prezzo sia equo, e dato che il bookmaker accetta puntate solo da un lato, quasi certamente non lo è.
È vero che un singolo giocatore può truccare una prop bet, mentre di solito un solo atleta non può far perdere un’intera partita. Ma la maggior parte delle scommesse sul risultato prevede un point spread, cioè un numero di punti con cui la squadra favorita deve vincere. Uno dei trucchi più comuni nello sport è il point shaving: un giocatore decide di non segnare apposta per mantenere il margine di vittoria della sua squadra sotto quello spread. È facilissimo convincere qualcuno a farlo: tanto la sua squadra vince lo stesso, e chi mai si preoccupa del margine finale, a parte gli scommettitori?
I brogli nello sport sono molto più antichi delle prop bet, e persino più antichi del point spread. Sono vecchi quanto lo sport stesso. Si bara per moltissime ragioni: soldi, gloria, o tutto ciò che si trova nel mezzo. Quello di cui abbiamo bisogno è un sistema efficace per rilevarlo e sanzioni severe per chi viene scoperto. La tecnologia è la nostra arma più potente sul primo fronte. I dati dei mercati delle scommesse smascherano i truffatori molto più spesso di soffiate o inchieste giornalistiche. E se gli enti e le aziende che forniscono questi servizi trovassero un modo per collaborare con i mercati regolamentati e con quelli non regolamentati, sarebbero ancora più efficaci. Al momento, la regolamentazione del gioco d’azzardo è gestita stato per Stato, e non esiste un criterio uniforme su come monitorare e controllare tutto questo a livello nazionale. Le agenzie private dedicate all’integrità sportiva sono quanto di più vicino abbiamo a una forza di polizia incaricata di scoprire le frodi. Gli enti pubblici che si occupano di questi temi possono — e dovrebbero — avere un ruolo più importante.
A nessuno piacciono questi scandali. Ma la verità è che ciò che stiamo vivendo oggi è la soluzione. Questo può irritare chi vuole credere che prima del 2018 nulla di tutto ciò accadesse e che dovremmo tornare indietro. È comprensibile: l’irruzione delle scommesse sportive nel sistema sportivo americano è stata rapida e destabilizzante, e nessuno si è ancora del tutto abituato. Ma la regolamentazione è nata proprio per portare normalità e controllo in un’attività che prima era illegale — ma diffusissima. Fa parte del processo. È doloroso guardare il disastro, ma il fatto che non lo vedessimo non significava che non ci fosse. È ora di ripulire.
David Hill è autore di The Vapors e sta scrivendo un libro sulla storia delle scommesse sportive per Farrar, Straus & Giroux.
