OnlyFans può davvero salvare il porno dalle grandi corporation? | Rolling Stone Italia
Sessualità

OnlyFans può davvero salvare il porno dalle grandi corporation?

Nato nel 2016 il sito permette ai sex worker di pubblicare contenuti esclusivi accessibili dietro pagamento mensile, dandogli più soldi e più controllo su quello che fanno in un settore dominato dalle grandi case di produzione

OnlyFans può davvero salvare il porno dalle grandi corporation?

La home di Onlyfans

Nato nel 2016, OnlyFans – insieme ad altre piattaforme simili ma meno conosciute, quali JustForFans o 4myFans – permette a creatori e artisti di vario tipo di pubblicare contenuti esclusivi accessibili dietro pagamento di una quota mensile, solitamente tra i 5$ e i 20$, di cui il 20% viene trattenuto dal sito stesso. A differenza dei social mainstream (fatta eccezione per Twitter) che hanno politiche rigide su nudo e pornografia, OnlyFans non oscura contenuti sessualmente espliciti, venendo quindi utilizzato per lo più da performer porno, sex worker in generale, ma anche semplici star di Internet, per vendere propri video e foto amatoriali.

In questo senso quello a cui stiamo assistendo è uno spostamento della centralità della produzione di materiale pornografico, dalle aziende della California e quelle poche che ci sono in Europa a una maggiore autonomia e potere dei singoli performer: se fino a qualche anno fa gli aspiranti pornoattori dovevano rivolgersi alle suddette compagnie per poter entrare nel settore, adesso possono iniziare vendendo autonomamente i propri contenuti, avendo maggior controllo sugli stessi e alla possibilità di guadagnare a tempo indeterminato grazie ai pagamenti mensili dei fan – a differenza del pagamento una tantum di una scena girata per qualcun altro.

A tal proposito, scrive la pornostar gay Ty Mitchell: “[per noi sex worker] le condizioni di lavoro sono cambiate profondamente. Come molte innovazioni legate ai media digitali, queste pagine per i fan rispondono al bisogno collettivo di resistere al porno prodotto dalle case di produzione, rendendo più potenti quei lavoratori frustrati e precari, rendendoli creatori che si auto-rappresentano. Nonostante l’apparenza ‘glamour’, il porno prodotto dagli studi non paga abbastanza i modelli per poter vivere di questo lavoro, specialmente a lungo termine. Al contrario, i siti per i fan sono rivoluzionari per molti performer, perché ci permettono di avere più controllo sul nostro lavoro, rispetto all’ambiente in cui giriamo, come ci relazioniamo agli altri performer e come i nostri corpi vengono rappresentati”.

Ne consegue una sorta di “democratizzazione” del porno, visto che potenzialmente chiunque può vendere propri contenuti amatoriali, dal modello bono di Instagram con centinaia di migliaia di follower alla casalinga over 50, che hanno successo proprio grazie alla presunta veridicità degli atti sessuali che vengono rappresentati che molti si aspettano (e pretendono) dal porno – cosa che probabilmente non succede con altre forme di intrattenimento. Come sostiene la critica cinematografica Elisa Cuter, “nel porno, il sesso in scena non può essere, per definizione, simulato. Allo stesso tempo, ciò che lo spettatore vi ricerca non è solo la prova che quel sesso stia effettivamente avvenendo, bensì la realtà del piacere di coloro che ne sono coinvolti. Spettatore incluso”.

Inoltre una piattaforma come OnlyFans permette ai fan di interagire con i propri performer preferiti, messaggiando direttamente con loro o sentendosi parte di un’esperienza “intima”, come dichiarato al New York Times dal pornoattore Matthew Camp: “Tumblr era pieno delle esperienze sessuali più estreme che si potessero vedere, e penso che molte persone non fossero eccitate da certe cose. Non è ciò che cercano. Vogliono esperienze più intime, una ‘boyfriend experience’. Vogliono fantasticare su qualcuno con cui vogliono far sesso e non sentirsi disgustati da ciò”.

Nonostante lo stigma che c’è sul pagare per vedere porno – che è un’estensione di quello che colpisce tutto ciò che riguarda l’intrattenimento per adulti – penso che sia giusto pagare per accedere a dei servizi e farsi pagare nel momento in cui si produce un prodotto valido che ha lo scopo di intrattenere (di masturbarsi, in questo caso) al pari delle piattaforme di streaming mainstream, considerato che il costo medio mensile è quello di un abbonamento Netflix. D’altra parte, probabilmente è meno giusto chiedere una cifra mensile esclusivamente per un paio di scatti dei propri genitali o capezzoli, che è quello che hanno iniziato a fare molte Internet star e modelle di Instagram, che hanno pensato di lucrare sulla curiosità morbosa dei fan che non vedevano l’ora di vederle nude – e che forse in un mondo in cui il sesso non è tabù non esisterebbe nemmeno.

Quello che si teme in questo contesto è una sorta di deriva mainstream di Onlyfans causata proprio degli influencer e dai loro selfie vanilla, che lo farebbe smettere di essere una piattaforma “per adulti” centrata sul sex work – un destino simile a quello di piattaforme come Patreon o Tumblr, che si sono viste costrette a rimuovere contenuti porno e sessualmente espliciti su pressione degli investitori. Un indizio che si sta andando in questa direzione è un recente post sul blog di OnlyFans, in cui sono descritti i generi “più popolari” che si possono trovare sul sito: vengono citati atleti, comici, persino maghi, ma non una parola su porno o sex work.

In ogni caso, per il momento OnlyFans mi sembra un buon modo per arginare la “crisi” economica del porno iniziata in seguito all’avvento di internet. Io stesso penso che ci siano performer molto capaci che mi piacerebbe pagare – se non altro per una questione di etica – piuttosto che usufruire “gratuitamente” di porno piratato o scadente su PornHub o XVideos, che campano grazie alle pubblicità e alla raccolta dei nostri dati, e che in questi anni hanno creato una sorta di monopolio che porta soldi esclusivamente nelle mani dei pochissimi che possiedono queste aziende, a discapito dei performer che ricevono pagamenti per scena sempre più bassi. Come sostengono molti attivisti pro-porno e pro-sex work, “Support performers, not corporations”.