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Drake-Land: come Drake sta diventando il padrone della NBA

Come può in poco tempo un rapper canadese diventare il faro di un'intera lega sportiva americana?
Foto via Facebook

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Chi controlla i controllori – dei cuori, delle menti e dei portafogli di milioni di appassionati di basket sparsi per il globo? Chi controlla i LeBron James, i Kevin Durant, gli Steph Curry? C’è qualcuno, nel mondo NBA, di più potente, ricco, dominante?

La risposta, con ogni probabilità, è no (almeno nel caso di LeBron). Ma un corsaro senza tema giunto dal Canada è sbarcato sui lidi della più luccicante lega cestistica, pronto a far razzie. Il suo nome è Drake, come l’antico navigatore inglese Sir Francis. Questo Drake, come il britannico, è un esploratore di nuove terre attratto dallo scintillio dei dobloni; bonus rispetto alter ego cinquecentesco: è pure rapper e imprenditore. Il curriculum è invidiabile: più di dieci milioni di dischi venduti negli Stati Uniti, relazioni con la controparte femminile Rihanna e con la controparte milf Jennifer Lopez, 3 Grammy vinti su 35 nomination, 100 milioni di dollari guadagnati. E il basket che c’azzecca? Il buon Drake, pur canadese, è turbofanatico della NBA da sempre. E, come sapranno gli appassionati, negli USA lo sport è prima business e poi sport; un’ottima opportunità per unire il dilettevole all’imprenditoriale.

I Toronto Raptors, nel 2013, nominano il rapper “global ambassador”; in soldoni: Drake è l’uomo immagine della franchigia – unica non statunitense a far parte della NBA – all’estero. Non finisce qui. Il rapper entra sottopelle a buona parte delle superstar del basket, stringendo amicizie – in bilico, più o meno, tra spontaneità e interessi commerciali – coi vari LeBron, Durant e Curry citati sopra, riservandosi l’opportunità di fingere feud alla bisogna, per pimpare ulteriormente la propria già smodata visibilità. La scalata è interminabile: oltre a farsi vedere a bordocampo nelle partite chiave dei suoi Raptors e in quelle più patinate dei playoff, Drake – che così fa il salto definitivo da maggiordomo libertino a co-padrone della NBA – ottiene di condurre, lo scorso giugno, i primi NBA Awards in formato show tv. Trattasi dell’occasione in cui vengono premiati i giocatori migliori della stagione precedente. Come a dire: tu LeBron, tu Durant, tu Curry, devi passare da me se vuoi aver riconosciuto a tutti gli effetti il tuo status. Sono io che do il ritmo alle danze e mi prendo le luci della ribalta: siete tutti parte del grande spettacolo di Drake.

E Drake, che a livello di showmanship non si fa mancare nulla, è pure un host competente. Sfotte le star del basket del presente e del passato presenti alla serata (dalla leggenda dei Celtics Paul Pierce, sul cui ritiro afferma: “i tifosi pensavano avesse smesso anni fa, visto come giocava”; a LeBron che sta diventando calvo “ma la gente se n’è accorta nel 2007”; all’autopresaingiro ecumenico-magnanima-profetica: “Tifo due squadre: i Raptors e i più forti del momento. Salto sul carro dei vincitori”.

Il brainwashing prosegue, anche a colpi di playlist. Drake è il musicista più ascoltato dai giocatori NBA; il 28% dichiara di cantare i suoi brani in auto. E poi ci sono i progetti cinematografici, vedi il documentario che ha co-prodotto – con la compartecipazione ancora di LeBron – sulla storia della leggenda dei Raptors Vince Carter, presentato all’ultimo Toronto Film Festival.

Insomma Drake, alla luce del sole e saltando cinque gradini per volta, sta divenendo il faro della NBA e, per esteso, del sistema-basket mondiale. Come il corsaro inglese che ha sconfitto la Invencible Armada spagnola, rischia di rimanere senza rivali. Al contrario di Francis Drake – morto di dissenteria a 55 anni, in disgrazia – il canadese sta riuscendo a diventarci lui, invincibile; nella terra degli invincibili.

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