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Guido Meda: «Quando è morto Simoncelli avevo paura di non riuscire a fare il mio lavoro»

Il sogno di diventare chirurgo, i dubbi sulle moto elettriche, il rapporto con i social e le difficoltà di fronte alla tragedia di Sic: faccia a faccia con il vice direttore di Sky Sport

Foto: Federico Guida

Da più di vent’anni è la voce del motociclismo, ha raccontato le grandi sfide, ha inventato modi di dire rimasti nella storia come “Tutti in piedi sul divano”, “Gas a martello” e “Rossi c’è”, quando c’era veramente. Guido Meda, vice Direttore Sky Sport e responsabile della redazione motori, fa parte di quei giornalisti della vecchia guardia, quelli che preferiscono il rumore del motore al sibilo dell’elettrico, quelli che «la mobilità ha sostituito la passione», quelli che hanno costruito un personaggio quasi ingombrante, ma allo stesso tempo popolare grazie alla televisione e al suo modo di comunicare alle persone. Quando gli chiedo cosa vuole dal futuro, lui mi guarda e mi risponde candidamente: «Vorrei che i miei figli stessero bene, che siano felici e vorrei del tempo da dedicare a mia moglie».

Quando incontro Guido, al secondo piano degli uffici Sky, lui non c’è. È in ritardo. Arriva qualche minuto dopo con sigaretta elettronica in mano, golfino legato sopra la camicia e un sorriso sempre stampato sul viso. Tra i corridoi saluta tutti, tira qualche boccata di aria elettrificata, si scusa, mi stringe la mano, apre il suo ufficio e mi fa: «Ok, ci sono. Possiamo iniziare».

Come sta Guido Meda?
Bene, grazie. Io sono un tipo ottimista, lottatore, sempre attivo. Anche quando ti capita di avere delle rogne, te la devi cavare. Questo lavoro mi ha insegnato a tenermi addosso una corazza nelle ore in cui sono in diretta o a contatto con le persone. Solo per le ore in cui serve, anche perché se no diventi un altro e credo che invece, ogni tanto, alle fragilità devi dare sfogo. Se hai da piangere, devi piangere.

E qual è l’ultima volta che hai pianto?
Beh, lavorativamente mi si è stretta la gola quando Petrucci ha vinto al Mugello. Perché vedere vincere un italiano in Italia è sempre un godimento e perché ne ha passate tante e se lo meritava.

Da bambino volevi già fare il giornalista?
Credo di non essermi mai davvero allontanato dal Guido bambino. Ho sempre tanti pensieri, tanti desideri e anche tanti rimpianti. Rimanere, in qualche modo, bambini non so se sia una grande virtù o un forte limite. Magari mi capita di vedere un film nel quale c’è un chirurgo come protagonista e mi dico caspita potevo fare quello. Diciamo che il chirurgo è forse la cosa più credibile che ho desiderato fare da piccolo, in alternativa al reporter di guerra.

E i tuoi genitori, che ne pensavano?
Io vengo da una famiglia di avvocati. Si aspettavano che anche io lo diventassi. Ho iniziato a studiare giurisprudenza, ma contemporaneamente ho iniziato a collaborare con diverse testate e la cosa mi piaceva da matti. Mentre studiare legge, non faceva per me. Ho preferito seguire la passione per il giornalismo e mi è andata bene. Però credo che la vita vada allargata, visto che non è possibile allungarla.

In che senso?
Nel senso che dentro devi condensarla di quante più cosa tu possa fare. Cerco di fare e di imparare più cose possibili per ampliare la mia vita, per impregnarla di esperienze. La vita va da A a B. Non sai quanto sia lungo il segmento, ma sai che è una linea finita. Siccome questa cosa è immodificabile, tanto vale rendere quel segmento un poco più spesso, più cicciottello, più intenso.

Avresti voluto fare il pilota?
Da piccolo, no. Nel senso che ero un grande tifoso di Agostini e Pasolini, ma in tivù facevano vedere poco i gran premi di moto, era difficile immedesimarsi in loro e poi ne morivano veramente tanti. Per questi due motivi, preferivo sognare di diventare un pilota di Formula 1. Però non vedevo l’ora di avere 14 anni per avere il mio primo motorino.

E quando è arrivato, come ti sei sentito?
Libero. Viaggiare su due ruote ti regala delle emozioni che non puoi esprimere con un senso compiuto, anche perché per ogni persona è diversamente bello. Mi ricordo di aver consumato il mio Piaggio Si. E quando, da adulto, me l’hanno rubato è come se mi avessero strappato un pezzo della mia storia. E mi ha fatto male. Ancora oggi, quel furto, mi brucia un sacco.

Detto questo cosa pensi dell’elettrico?
Sarei un bugiardo se dicessi che mi piace e ne vado matto. No, assolutamente. Io preferisco il termico, amo il rumore, voglio lo scoppio. In termini di emozioni, di fruibilità. Per me il mezzo a motore è libertà. L’elettrico non ti garantisce un’autonomia che ti consenta, per ora, di pensare che viaggiare sull’elettrico sia libertà. Nonostante questo, sarei un padre terribile e irresponsabile se trasmettessi ai miei figli il concetto che termico sia meglio.

Lo scorso anno ti capitò una brutta situazione mentre eri su una barca… Che rapporto hai coi social?
Dipende dalle situazioni. In quel caso subito tutti ad etichettarmi come il ricco con la barca di proprietà. A parte che non ci sarebbe nulla di male a possedere una barchetta. Magari. Ma comunque non era mia. Devo dire che ho letto molti commenti negativi, diversi insulti, ma anche tanti segnali di stima, di coraggio, di solidarietà e mi ha fatto molto piacere. L’altro giorno ho pubblicato un post con la foto della mia mamma e ho letto dei commenti inverecondi nei suoi confronti. Ho chiuso tutto. Questa cosa mi preoccupa per il futuro dei miei figli.

E a proposito di questo, che papà sei?
Partiamo dal presupposto che ho una moglie che è campionessa mondiale di pazienza, bontà, generosità, dedizione e, nonostante il mio poco contributo, ha cresciuto tre figli bravi. E di questo sono felicissimo. È chiaro che il Guido papà e il Guido marito deve produrre dei momenti di qualità, perché sulla quantità non ci siamo. Mi rendo conto che comunque tutto questo funziona. Ho notato che i miei figli per i piccoli problemi vanno dalla mamma, mentre per i grossi guai vengono da me. Una delusione amorosa, un’amicizia finita, un litigio col fratello. Mi rincuora molto e mi rende fiero. In casa invece sono un disastro. Non sono molto bravo a fare lavatrici o in cucina, ma cerco sempre di mettere allegria e di strappare un sorriso a tutti. Per fortuna ci sono sempre stato. Nascite, compleanni, saggi di fine anno.

Cosa pensi della politica, anche in riferimento al tuo settore: le moto non si vendono o si vendono poco, soprattutto per le supersportive.
Per me la politica è ininfluente. Che sia i 5Stelle o la Lega, per me poco importa. È un tema mondiale quello della mobilità. Il mondo sta camminando su una strada nel quale la passione, che era quella che avevo io da bambino, si sta facendo sostituire dal concetto di mobilità. Passione significa: che figata andare da A a B. Mobilità, invece, è la funzionalità, facendo nel frattempo cose produttive e consumando zero, se possibile. Nel bombardamento di informazioni che hai dappertutto ogni giorno, qualcosa devi sacrificare e in questi anni la mobilità si sta facendo largo ai danni della passione.

Hai mai avuto paura?
Professionalmente, ho avuto paura di non riuscire a portare a termine il mio compito al meglio quando è morto Marco Simoncelli. Perché in quel momento lì non ero soltanto il giornalista che con distacco asettico raccontava le vicende. Io in quel momento stavo perdendo anche un amico. Ero in diretta con milioni di italiani che mi stavano ascoltando, mentre dentro soffrivo, mi dilaniavo. Avevo di fianco Reggiani che piangeva, si capiva che era successa una cosa grossa. La chiave per uscire da quel momento difficile è stata quella di concentrarmi sulla sua mamma e sulla sorella che erano a casa loro e stavano guardando la televisione. Lì per me è stato davvero complicato, avrei voluto essere da un’altra parte.
Invece, fuori dal mondo del lavoro, nel 2003 ho fatto un incidente in moto più severo degli altri. Per evitare una signora che stava facendo inversione, ho preso in pieno lo spartitraffico che mi ha lanciato. Mi sono trovato a terra, totalmente a pezzi. Non avevo più una parte del corpo integra. E lì, in quel momento, ho avuto paura di non tornare più come prima. Anzi, di non tornare. Però, l’incidente è stato spettacolarissimo. Moto divisa in due, un pezzo in fiamme, l’altro sul tettuccio di un’auto. Avessi avuto una telecamera…

Ringrazio Guido ed esco dal suo ufficio. Prima di lasciarmi andare mi guarda e mi fa: «Grazie a te. Era tanto che non tiravo fuori queste cose, è stata un po’ una seduta psicanalitica».

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