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Black Zeus

Un viaggio in Grecia per incontrare Giannis Antetokounmpo, appena nominato MVP dell'NBA. Che a 10 anni faceva il venditore ambulante per le strade di Atene e ora è il giocatore di basket più forte del pianeta. Senza dimenticare le sue radici, come ci racconta in un'intervista esclusiva

Giannis Antetokounmpo, MVP dell'ultima stagione NBA

Pericle, colui che inventò la democrazia, scoppia a piangere dentro al Ceramico di Atene, davanti al cadavere del figlio ucciso dalla peste. Piangono assieme in una tenda alle porte di Troia Priamo e Achille, assassino di suo figlio. Piange Agamennone quando vede il fratello Menelao ferito in battaglia e pure Ulisse al pensiero della sua Itaca lontana. Funzionava così nell’antica Grecia, dove vigeva la “cultura della vergogna” e il proprio onore non poteva prescindere da quello che la comunità pensava di te.

Una settimana fa, 25 secoli abbondanti dopo Omero, le lacrime hanno bagnato le guance di un nuovo eroe greco. A Santa Monica, in California, Giannis Antetokounmpo ha resistito una manciata di secondi prima che l’argine dell’emozione venisse giù e le parole smettessero di fluire. Pochi istanti prima aveva ricevuto dalle manine di Shaquille O’Neal il premio di MVP, il miglior giocatore della stagione NBA appena conclusa. Per fare un paragone che imbarazzerebbe ogni appassionato di palla a spicchi, il Pallone d’oro del basket.

Il cestista più forte del pianeta, almeno negli ultimi 12 mesi, nasce ad Atene nel 1994 da genitori nigeriani. La sua ascesa all’Olimpo della pallacanestro ha travolto tutti quanti, da quando nel 2013, perfetto sconosciuto dal fisico impressionante e il talento tutto da verificare, viene scelto al draft dai Milwaukee Bucks, uno dei 30 team che compone la lega professionistica del basket americano. Il suo nome viene fatto in quindicesima posizione, prima di lui – anzi prima di tutti – è chiamato Anthony Bennet, della cui parabola sportiva oggi si sono irrimediabilmente perse le tracce.

Giannis, invece, mese dopo mese diventa sempre più consistente. All’atletismo che da subito lascia intravedere aggiunge in fretta una buona dose di muscoli. In giro cominciano a chiamarlo The Greek Freak, lo scherzo della natura venuto dalla Grecia, che anche se non sembra è un complimento. L’America ha intuito come andrà a finire: con quel fisico e quell’energia – cui va sommato un repertorio tecnico notevole – il destino da dominatore è inevitabile.

Una manna celeste per lo sport business a stelle e strisce, che su storie peggio sceneggiate della sua è capace di costruire le proprie fortune. Perché quella di Antetokounmpo è un’epica della contemporaneità, con tanto di finale esplosivo. I genitori di Giannis – il suo vero cognome sarebbe Adetokounbo, adattato ai suoni della terra di migrazione – arrivano in Grecia nel 1991 e passano diversi anni nel Paese senza documenti, che lo stesso giocatore ha ottenuto solo pochi anni fa. Per mantenere i suoi ragazzi, il padre fa ogni tipo di lavoro, dal muratore al venditore per strada. Per le vie del suo quartiere, Sepolia, con pacchi di cd o ciabatte tra le mani, c’è anche il futuro fenomeno del basket Usa, che più volte, timido ma fiero, ha ricordato i suoi trascorsi da ambulante.

Quest’anno quel ragazzo si è caricato sulle spalle i (un tempo) derelitti Bucks e li ha portati fino al miglior record di vittorie della lega in stagione regolare e alle finali di Conference, perse contro i campioni di Toronto. Da Milwaukee, la città di Happy Days e dell’Harley Davidson, la Giannis-Mania è dilagata ovunque, fino a diventare un fenomeno di lifestyle. Lo conferma la scelta di Nike di dedicargli – primo atleta europeo a ricevere l’onore – un paio di signature shoes (le scarpe personalizzate degli atleti, ndr): le Zoom Freak 1.

La presentazione delle calzature, organizzata in grande stile dal brand di Portland, è l’occasione per incontrare il fresco MVP dell’NBA nella città che lo ha cullato e cresciuto: Atene. Ci sbarchiamo di giovedì sera, pronti a farci testimoni della sua odissea e del suo trionfo.

Uno scatto di Antetokounmpo con la maglia dei Milwaukee Bucks

CANTAMI, O DIVA DI GIANNIS DA SEPOLIA

Se la mitologia greca ci ha insegnato una cosa è che non bisogna mai sfidare la potenza del sole. Per questo temiamo ripercussioni divine quando scopriamo che la presentazione delle nuove scarpe di Giannis sarà alle 11 di mattina, mentre un caldo d’inferno avvolge la città. Teatro del ritorno a casa dell’eroe vincitore, reduce da una stagione di fatiche oltreoceano lunga nove mesi, è lo Zappeion, sfarzoso edificio neoclassico nel centro della capitale greca. Situato a pochi passi dallo stadio Panathinaiko, dove si conclusero con il trionfo di Stefano Baldini i Giochi del 2004, ha ospitato tra le sue imponenti colonne le prime Olimpiadi moderne nel 1896. Un secolo dopo lo Zappeion sarebbe stata anche la sede della firma del trattato per l’entrata della Grecia nella Comunità Europea, ma questa è tutta un’altra storia.

Ora al centro del grande atrio c’è un palchetto, e sopra appoggiate delle scarpe da basket. La lungimiranza – e un po’ di fortuna, che non guasta mai – di Nike, che ha organizzato la gita nell’Attica a pochi giorni dall’assegnazione del titolo di MVP, ha trasformato l’unveil delle nuove scarpe in un evento decisamente atteso. Giornalisti e influencer di mezzo mondo sono seduti sugli spalti e mulinano un ventaglio gentilmente offerto, che sarà però del tutto inutile non appena il sole supererà la cupola di protezione e sbucherà sopra le nostre teste.

Giannis Antetokounmpo presenta le sue signature shoes allo Zappeion di Atene

Per primo fa la sua apparizione nell’arena Ross Klein, di mestiere Senior Creative Director del Basketball Footwear di Nike. A capo del gruppo di designer che per 18 mesi ha lavorato assieme alla star dei Bucks alla messa a punto delle Zoom Freak, indossa inspiegabilmente un giacchino che mette caldo solo a vederlo. «Negli ultimi 12 anni Giannis ha vissuto sul campo da basket, fino a diventare l’archetipo dell’atleta moderno», dice Klein, che per realizzare le signature shoes di Antetokounmpo ha preso spunto dalle varie scarpe usate dal giocatore in carriera e in particolare le “Kobe”, le sue preferite. «Abbiamo cercato di coniugare velocità e potenza, le sue due principali caratteristiche. E metterci dentro tutta la sua vita».

A questo punto, provocando un principio di eclissi con i suoi 211 centimetri, entra in scena Giannis Antetokounmpo. Ha una t-shirt con su scritto “Freak” e nonostante la fama planetaria è a suo agio fino a un certo punto con tutti gli obiettivi addosso. Si siede e gioca un po’ con le sue nuove scarpe tra le mani. «Ci ho voluto inserire le cose che per me contano di più, la mia terra e la mia famiglia», dice. Mica male per uno che una decina d’anni fa doveva dividere l’unico paia di sneakers con il fratello e che dopo l’arrivo in NBA, vedendo il collega Caron Butler buttare via un paio di calzature quasi nuove, gli chiese cosa stesse facendo e se poteva tenerle lui.

Questa è stata per anni la sua attitudine, che ancora non lo ha abbandonato. Per questo, nonostante il primo contratto da professionista – si parla di milioni di dollari –, ha passato mesi a ordinare solo insalate, perché al ristorante non sapeva proprio come ci si dovesse comportare. Per questo è andato in giro per Milwaukee per settimane senza un dollaro e gli capitava di ritrovarsi a fare chilometri a piedi per raggiungere il campo d’allenamento, perché non aveva con sé i soldi per chiamare un taxi. Potremmo andare avanti parecchio con gli aneddoti sul suo pauperismo: sono una specie di genere letterario per i fanatici NBA.

Sulla suola delle Zoom Freak ci sono i nomi dei suoi genitori: la mamma Veronica, che è seduta a pochi passi da noi e sta sempre in diretta con il suo smartphone, e papà Charles, scomparso due anni fa. E poi i colori della bandiera greca e la scritta “All Bros”. Fratelli che, uno dopo l’altro, lo raggiungono sul proscenio. Thanasis, il maggiore, gioca con lui nella nazionale greca e ora sta al Panathinaikos, la squadra più forte del Paese; Kostas, classe ’97, è stato scelto un anno fa al draft NBA da Dallas; Alex, il piccino – si fa per dire – di casa, ha 17 anni e Giannis lo presenta come “the next big thing” del basket internazionale. Nell’esatto momento in cui il loro breve show giunge al termine, il sole supera il semicerchio e punta dritto alle nostre teste. Lungimiranti e un po’ fortunati.

Da sinistra a destra Kostas Antetokounmpo, Alex, Thanasis e Giannis

LE 12 FATICHE DEL GIOVANE GIANNIS

Il bus ci fa scendere di fronte a un verduraio. Percorriamo gli ultimi metri a piedi ed entriamo nella casa del Filathlitikos, la squadra di Zografou, popoloso sobborgo nella parte Est della città. Il posto sembra proprio quello che è: una palestra di periferia, di quelle con i quadri svedesi alle pareti e i listelli del parquet lisi e ingialliti. Qui Giannis Antetokounmpo ha esordito nel mondo del basket quando aveva 13 anni, arrivando fino alla prima categoria greca. Giunti a loro tempo in pellegrinaggio, gli osservatori della National Basketball Association si sono seduti sugli scomodi gradoni di cemento e hanno provato a immaginare cosa sarebbe potuto diventare quell’albatro che stringeva la palla in mano come fosse un agrume. A Milwaukee ci hanno immaginato bene. 

Sul muro all’ingresso c’è una gigantografia del giocatore che risale 2013 e accanto un altro drappo, issato pochi giorni fa in occasione dell’MVP. Fa parecchio effetto quella rappresentazione plastica della sua vertiginosa trasformazione fisica, da esile e quasi impaurito ragazzino “fuori misura” alla statua neoclassica che è oggi.

Mentre diamo un’occhiata in giro e ci imbuchiamo nella minuscola sala pesi (arrugginiti), in campo va in scena un’improbabile clinic con i giornalisti, invitati a mettere alla prova i propri talenti con le Zoom Freak ai piedi. A un certo punto Giannis entra sul rettangolo di gioco e mostra a tutti i movimenti che lo hanno reso il numero uno del pianeta Terra: prima lo spin move, poi il suo proverbiale eurostep. Gianluca Gazzoli, nostro compagno di viaggio, ha la geniale e al contempo malaugurata idea di sfidarlo nell’uno contro uno: l’MVP gli gira attorno, lo manda per terra e si abbatte sul canestro come un Mig in picchiata. Internet approva.

Dopo aver passeggiato sul nostro amico, Giannis non appare particolarmente turbato. Si accomoda su un sedile rinforzato da un paio di cuscini e si appresta a concederci una chiacchierata in esclusiva. È a casa sua, non metterà grandi filtri alle parole.

Chiudi gli occhi e fai correre la memoria: qual è il tuo primo ricordo in questa palestra?
Vediamo… erano 12 anni fa. Il canestro è quello alle mie spalle, e io eseguo quella che poi sarebbe diventata la mia signature move (il suo marchio di fabbrica, ndr): lo spin (o virata, ndr). Adesso che ci penso quelli sono stati i miei primi due punti ufficiali della carriera. La verità è che ogni volta che entro qua dentro sono sopraffatto dai ricordi. Ce ne sono anche di dolorosi, tante sconfitte, ma il tempo che ho passato tra queste quattro mura con i miei compagni, con il mio coach e tutto lo staff è stato speciale.

Com’è Atene oggi, vista da MVP?
Sto iniziando ora a realizzare cosa significhi questo riconoscimento per la mia comunità, in generale per il popolo greco. È una sensazione bellissima vedere la gente così felice e fiera. La vita cambia in fretta, ora sento addosso grandi responsabilità. Sono conosciuto in tutto il mondo, un atleta globale: per me continuare a rappresentare il mio Paese, il quartiere e la squadra in cui sono cresciuto è fondamentale. Voglio solo fare la cosa giusta, provare a essere un esempio.

Sei greco e le tue origini sono nigeriane. Come definiresti il rapporto che hai con le tue radici?
Dici bene: sono nigeriano, quello è il Paese dei miei genitori. E sono greco, perché sono nato qua. Sono entrambe le cose. So dove affondano le mie radici. Ne sono fiero, e cerco di portare sul campo con determinazione tutto questo, il mio essere nigeriano e il mio essere greco. Di abbracciare in ogni momento entrambe le mie culture.

L’allenamento è finito. Nei quattro angoli i giornalisti si slacciano le scarpette, che colorano di chiazze arancioni il parquet della palestra. Giannis si alza e abbraccia forte un signore con l’aria dimessa, che pare un po’ a disagio in mezzo a quel trambusto. Si chiama Takis Zivas ed è stato il primo allenatore del mostro con la maglia numero 34. Qui è una leggenda, anche se non spiccica una parola di inglese e appena uscito in giardino si accende una Marlboro di decompressione.

«Ogni anno Giannis torna qua ed è come se non se ne fosse mai andato», esordisce, con la collaborazione di un’interprete parecchio fiscale. «A 12 anni era esattamente come oggi, solo più basso e meno famoso». Ora sorride, poi dà un altro tiro alla sigaretta. Antetokounmpo lo adora. Quando nessuno vedeva in lui un campione di basket, Takis già preconizzava un futuro da signore degli anelli per quel ragazzo che passava le giornate a bersagliare il canestro e la notte stendeva un materassino a bordo campo, perché i 10 chilometri che ogni giorno percorreva a piedi per andare ad allenarsi erano proibitivi da fare in senso opposto. «Quando Giannis è stato scelto al draft NBA, dissi a tutti che sarebbe diventato il nuovo Toni Kukoc (leggendario giocatore croato, alfiere dei Bulls di Jordan, ndr) e la gente rideva. Invece è diventato molto, molto più forte».

Coach Zivas segue un’unica regola: mai smettere di lavorare su se stessi e sui propri limiti, nemmeno quando in salotto brilla il premio di MVP. «Ora che ha raggiunto il vertice, deve continuare a darci dentro. Le difese su di lui diventeranno sempre più dure, per cui deve migliorare le sue doti di dribbling per spezzare i raddoppi e andare a canestro. Questa è la prima cosa che gli ho detto quando l’ho visto».

Giannis nella palestra del Filathlitikos

QUATTRO DIOSCURI E UNA PALLA DA BASKET

Sabato mattina. Se possibile fa ancora più caldo del giorno prima. Il pullman si lascia alle spalle piazza Syntagma, il cuore vivo della città in cui negli ultimi anni gli ateniesi hanno sfogato la propria rabbia in violenti scontri. La direzione è Ambelokipi, quartiere semicentrale della capitale, dove Antetokounmpo assisterà alle semifinali del torneo di 3 contro 3 organizzato in suo onore.

Scendiamo davanti a una lunga recinzione metallica, che delimita il grande playground dedicato al giocatore dei Bucks. È uno dei tre che Giannis ha sistemato assieme a Nike, e che ora è una goduria per gli occhi dei malati di palla a spicchi. Ci sono due campetti uno a fianco all’altro, rimessi a nuovi e pittati da un’artista locale con l’effige del neo MVP. Ragazzini si sfidano nonostante i 40 gradi: c’è un lungagnone di colore che potrebbe anche ricordare Antetokounmpo, non fosse che poi c’è da fare canestro e non è proprio la specialità della casa.

“Ball handling” presso il Filathlitikos

Thanasis, che ha disputato un paio di partite in NBA, qua è una star quasi quanto il fratello minore. Fedele allo stile di famiglia, comincia a sfidare tutti quelli che trova con una palla in mano. «Amo il basket perché è uno sport vario: non c’è un solo modo per raggiungere il proprio obiettivo», spiega tra un selfie e l’altro. «Nel calcio servono strutture e decine di persone per organizzare una partita. Qua bastano un canestro e una palla, è più semplice e immediato. Non tutti possono arrivare ad alti livelli, avere il dono che abbiamo avuto noi, ma l’importante è dare a chiunque la chance di giocare e stare assieme: per questo abbiamo voluto sistemare i campetti della nostra città».

Giannis, Kostas e Alex lo ascoltano in adorazione. È lui il capo del clan e lo dimostra di continuo, l’MVP segue ogni sua indicazione e ricorda commosso quando a 15 anni «l’ho battuto per la prima volta in 1 contro 1 e sono corso da papà a raccontarlo». Basta una parola di Thanasis o un suo cenno del capo per indicare ai fratelli di smettere di fare casino o dedicare attenzioni a un ospite. Assieme sono gli AntetokoumBros, che è anche il nome della fondazione che hanno creato per diffondere la cultura dello sport in Grecia.

Giving Back: Giannis ripete di continuo questa espressione. La usano in molti nello star system americano, ma lui pare farlo in maniera particolarmente genuina. Ne siamo testimoni tra le palazzine a cinque piani di Ambelokipi, dove i rooftop di Monastiraki con i bar vista Acropoli sono sostituiti da tetti scalcinati carichi di antenne della tv e bomboloni per l’acqua calda.

Un’istantanea della campagna Nike per le signature shoes di Giannis

Perché tutta questa enfasi sui campetti da basket e sulla loro funzione sociale?
Portare un ragazzo fuori di casa oppure lontano dalla strada è la miglior cosa che si possa fare. Per questo con Nike abbiamo rimesso a posto tre playground cittadini e lanciato academy e clinic per i giovani. Vogliamo offrire ai giovani qualcosa da fare, tenerli via dai guai e dare loro qualcosa di diverso a cui pensare rispetto ai problemi quotidiani che ognuno di noi ha. Se non avessi avuto certe opportunità, probabilmente ora sarei ancora a casa mia, triste e insoddisfatto, alle prese con la depressione. Invece ho scoperto il basket, la cosa più divertente che ci sia.

Qual è la cosa più importante che ti ha insegnato la pallacanestro?
All’inizio non ero il giocatore più forte, ma mi sono impegnato e ogni volta che uscivo di casa per andare a tirare ero felice. Socializzare con gli altri mi ha reso una persona miglior e mi ha dato gioia. Per questo i playground sono utili e il sistema dovrebbe occuparsene con dedizione. Il progetto che portiamo avanti con Nike è speciale per me: voglio restituire alla società e alla mia comunità quello che ho ricevuto, provare a cambiare le cose. Dire ai ragazzi che c’è qualcosa di meglio da fare là fuori.

Poche volte ho visto una famiglia unita come la tua. Come fate a mantenere così forti i rapporti, anche non vivendo sempre tutti assieme?
Oggi condivido la mia casa a Milwaukee con mia mamma e il mio fratello più piccolo (Alex, ndr). Ma anche se Thanasis oggi sta ad Atene e non sempre possiamo stare assieme, è come se lo fossimo in ogni momento. Pure quando passiamo dei periodi divisi, ogni volta che ci rivediamo la nostra unione è più salda. È il modo in cui siamo cresciuti: nostro padre ci ha insegnato a proteggerci a vicenda, perché solo così possiamo sopravvivere. 

Ripeti spesso che “la grandezza non sta solo in quello che fai in campo”. Dove sta allora?
Thanasis lo dice sempre, con parole migliori delle mie: “ognuno deve essere la propria grandezza”. Per alcuni la grandezza significa giocare bene a basket e vincere il titolo di MVP, per altri magari vuol dire essere un ottimo cameraman oppure bravo nelle relazioni umane. Non c’è un modo sbagliato di essere grandi, l’importante è svegliarsi ogni giorno e cercare di migliorarsi, impegnarsi per conquistare quella grandezza. Per questo la mia fonte di ispirazione e di speranza per il futuro è mia mamma, che ha cresciuto quattro ragazzi senza mai abbattersi.

Il playground di Sepolia visto da un drone

LIETA APPARE LA TERRA A CHI NUOTA

Alle 17 Sepolia è già in fermento. La casa degli Antetokounmpo si trova in cima a una stradina, tra due fila di edifici che a prima vista si direbbero degli anni ’70. Non è una brutta zona, anche se il fatto che sia stata rimessa a nuovo per l’evento della sera aiuta non poco. Lungo il vialone centrale c’è un venditore di canottiere tarocche dei Bucks, che sfida l’impero Nike con il suo carretto. I ragazzini sono già alle transenne e guardano i giornalisti sfilare con i loro pass con un misto di invidia e naso storto. “Giannis è roba nostra”, paiono voler dire. O forse è solo il senso di colpa su cui si regge la civiltà occidentale.

Quello che sta per compiersi è il grande abbraccio tra il campione e la sua comunità. Era in programma da mesi, ma il titolo di MVP ha incendiato ancora di più gli animi. Accediamo all’area riservata, camminando tra icone che raccontano la crescita umana e sportiva dell’enfant du pays e quotes motivazionali. La nostra meta è il playground del quartiere, in cui Antetokoumpo ha trascorso buona parte della sua giovinezza.

Rimesso a nuovo con il contributo dell’atleta e di Nike, il posto ha acquisito una sua celebrità negli anni: se si digita “Sepolia” su Google l’intera prima pagina è monopolizzata dalle immagini del campetto. Effettivamente è una figata pazzesca. Con i tabelloni affrescati in stile marmo del Partenone – «quello lì l’ho distrutto tre volte», racconta Giannis -, il rettangolo di gioco propone nella sua interezza la figura del giocatore, tra i polpastrelli la palla pronta a essere schiaffata dentro alla retina. Tutto attorno le recinzioni metalliche, a dare al contesto la necessaria “credibilità di strada”.

Giannis e famiglia festeggiano il titolo di MVP tra le strade di Sepolia. In prima fila la mamma Veronica

Sentiamo un boato provenire dalla strada: l’Antetokounmpo reale è arrivato sulla scena del crimine. Non entra subito in campo, prima deve andare a fare un saluto. La sua meta è mister Yannis, un bar apparentemente anonimo che si trova dall’altra parte della strada, affacciato su un enorme palazzo colorato con la silhouette dell’atleta.

Il titolare del locale è un anziano signore che fuma dentro e lancia bottigliette d’acqua a chiunque varchi la porta d’ingresso. Alle pareti decine di canottiere di Giannis. Sulla sinistra c’è un buffet con insalata greca, spiedini e peperoni ripieni. Yannis, apprendiamo, è stata una figura fondamentale nell’adolescenza dell’MVP. «Veniva qua tutti i giorni, da quando aveva 10 anni», esordisce, aiutato dalla solita zelante traduttrice. «Dopo aver venduto i suoi cd per strada, passava ore al campetto. Era distrutto e così io gli regalavo un panino e una mela. Gli avevo anche offerto di venire a lavorare da me, ma, anche se non aveva nemmeno le scarpe per giocare, mi rispondeva che non poteva accettare un impiego a tempo pieno, perché doveva diventare un campione di basket. Non ho mai avuto dubbi che ce l’avrebbe fatta».

Antetokounmpo con mister Yannis, alla sua sinistra

C’è un filo di commozione sul suo volto, mentre si passa tra le dita un rosario in formato mignon. «Una volta entrarono dei ragazzi del quartiere e mi chiesero perché dessi da mangiare a quel ragazzo nero. Non erano affatto amichevoli. “Perché voglio che cresca, e diventi il numero uno”, risposi». Yannis ha introdotto la questione razzismo, un tema su cui l’atleta NBA non si è mai tirato indietro. «Il razzismo c’è ed è ovunque, e sono consapevole che la Grecia sia un Paese a stragrande maggioranza bianca. Ma io sono stato fortunato, non mi sono capitati episodi particolarmente spiacevoli», dice, ridimensionando le polemiche che c’erano state un anno fa per alcuni epiteti rivolti al fratello Thanasis. Questa, d’altra parte, è la terra di Alba Dorata, e all’inizio la presenza dei fratelli Antetokounmpo in nazionale non è stata universalmente accettata.

Cosa vuoi dire a un ragazzo che sul campo o nella vita si trova ad affrontare il razzismo?
Rimani positivo. Rimani positivo e non permettere alle cose di abbatterti. Non pensare di non essere all’altezza, di valere poco. Io ho fatto così, non ho mai permesso a nessuno di togliermi le motivazioni per andare avanti. Questo voglio dire a quel ragazzo: vai avanti con le tue capacità, credi nella tua squadra e fai di tutto per dimostrare che si sbagliano. Fai di tutto per migliorarti, è l’unica cosa che conta.

Un momento delle celebrazioni al campo di Sepolia

Lo speaker sbraita al microfono: la famiglia Antetokounmpo ha fatto il suo ingresso nell’arena di Sepolia. La prima a entrare è la signora Veronica, con i capelli afro, la maglietta Freak e lunghissime unghie laccate. Poi, uno dopo l’altro, tocca ai suoi bambini. Giannis è l’ultimo, accolto dal coro MVP-MVP scandito dalla gente sugli spalti e dai tanti che sono stati costretti a rimanere fuori. I quattro fratelli assistono alle finali del torneo cui avevamo partecipato in mattinata, poi si congratulano con le tre ragazze milanesi che si sono aggiudicate il torneo under 18 femminili. Poche parole, selfie e autografi.

Il dj spara a rap a tutto spiano. Il campione balla e finalmente si lascia un po’ andare, sempre sotto gli occhi vigili di Thanasis. Se nel look, a differenze dei variopinti e griffatissimi colleghi americani, non va mai al di là di t-shirt e pantaloncini, nella passione per l’hip-hop incarna perfettamente lo stereotipo del giocatore NBA. È felice, e noi senza un perché lo siamo con lui. Ne approfittiamo per chiedergli una rapida playlist.

Tre nomi che non possono mancare nelle tue cuffie?
J. Cole sicuramente, e poi un rapper greco che si chiama Light. E Drake, chiaramente.

Ma lui è un super tifoso dei Raptors, che vi hanno eliminato ai playoff…
So che c’è gente che non lo ascolta più per via del suo tifo per Toronto, ma io no. La sua musica mi motiva un sacco, quando sento le sue canzoni mi viene voglia di spaccare tutto.

Chiudiamo con una domanda di basket. Con il tuo fisico e il tuo modo di giocare sei stato una rivoluzione per il sistema NBA, quali grandi cambiamenti ti aspetti nei prossimi anni?
Io voglio solo continuare a crescere, a migliorare la mia tecnica e fare di tutto per rendere più competitiva la mia squadra. Un passo dopo l’altro, anno dopo anno, voglio continuare il mio percorso. Tutto qua.

Il torneo è terminato, le maglie dei controlli si allentano un po’ e qualche ragazzo riesce ad entrare in campo e abbracciare Giannis. Lui si concede una volta di più. Light, il rapper che ha nominato tra i suoi beniamini, chiude la serata con un paio di pezzi, mentre i fuochi d’artificio riempiono il cielo del quartiere e costringono la gente con il naso all’insù. Sepolia ora può andare a dormire serena: l’eroe è tornato da vincitore, come in ogni mito che si rispetti.

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