Elogio a Claudio Ranieri, l’arte di essere diversi | Rolling Stone Italia
Leva calcistica del '51

Elogio a Claudio Ranieri, l’arte di essere diversi

Domenica sarà la panchina numero 501 in carriera di Sir Claudio, l'ultima con la sua amata Roma, ma anche della sua carriera (fino a possibili scelte di cuore). L'omaggio a un allenatore differente

Elogio a Claudio Ranieri, l’arte di essere diversi

Claudio Ranieri dopo l'ultima panchina con la Roma allo Stadio Olimpico

Foto: Paolo Bruno/Getty Images

Il commiato dallo Stadio Olimpico, domenica dopo Roma-Milan, è stato con Francesco De Gregori e La leva calcistica della classe ’68. Ma musica e parole sono state tutte di Claudio Ranieri. All’ingresso in campo, una novantina di minuti prima o giù di lì, la Curva Sud giallorossa lo aveva omaggiato con una monumentale coreografia, sobria e d’elegante semplicità come il destinatario del messaggio. Il giallo, il rosso, il font corsivo per il suo nome.

A trentacinque anni dalla prima volta per Claudio Ranieri era la panchina numero cinquecento in Serie A. Domenica, a Torino, sarà la cinquecentouno, poi basta. Come a rovinare la cifra tonda, a ribadire una volta di più che la perfezione non è cosa di questo mondo e di questo gioco, e va bene così. La sua squadra chiuderà il campionato giocandosi l’accesso alla Champions League: impensabile quando era arrivato, a novembre, con i giallorossi dodicesimi. Da allora la Roma in Serie A ha fatto più punti di tutti: più del Napoli e dell’Inter, che tra poche ore si giocheranno lo scudetto.

Ranieri lo aveva già fatto, sempre in giallorosso, quindici anni fa. Aveva preso la panchina della Roma dopo due sconfitte nelle prime due di campionato, e nelle restanti trentasei partite, praticamente un campionato intero, aveva fatto più punti persino dell’Inter, quella del 2010. Quella di Mourinho, quella del Triplete che i giallorossi arrivarono a mettere in discussione, perdendo poi il tricolore in una sciagurata partita contro la Samp.

A poter spezzare un campionato in (grossissime) fette, per due volte una Roma di Claudio Ranieri è stata parziale e virtuale campione d’Italia: sarebbe stata una bella storia. Ma per certi versi non coerente. E nell’omaggio del popolo giallorosso a chi l’ha condotto per tre volte in tre diversi decenni, quasi nulla ha a che vedere con i risultati, i successi, i traguardi.

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Quanto ai traguardi concreti, quelli che entrano in palmares, l’ultimo era stato in Sardegna. La chiamata del Cagliari lo aveva fatto desistere dai suoi propositi di ritiro e tornare in panchina, e aveva fatto bene. Cinquecento(una) partite in massima serie, ma probabilmente il momento che più racconta cosa sia Claudio Ranieri non è in Serie A, e non è nemmeno in un’altra massima serie europea, e se è per questo non è nemmeno mentre il pallone rotola. L’11 giugno di due anni fa la pioggia battente era finita, Pavoletti aveva deciso all’ultimo respiro la finale playoff che aveva riportato il Casteddu in massima serie, gelando il Bari e il San Nicola molto più che il clima. Lacrime da una parte, gioia dall’altra, lui solitario sotto il settore ospiti dal quale i tifosi neopromossa stuzzicavano con cori di scherno i padroni di casa. No, urlava Claudio Ranieri ai suoi tifosi, non si fa. E invitò all’applauso verso i cinquantamila sconfitti.

Il Cagliari lo aveva richiamato solo pochi mesi prima, in uno dei momenti più bui della sua storia recente, sceso in B, lontano dalla zona playoff. Lo aveva fatto anche nel 1988, reduce dalla retrocessione in C1 a diciotto anni dallo scudetto di Gigi Riva e compagni, il punto più basso toccato da allora e anche in seguito. E per risalire e poi tornare in fretta tra i grandi (e che fretta, visto che saranno in semifinale di Coppa Uefa solo cinque anni dopo) i sardi scelsero lui, reduce dalla guida della Puteolana, la sua seconda panchina appena.

Il primo giorno di Ranieri sulla panchina del Cagliari, Arrigo Sacchi doveva ancora vincere un trofeo internazionale su quella del Milan. Il giorno del suo debutto in Serie A avevano appena spento la musica di Italia 90. Claudio Ranieri ha percorso fasi e correnti, zone e tiki-taka, rivoluzioni e involuzioni, indistinguibile eppure distinguibilissimo. Nell’inguaribile garbo per esempio, nel raffinato equilibrio dentro un carrozzone pallonaro sempre più incline a fanatismo e isteria. O nella paternità di nessuna visione o pretesa di reinventare il gioco, solo poche cose ma chiare e sempre attuali. Nella straordinarietà di non avere mai una parola fuori posto, nemmeno sotto pressione. Per oltre tre decenni Ranieri ha rappresentato un’icona di stile, sempre di moda a ogni latitudine, un salvatore della patria in qualsiasi patria, nativa o putativa. Romano e romanista, Claudio Ranieri è stato un po’ di tutti, come ogni fuoriclasse. In acque tempestose, chiama Ranieri: lo aveva fatto anche la Fiorentina, dopo la retrocessione shock del 1993. Ne nasce una delle Viola più belle degli ultimi decenni: Batigol, la Coppa Italia, la Supercoppa e la semifinale di Coppa delle Coppe, a voler ragionare di risultati.

Quasi nulla a che vedere con i risultati, ma è un quasi grande così. Perché quello che King Claudio ha fatto nella Premier League degli sceicchi, dei petroldollari e via discorrendo, riecheggerà per l’eternità, come si suol dire. Il suo Leicester campione d’Inghilterra è un bug nel sistema del calcio moderno che oltremanica raggiunge la sua quintessenza. Nel 2016 le Foxes di Claudio Ranieri fanno saltare il banco. Letteralmente, mica per modo di dire: per i bookmakers inglesi, abituati a quotare proprio tutto, a inizio stagione il Leicester campione di Premier è meno probabile di Kim Kardashian Presidente degli Stati Uniti e dell’esistenza del Mostro di Loch Ness.

Non sono mancati i colpi duri e i momenti che devono essere stati tremendi: come quella corsa allo scudetto alla guida della sua Roma finita proprio sul più bello, arresa a un avversario diverse spanne superiore. O come l’umiliante sconfitta di misura contro le Fær Øer da commissario tecnico della Grecia. Ma anche lì si è misurata la capacità di Ranieri di tener botta, la silenziosa durezza della pelle da buon sardo d’adozione, la capacità di riuscire uomo per tutte le stagioni, ancora, e ancora.

I trentanove anni da allenatore di Claudio Ranieri sono un lungo e ininterrotto elogio della normalità, dell’educazione fuori sistema, sono l’interminabile racconto di un personaggio stimato anche dai rivali perché persona, l’anomalia in uno show cambiato più d’una volta e non sempre in meglio, con primi attori arrivati, esplosi e poi scomparsi. E Ranieri lì, che fosse provincia o fosse una big, che fossero le avventure da pioniere all’estero quando per i coach italiani non era ancora frequentissimo, o gli improbabili e scomodi campi dell’inferno della Serie B, solo ieri l’altro.

La lunga e regolare percorrenza di Claudio Ranieri dentro trentanove anni di calcio italiano, pieni zeppi di fragorosi miti, vertiginose illusioni e disillusioni, campionissimi e flop, overdose di danari e poi lunghe disgrazie, è il regalo che il pallone nostrano forse non meritava, ma ha avuto. Lo sberleffo del fato è che l’allenatore romano il suo trionfo lo ha avuto altrove, e anche in questo caso va bene così. In Scozia Nessie non si è ancora fatta viva, per quanto improbabile a Washington il Presidente non è proprio Kim Kardashian, ma potremo sempre dire che il Leicester di Claudio Ranieri è stato campione. E molte altre cose.

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