Perché dovreste leggere la (stupenda) biografia di Moby | Rolling Stone Italia
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Perché dovreste leggere la (stupenda) biografia di Moby

Redenzione, fede, caduta, rinascita: 'Oltre ogni limite' è un viaggio allucinogeno all'interno della vita del decano della techno

Perché dovreste leggere la (stupenda) biografia di Moby

Moby

Leggendo le prime pagine di Oltre ogni limite, la biografia di Moby portata in Italia da MGMT Edizioni, si ha quasi la sensazione di trovarsi catapultati in un romanzo di formazione.

‘Oltre ogni limite’, MGMT Edizioni, 2023

Nella parabola di Richard Melville Hall (questo il vero nome del decano della techno) c’è tutto: la narrazione di una maturazione individuale raggiunta con grande sofferenza; la descrizione minuziosa di uno specifico ambiente sociale intriso di classismo; la voglia di riscatto, di emanciparsi dalla povertà, dalle disparità di reddito e da quelle ferite di classe che durano una vita intera; una periferia newyorchese percepita come una prigione mentale; e, soprattutto, un nichilismo strabordante, che fa capolino nella narrazione a partire dal prologo – «Volevo morire. Ma come?», si domanda Moby, mettendo in fila tutte le possibili soluzioni che avrebbe potuto impiegare per porre fine alla propria vita: una corda, una prolunga al bordo della ruvida ringhiera in legno sul tetto, un tuffo dal cornicione.

Nella peregrinazione interiore di Moby, però, il fantasma più ricorrente è la famiglia, concepita come un microcosmo complesso, impenetrabile e traumatico. Questa concezione fantasmatica dei rapporti  familiari emerge soprattutto nel secondo capitolo, quello in cui il musicista ci accompagna nella sua infanzia sofferta: l’incidente in cui suo padre trova la morte dopo una litigata furiosa con la madre, il trasferimento in Connecticut, i buoni pasto come fonte di sostentamento primaria, l’innamoramento per la musica grazie a un kazoo ricevuto in regalo per il suo terzo compleanno, il trasferimento a San Francisco, gli echi di beat generation tra un romanzo di Kerouac e piccoli sabba improvvisati, l’osservazione del lento processo di autodistruzione della persona che lo ha messo al mondo.

Mentre gli altri bambini vanno a scuola e frequentano ambienti sani e affettati, Moby trascorre le giornate in compagnia della madre e della sua cerchia di amici hippie. Un girotondo allucinogeno fatto di alcol, acidi, molestie, stati di alterazione perenni e continue ansie: a soli quattro anni, Richard si ritrova nella spiacevole condizione di dover porre un freno agli istinti tossici e masochistici di sua madre.

Il periodo delle scuole superiori segna un cambio di passo nella consapevolezza artistica di Moby: dopo una breve parentesi in cui si attribuisce il titolo di “punk ateo”, la scoperta della fede lo trasforma in un cristiano devoto e praticante. L’incontro con Dio plasmerà nel profondo le traiettorie del percorso di Moby: «Verso la metà degli anni Novanta mi ero liberato della cristianità istituzionale, ma continuavo a pregare e mi consideravo spirituale e una brava persona. Anche se mi affannavo a sfruttare ogni vantaggio dell’essere una piccola celebrità, ero sempre convinto di essere una persona spirituale e che materialismo e mondanità non fossero coerenti con i miei valori».

Gli anni Novanta sono un decennio di maturazione fondamentale: l’elettronica, le contaminazioni sfrenate, l’ascendente del trip-hop bristoliano che fagocita, frulla e ricompone ogni brandello musicale e lo sviluppo di una vera e propria ossessione per la commistione tra suoni e stili apparentemente inconciliabili.

Questo miscuglio di ininfluenze sfocia, nel 1999, nella realizzazione di Play, l’album più importante della sua carriera, quello che porta Richard ad assumere, in maniera assolutamente inconsapevole, le vesti di santone della musica elettronica contemporanea. Play è un album generazionale nel senso più puro del termine: pubblico e critica lo accolgono con entusiasmo, c’è chi lo definisce come «La colonna sonora del nuovo millennio». Dopo l’uscita del disco, il rapporto di Moby con la celebrità cambia per sempre: quella fama che da punk anti-sistema aveva così tanto disprezzato diventa un «accogliente involucro di ambra, che mi avvolgeva con la sensazione mai provata prima di valere qualcosa». Soprattutto, Play proietta Moby ai vertici dello star system: quel ragazzino che doveva ingegnarsi per mettere insieme un pasto decente non esiste più. Si ritrova a frequentare costantemente David Bowie, Lou Reed, Christina Ricci e Madonna, a farsi di ecstasy a colazione (quasi tutte le mattine), a bere litri di vodka (tutti i giorni) e ad andare a letto con fantastiche super modelle (di rado).

A Play si somma il successo di 18, l’album successivo dato alle stampe nel 2002. Continua così a crescere la sua popolarità, oltre alla sua vita di eccessi. Fino a che tutto inizia ad andare a rotoli: «Per qualche anno avevo avuto fortuna con la mia musica e venduto decine di milioni di dischi, ma ora la mia carriera stava arrancando», scrive.

Comincia a rinchiudersi in casa, rispettando uno stretto regime di alcol e droghe: dorme nel seminterrato tutto il giorno, per poi svegliarsi alle sei del pomeriggio, cenare, bere, sniffare cocaina e prendere Xanax e Vicodin fino alle otto del mattino. «Avrei trascorso il resto dei miei giorni come un Nosferatu angosciato e avvilito finché, grazie al cielo, non sarei morto»: questo era il piano.

Nella sua ricerca in un certo senso spirituale, Moby confessa di pregare ancora, nel mezzo di tutto questo dolore, anche se non mette piede in chiesa dal funerale della nonna nel 1998 e quando gli si chiede della sua fede risponde che «non sa», abbracciando l’agnosticismo. È ancora però alla ricerca di «qualcosa di non temporaneo», capace di «guarire tutti i miei mali». La fama, i soldi, gli eccessi non erano bastati: «La celebrità non aveva risolto i miei problemi e persino i miei amori più recenti, l’alcol e la depravazione, non funzionavano più».

Per tutti questi motivi, Oltre ogni limite è un tomo che non può mancare nelle librerie di qualsiasi appassionato di musica degno di questo nome. È il racconto di una vita vissuta al limite, tra momenti bui, episodi esilaranti e tanti incontri con i personaggi che hanno fatto la storia della musica. È un classico sulla banalità della fama. È scioccante, divertente, estremo e indimenticabile. Non è edificante, ma per il lettore non sarà facile distogliere lo sguardo dalle sue pagine.

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