25 anni senza Ayrton Senna, ma l'anima vive ancor | Rolling Stone Italia
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25 anni senza Senna, ma l’anima vive ancora

Non è stato solo il pilota più forte di sempre, ma un uomo vero e tormentato. "Era speciale, mi ha insegnato molto di me stesso" lo ricorda il giornalista Giorgio Terruzzi

25 anni senza Senna, ma l’anima vive ancora

Ayrton Senna durante i test in pista a Jerez, in Spagna, nel febbraio del 1991

Foto: Getty

Gli eroi son tutti giovani e belli, e qualcuno più degli altri.

Ayrton Senna, nato 59 anni fa a San Paolo, se ne è andato il primo maggio del 1994. Alle 14 e 18 di quel giorno, alla curva del Tamburello del circuito di Imola, la sua Williams-Renault andava a sbattere contro un muretto laterale a 300 all’ora. Poco dopo le 18 moriva all’ospedale di Bologna. 25 anni dopo è ancora il più grande di sempre. Nemmeno in una disciplina rivoluzionata ogni decade dal progresso tecnico, una simile affermazione rischia di andare incontro a smentite. Ma è stato anche il più umano in pista e il più affascinante. Persino per chi rimane indifferente al rombo di motore.

«Quell’uomo lì era diverso», dice al telefono Giorgio Terruzzi. Sempre così lo chiama, “quell’uomo lì”, con la parlata che dalla Milano di Beppe Viola fino a oggi non ha perso un granello della sua capacità di conquistarti. Giornalista sportivo, ha seguito la parabola di Senna fin dall’inizio e fino a diventarne qualcosa di molto simile a un amico. Ora sta tornando dall’Emilia, perché ieri sera, quella dell’ultima notte passata in vita da Ayrton 25 anni, è stato nella stanza 200 dell’Hotel Castello di Castel San Pietro Terme. Qui il pilota brasiliano soggiornava sempre in occasione del Gran Premio di San Marino, qui Terruzzi ha ambientato un libro meraviglioso, Suite 200, il racconto di un uomo – e di un campione – alle prese con le profondità del suo io.

«Sono stato con la signora Tosoni, la proprietaria, che è davvero carina», esordisce, prima di parlare del “suo” Senna.

Quanto è presente nella tua vita oggi?
In qualche modo quell’uomo è sempre qui, è come se fosse morto ieri. Mi avranno telefonato in duecento persone in questi giorni, mi scrivono in tanti, anche gente che non c’entra nulla con le corse. Mi hanno pure ripubblicato il libro, e sono passati 25 anni.

Com’è possibile?
Perché era un figo morto in circostanze tragiche, ovviamente. Ma, soprattutto, credo che un po’ come Pollicino negli anni Ayrton abbia seminato qualche grano di anima, e la gente lo avverte. I campioni, per definizione, fanno cose a noi precluse. Se all’improvviso ne trovi uno che ti somiglia, che manifesta i tuoi stessi impacci e turbamenti, succede qualcosa di particolare.

Nei tuoi racconti ti sei sempre soffermato molto sulle ombre di Senna. Perché?
Perché in lui erano esposte tanto quanto la luce. Manifestava le contraddizioni del vivere allo stesso modo in cui rendeva palese il suo talento e la sua ferocia agonistica. Così ha segnato un itinerario unico e ha toccato delle corde nei sentimenti degli altri.

Che rapporto avevi con lui?
A me non piace quando un giornalista dice di un personaggio famoso “era mio amico”. L’amico è quello con cui vai in vacanza o a cui telefoni di notte perché hai i cazzi tuoi da dirgli. Però diciamo che ho avuto degli accessi intimi alla sua persona: tra noi c’era un capitolo due, nato un po’ per caso, che andava oltre il lavoro.

Com’è nato questo capitolo 2?
Nel 1984 il mio amico del cuore era andato a vivere in Brasile e io andai a trovarlo. Sapevo che Senna, al primo anno in Formula Uno, era tornato a casa per le vacanze di Natale. Lo chiamai e lui mi invitò nella sua casa di San Paolo, fu una bellissima giornata.

Poi come è proseguito il rapporto?
Una volta, per una botta di culo clamorosa, spostarono il mio viaggio da San Paolo a Milano in business, perché c’era stato overbooking. Mi fecero sedere accanto a lui. Io in aereo non dormo mai, e abbiamo iniziato a parlare. Finii per fargli delle confidenze che riguardavano la mia vita, e che non avevo detto a molte persone. A un certo punto mi sono sentito un coglione: stavo dicendo i cazzi miei a Senna. Lui mi prese un braccio e mi disse di andare avanti. Ci siamo fatti un viaggio notturno insonne a chiacchierare, e quella cosa ha lasciato una traccia. Spesso in seguito, quando ci incrociavamo nel circuito, in un parcheggio o dietro un camion, ci prendevamo del tempo per parlare di come si sta al mondo.

Foto: Getty Images

Qual è la cosa che più ti colpiva di lui?
La sua ossessione di restituire agli altri quello che aveva ricevuto in termini di opportunità. Era fissato con questa cosa, infatti poco prima di morire ha lanciato una fondazione con sua sorella per dare una mano ai ragazzini delle favelas. Diceva sempre “quelli potrebbero essere dei bravi medici o architetti, e non potranno mai mettere alla prova le loro abilità”. Aveva sempre davanti a sé questa idea.

Una sorta di eterno senso di colpa. Lo ha condizionato, secondo te?
Be’, di certo non è che abbia fatto una gran vita da un punto di vista degli svaghi. Era una specie di monaco delle corse e aveva un rapporto con la fede quasi divertente: era così severo con se stesso, che quando parlava con Dio questo finiva sempre per dargli ragione. Quando ha buttato fuori Prost a Suzuka deliberatamente, una cosa da pazzo scatenato, era convinto di aver fatto un atto di giustizia, e che Dio fosse dalla sua parte. Dopo il primo titolo del 1988 in Giappone disse di aver visto Dio a figura intera in fondo al rettilineo: sembrava un matto, ma non lo era. Semplicemente con quell’uomo lì era tutto diverso, speciale.

Ricordi qualche intervista in particolare?
Una volta davanti al microfono mi disse “non capisco gli uomini che non piangono, perché le lacrime sono la benzina dell’anima”. Era complesso, attraversato dalla vita. Ed è questo che resta di lui, più che le pole position e le vittorie.

Di lui in pista, invece, cosa resta?
A volte nella Formula Uno la macchina maschera le prestazioni, con lui non accadeva mai: era tutta roba sua. Ho perfettamente in mente quanto facesse spavento sull’acqua. E poi una serie di dettagli che rendono l’idea del suo modo di vivere la sua professione. Si faceva stringere le cinture della monoposto fino alla sofferenza fisica, per aumentare il grado di sensibilità in pista. Una volta disse ai meccanici giapponesi della Honda, con cui condivideva la maniacalità per il lavoro, “guarda che in quella curva tra la terza e la quarta perdiamo 500 giri con questa macchina”. Pareva una follia, una cazzata. Poi provò, e aveva ragione lui.

Come preparava le gare?
Durante le prove io stavo sempre davanti al suo box, perché mi divertiva vederlo lavorare. Passavo lì delle ore, poi, quando lo incontravo la sera, lui mi chiedeva dove fossi stato. Avevo trascorso il pomeriggio a due metri da lui e non si era accorto di me. Lo dico sempre alle mie figlie: se uno con il suo talento non si sedeva mai, quando vi capita un’occasione – e a voi succede, a differenza di tanti altri – sfruttatela, cazzo.

Hai un ricordo molto dolce di lui. Ma è sempre stato così?
Io ho chiuso tutto in un cassetto per 20 anni. Quando mi hanno proposto il libro ho detto no, quattro giorni dopo ho fatto un sogno in HD in cui ero a Rio con Senna e ho deciso di riprendere in mano tutto il materiale che avevo messo da parte su di lui. Ho ricordato com’erano i giorni con quell’uomo lì e mi sono commosso. Alla fine è sempre una questione di sconfiggere la solitudine nella vita, e lui per me è stato un compagno. Mi ha fatto capire delle cose di me stesso, e io gli sarò per sempre grato.

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