Qualunque cosa sia stato il miracolo italiano, lo sintetizza alla perfezione la presenza di alcuni tra i più straordinari talenti del Novecento, che nel mondo artistico come sportivo hanno segnato i loro campi di azione in modo indelebile. Tra loro sicuramente Giacomo Agostini, ora celebrato nel bel volume Ago. Una vita da campione (Rizzoli) in cui il grande motociclista (il più grande di tutti i tempi) si racconta insieme a Raffaella Sala.
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Nelle ultime settimane molto si è parlato del trionfo in MotoGp di Marc Márquez, che con la vittoria del 2025 ha raggiunto a nove titoli mondiali vinti proprio il suo più grande avversario (per non dire nemico) Valentino Rossi, ma quello che non va dimenticato è che Giacomo Agostini di mondiali ne conta ben quindici. Praticamente un traguardo irraggiungibile, in molto ci hanno provato dopo di lui, in molti ci proveranno dopo Márquez, ma di certo quello di Agostini resta un primato tra i più longevi al mondo. Ma torniamo alle origini, a un Paese – l’Italia – uscito a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale, con poche risorse, soprattutto tecnologiche e un futuro tutto da ricostruire.
Dal 1947 al 1964 si traccia la parabola di quello che è stato definito il miracolo economico italiano, il famoso Boom. L’unico periodo in cui l’Italia crebbe non solo a ritmi vertiginosi, creando anche una ricchezza diffusa, ma in cui riuscì a ridurre il distacco economico che da sempre la separava dagli altri Paesi europei.
Quel miracolo che coincise anche con scelte ben precise, e che Nicola Rossi analizza approfonditamente nella ricerca contenuta nel bel saggio Un miracolo non fa il santo. La distruzione creatrice nella società italiana (IBL Libri), fu alla base di un’euforia diffusa che contagerà tutti gli anni Sessanta, facendo esprimere in più campi e in più forme, anche eclettiche le une dalle altre, una dinamicità eccezionale.
Un sogno a occhi aperti fatto di successo e professionalità, di visione del futuro e consapevolezza del presente che venne simbolicamente rappresentato con l’oro di Livio Berruti alle Olimpiadi di Roma del 1960 e con il titolo mondiale Superwelter vinto nel 1965 da Nino Benvenuti (anche lui medaglia d’oro a Roma nel Sessanta). Berruti e Benvenuti imponevano così sulla scena mondiale un’idea di italiano ben lontana dai cliché fascio-folcloristici fino ad allora espressi. Entrambi erano infatti atleti seri, simpatici e gentili, dall’aria inappuntabile e sopratutto dettavano un’idea nuova di professionalità anche nello sport. E con loro stava salendo alle cronache anche colui che sarebbe diventato il più vincente motociclista di tutti i tempi, un pilota capace di riassumere in sé leggenda e professionalità, bellezza e implacabile voracità di vittorie.
Giacomo Agostini, 83 anni compiuti e splendidamente portati, ancora aspetta che qualcuno batta o quanto meno eguagli i suoi record a partire dai quindici titoli mondiali conquistati in carriera a cui vanno comunque aggiunti le non indifferenti diciotto corone ottenute nel compiano italiano.
Giacomo Agostini, detto Mino dagli amici e Ago da tutti (anche dai nemici) è stato il primo vero pilota moderno di motociclismo, per cura, ossessione e assoluta professionalità. Ma a differenza di altri, in altre categorie e in altri sport, portò con sé anche tutta la mitologia che afferisce solo ai miti e alle leggende che lo avevano preceduto.
Bergamasco nato a Brescia, e già questo è un record di sintesi oltre che indicativo di una personalità e di una dura ostinazione pronta a prendersi tutto il campo e a non fare prigionieri, Agostini proveniva dalla ricca e produttiva provincia lombarda, quella dei commenda e delle fabrichette, del lavoro ventiquattro ore su ventiquattro e della domenica a messa. Cresciuto a Lovere, località di lago buona per le lune di miele e le gite, Mino porta dentro di sé l’atavico e il moderno, il senso di un rischio folle e smisurato ma anche la misura giusta, quella che serve per vincere sempre, quella che serve per battere tutti.
Agostini è stato per il motociclismo e per la MV Agusta che portò al trionfo, quello che Niki Lauda fu per la Ferrari, con la differenza (sostanziale) che Lauda certificò una cesura tra la Formula 1 eroica e quella moderna. Agostini no, Agostini fu tutto: come se Lauda fosse stato anche un po’ Jim Clark e un po’ Juan Manuel Fangio, come se nel ciclismo Eddy Merckx fosse stato un po’ Fausto Coppi e un po’ anche Jacques Anquetil.
Si tratta di stile, di eleganza e di esecuzione del tutto, ma anche di numeri che nel caso di Agostini sono pesantissimi. Attorno a lui finiva l’epoca degli eroi e si affacciava quella dei professionisti, ma soprattuto nascevano miti destinati a spegnersi spesso gara dopo gara in un tempo in cui correre, e correre forte e follemente come nessun altro avrebbe più fatto, era spesso sinonimo di morte in pista. Agostini no, Agostini nemmeno scivolava, anzi teneva un ritmo indiavolato, come un metronomo. Una velocità che nessuno – se non a rischio vero e concreto della propria pelle – poteva raggiungere.
Certo il mezzo contava eccome, contava allora come oggi, e la su MV Agusta era spesso superiore alle altre, ma questo nulla toglie, anzi rende ancora più palese una voracità e un’ostinazione che lo portò anche a vincere ben dieci volte il Tourist Trophy. Una corsa folle e suicida che si tiene sulle strade dell’isola di Man tra centri abitati e strade sconnesse. Una corsa quasi sempre riservata ai piloti inglesi che di quelle strade conoscono ogni pendenza e ogni tombino. Con Ago in corsa, per dieci volte nessun inglese vide il traguardo per primo.
Agostini aveva una facilità di adattamento ineguagliabile da nessun altro pilota, poteva conoscere poco o per nulla il percorso o la pista che in pochi giri subito era in grado di raggiungere il limite. E spesso il suo limite era ben oltre il limite di ogni altro concorrente.
Vinse all’esordio – già a trentadue anni – la duecento miglia di Daytona decretando in buona sostanza la fine della carriera di Kenny Roberts che lo accolse come tutta la stampa statunitense con non poca arroganza, passando nell’arco del weekend di gara dal: «Me lo mangerò crudo» al «non posso credere che Agostini sia un essere umano».
Giacomo Agostini seppe sempre andare oltre le aspettative, ma con apparente tranquillità e facilità assoluta. Il massimo della tensione sulla griglia di partenza la viveva tranquillamente tagliandosi le unghie delle mani – che curava come un estetista – con un Trim (che pare porti sempre con sé ancora oggi), stando accanto alla moto in attesa d’indossare il casco e partire. Curava se stesso almeno quanto curava la moto con non poche tensioni con i suoi meccanici che più volte consultava fino allo sfinimento, uno sfinimento che portava però a trionfi continui.
L’unica volta che si tirò indietro fu rigettando una proposta di Enzo Ferrari. Era l’inverno del 1966 e Agostini fu chiamato a testare una Ferrari Dino 206 S Berlinetta, con lui Ignazio Giunti e Andrea De Adamich. Agostini andò molto veloce tanto da aggiudicarsi una proposta di contratto da parte di Enzo Ferrari, ma le moto erano ancora la sua priorità.
Solo a fine carriera provò con le auto, ma quasi più per sfizio e solo in categorie minori, così come provò anche con il cinema recitando in tre pellicole non memorabili, ma che non sfigurarono negli incassi: da Formula 1. Nell’inferno del Grand Prix del 1970 ad Amore in Formula 2 del 1971 in compagnia di Mal e di Lino Banfi.
Ago. Una vita da campione, riccamente illustrato con splendide fotografie, racconta di un’epoca eroica di cui Agostini fu protagonista e anche – va detto – superstite. Anni in cui si raggiungevano i circuiti di gara con il solo biglietto d’andata in tasca. Agostini si racconta tra episodi divertenti, baruffe e una vita post motociclismo non priva di soddisfazioni, ma anzi segnata da una concretezza (molto bergamasca) che vede nel fare e nel fare bene, una forma fondamentale di esistenza.
Dopo Agostini verrano i grandi campioni americani e australiani degli anni Ottanta alla guida delle potenti e bellissime moto giapponesi, un cambio di paradigma che aveva le radici nell’idea di motociclismo dello stesso Agostini. Valentino Rossi si è avvicinato a quel primato e ha portato un’innovazione straordinaria nel motociclismo e in parte ha anche restituito a quello sport un’aura di leggenda che andasse oltre i numeri e le logiche tecniche.
Entrambi in fondo vengono da due province italiane, seppure molto diverse tra loro come molto diversi sono Valentino Rossi e Giacomo Agostini. Certo che quindici titoli conquistati correndo due gare a domenica con moto di due categorie diverse prese in mano senza troppe menate (come fosse un fatto normale) è un segno che sta più dalle parti della performance artistica che sportiva. Una fatica e una prestazione assoluta, che oggi Giacomo Agostini osserva con un’alzata di spalle, quasi imbarazzato, perché in fondo non faceva poi nulla di diverso da quello che facevano tutti gli altri, solo in modo tremendamente più veloce.
