Luca Gargano si spegne una sigaretta sul tallone. «Appena arrivato in Polinesia non potevo neanche calpestare una conchiglia». Guardalo ora, Ruruki, questo il nome che gli hanno “donato” quando è arrivato nell’atollo che sta circa in mezzo a due mondi, quello Nuovo, le Americhe, e un punto di congiunzione che sta tra l’Oceania e l’Oriente.
Oceanico pare pure lui. Di qualcuno si dice che è scavato dal sole, consumato. Luca, Ruruki no. È diventato il suo corpo, e viceversa. Quello di chi ha detto di no a Silvio Berlusconi, cioè a Dell’Utri, specificherà lui, quando gli fu offerta la direzione marketing di Fininivest. Lo fece per non guardarsi allo specchio, un giorno, e non riconoscersi. Lo fece per partecipare a una società microscopica che non conosceva nemmeno se stessa. Oggi quel nome, be’, chiunque sia avvezzo al bere & mangiare lo sa: Luca Gargano è Amministratore delegato di Velier, società di distribuzione di “distillati, liquori, vini e alimentari di qualità”. Anche se pare, più di tutto, il ragazzo che non ha ancora deciso che fare da grande.
Mica è sempre negativo. Cioè: scopri il Caroni, rum da collezionisti, tra i valori del beverage più preziosi in giro; ti inventi Triple A, movimento di agricoltori, artigiani e artisti, non per spingere il vino naturale – o comunque sì, ma l’ottica non è quella – per riportare all’attenzione dell’agricoltura e dell’enologia il legame con la terra. Ti sei inventato una cosa che sta tra l’antropologia, il disseppellimento dei tesori, e la connessione di punti lontani. Gargano si definisce un mercante, ma sottolinea che anche in uno dei mestieri più antichi del mondo, lo spazio per l’etica c’è.
Che poi è uno scherzo, certo che l’ha capito lui, il suo mestiere e pure il suo sogno. Uno se lo immagina che tocca la volta celeste con l’ambizione, ma fino a qui non ci sarebbe arrivato. Da genovese, Gargano ha più del corsaro e certo, pure dell’esploratore. La poesia pare lasciarla agli altri: la praticità, il raggiungibile, sta al centro del suo mondo. Eppure ora, ecco, sta come condensando tutto. In un nuovo progetto, che poi è una parola, per racchiudere tutti quelli un po’ matti che, ci mettiamo dentro pure noi stessi, spendono del tempo a lambiccarsi sulla qualità di ciò che si mangia, si beve, si vede. Gli epicurei, insomma.
I quali, chissà, magari potranno un giorno cenare a un ristorante di cucina dei Caraibi aperto da Gargano, come da sogno che ha citato nei suoi scritti. Oppure, forse ancora meglio.

Foto: Andrea Nicotra
Noi qui proviamo a raccontare la tua storia. Qual è quella che vuoi raccontare tu?
Io parto sempre dalla mia massima, dal mio principio: che l’obiettivo dell’uomo è la felicità. E nel tempo ti accorgi che la felicità si produce solo con gesti positivi. A volte hai delle notti di egoismo, ti senti al settimo cielo. Poi ti accorgi che non era così. La vita è molto più semplice di quello che pensiamo. E per tornare alla ricerca della felicità, questa presuppone impulsi positivi. Alla fine io sono un mercante, nel senso più nobile del termine, sono un intermediario tra un artigiano di alto livello e i professionisti del settore. Però l’onestà l’ho sempre perseguita. Se fai il mestiere più antico del mondo e ti presenti come Madre Teresa di Calcutta, non va bene. Il McDonald’s non può dire di avere una stella Michelin. Tante volte invece nell’enogastroomia ci sono prodotti che come immagine sono diversi da ciò che sono in realtà. Allora durate la mia vita ho creato protocolli che aiutassero questa sincerità, come Triple A. Qual è il modo per ottenere vino migliore nel rispetto del territorio? Oggi le leggi sono fatte dall’industria, nemmeno dai politici. Facendo così invece raggiungiamo le migliori espressioni.
Tu parti da Genova, come gli esploratori. Però sembri più un pirata.
Io mi vedo come un nomade tra i barili. Cristoforo Colombo forse sarebbe stato fiero, si tratta di girare il mondo e riportare indietro, salvare qualcosa che rischia di andare perso. Prendi Michel Sajous, produttore di clairin (un distillato di Haiti, nda): se oggi va a Chicago ed entra in un bar, gli chiedono l’autografo. Questa è la soddisfazione più grande. Far risultare un tartufo, o un diamante, qualcosa che si credeva essere una patata.

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Pure la mixology è qualcosa di corsaro però, qualcosa che ha avuto bisogno di una rivoluzione per arrivare a tutti.
La storia è questa. Negli anni Cinquanta e Sessanta a New York ci andavi con la nave, non l’aereo. In Italia avevamo due navi famose, la Michelangelo e la Raffaello, che facevano la traversata. Negli Stati Uniti c’era già la moda dei cocktail. Tutti i barman che avevano lavorato su queste navi sono entrati in contatto con questo mondo, rientravano in Italia e importavano l’American Bar. A Genova c’era Benito Cuppari, primo barman della Michelangelo. Aveva aperto un American Bar in città dove ti faceva i tiki, i sandwich, cose così.
Poi negli anni Settanta e Ottanta si beveva gin fizz, sono nate le discoteche e tutto questo è decaduto. Alla fine è arrivata anche la moda del rum, qui sono entrato in gioco anche io. Sono andato nei Caraibi che avevo diciotto anni, è stato il primo amore. Non avevo mai visto l’umidità. Sono arrivato in Martinica e ho sentito la musica: le palme che si scuotevano, le ragazze alte un metro e ottanta, le ranocchie di sera … Erano gli anni Novanta, Mojito e Cuba libre. Ma erano sempre long drink. È stato solo verso il 2005 che, anche grazie al digitale, è diventato più facile sapere che cosa succedeva in giro. Quindi per i barman è stato più facile imparare da fuori. È un mondo che si è avvicinato a quello degli chef. Poi ci sono stati sconfinamenti, cocktail più belli che buoni, fatti per la soddisfazione del barman e non del cliente. Però c’è stato un bel movimento e oggi si beve molto meglio di una volta. Alla fine i cocktail, come il vino, servono per la convivialità. Per questo la lotta contro l’alcol di oggi è demagogica. Bere è una tradizione dell’uomo, ma intendo bere per il piacere di degustare qualcosa di buono. E invece proibendo crei il fenomeno opposto, porti il consumatore all’eccesso. Non per niente nella cultura mediterranea il vino arriva sull’altare della religione cristiana.
Se ripensi al ragazzo appena sbarcato nei Caraibi?
Mi sembra ieri, quando avevo diciannove anni. Mi ritrovo molto simile. Sono innamorato della vita, sono un entusiasta.
E nel presente, ci riesci a stare?
Non ho il telefonino, non seguo i media. Vivo nel presente, nella vita reale, imparo osservando nella realtà. Poi certo, ci sono i sogni. Alcuni amici alla mia età iniziano a dire che hanno qualche rimpianto, io non ne ho. Ho sempre sognato qualcosa che era nell’alveo delle mie conoscenze. Ho realizzato quello che volevo fare anche per destini strani, sono un sognatore genovese che sogna cose alla sua portata.

Foto: Andrea Nicotra
Luca Gargano senza i Caraibi: chi sarebbe stato?
Ti dirò: io ho tanti Caraibi. L’atollo di Anaa in Polinesia, per esempio, poi ho un forte legame con l’Africa e gli africani. C’è anche il vino naturalmente, sono nato in campagna a contatto con le viti e la terra. Se ripenso a quando ho creato Triple A… Ma questo mi porta da un’altra parte, a riflettere su un’altra cosa. Ovvero sul fatto che viviamo in un mondo iperspecializzato. Ci sembra strano sapere che una persona, mettiamo il caso io, possa essere specializzata in più cose. Ha fatto questo, e quest’altro… Sembra strano, crea diffidenza. Invece nei libri del Settecento troviamo persone che hanno qualifiche multiple. Ma perché è così, anche nel gusto. Se uno è un gourmand lo può essere in tutti gli ambiti. Quindi dentro di me ho i Caraibi ma poi tante altre cose.
Che cosa vuole e voleva dire andare nei Caraibi? Cercare, conoscere?
Faccio amicizia facilmente. Dei Caraibi mi è piaciuto soprattutto lo stile cool: everything is OK. Non c’è mai un problema, tutto va bene, sempre un sorriso. Haiti è un posto straordinario, è un’Africa deportata con la violenza ai Caraibi. E nonostante questo ci sono sorrisi a trentadue denti. E1 questo modo cool di prendere la vita. Gli africani sono intuitivi, spirituali, le sovrastrutture non interessano. Capiscono in un battito di ciglia se sei una persona buona, sincera. Poi essendo genovese, e volendo andare a scoprire qualcosa, diciamo che preferivo il clima caraibico a quello siberiano.
Poi hai fatto questa cosa straordinaria: a un certo punto hai detto di no a Silvio Berlusconi.
Sì, a Dell’Utri in realtà. Mi aveva proposto la direzione marketing di Fininvest su spunto di Berlusconi. Io ho cominciato a lavorare molto giovane, in un’epoca in cui non c’era l’IT, nulla. Ero un apprendista, portavo i capelli lunghi, ho sempre sofferto questo giudizio dell’essere giovane. Quando nacque la televisione commerciale fu la prima volta che mi trovai allo stesso tavolo a parlare con ragazzi della mia età o quasi. Stava nascendo un mestiere nuovo, io lo sapevo fare da più tempo, cioè vendere. Perché era quello che avevo sempre fatto. Berlusconi se n’era accorto. Il giorno della proposta mi sono chiesto: ma che cosa ci faccio qui con il mio carattere? Come sarò quando sarò grande, se faccio carriera qui dentro? Così da lì sono entrato in Velier.

Foto: Andrea Nicotra
E dopo, la Polinesia:
Sono diventato Ruruki, il mio nome polinesiano, con cui mi chiamano tante persone. Lì ho imparato l’umiltà. Un atollo sperduto, dovevi pescare con l’arpione se no non mangiavi. Conoscevano tutto di quel posto, ogni palma, tutti i nomi dei pesci, ogni pesce aveva un nome a seconda dell’età. Io sapevo tutto della Borsa e delle transazioni internazionali, ma niente di queste cose. Da giovane hai una presunzione, arrivi in un posto in cui le persone non sapevano che esistessero i paracadute. Ma loro sarebbero tornati sulla loro isola anche lasciati in mezzo a Parigi, io sarei morto sul reef di Anaa. È stato come fare un viaggio indietro nel tempo, capisci quali sono i valori fondamentali. Sei su un atollo a sette chilometri dal continente più vicino.
C’è una leggenda attorno a te. Ha a che fare con la scoperta del rum Caroni.
Vuoi ridere? Prima che il Caroni diventasse “il Caroni”, non ne avevo mai fatto una degustazione ufficiale, per la stampa e così via. Quando mi chiedono come l’abbia scoperto, penso dentro di me: ma è vero quello che stai dicendo, Ruruki? Mi sembra un’allucinazione. Per una sorta di combinazioni sono finito nella distilleria Caroni, aveva chiuso da poco. Nessuno sapeva che ci fossero vecchi barili, nessuno ci sarebbe mai entrato, era tutta messa male. Allora assaggio questo rum, che tra l’altro era una selezione speciale. Ho pensato subito a Muhammad Ali, perché aveva il 66% di alcol. Non c’erano rum oltre il 40%. Se ad Ali avessero messo la cravattino, cioè se io avessi diluito questo rum… Non sarebbe stata la stessa cosa. Imbottigliarlo così com’era, be’, era una follia. Sembrava una decisione antieconomica, ho seguito l’istinto. E1 stato anche per questo rispetto della verità, per questa onestà che sento di voler avere. Non sarebbe stato Caroni, sarebbe stata una cosa diversa. Sull’etichetta abbiamo persino messo una foto, non si faceva all’epoca. Ne abbiamo usata una di Fredi Marcarini. Ho cominciato a venderlo a trentadue euro e c’era pure un bel margine, ora le bottiglie vanno sulle migliaia di sterline. Per cui una scelta che sembrava una follia è diventata…
Diciamo che a volte serve un punto di vista diverso sulle cose. Prendere una decisione impensabile. A vendere il primo batch ci ho messo anni. È un fattore umano, ChatGPT avrebbe detto di no, non farlo. Così è nata la favola del Caroni, è successo qualcosa, o lo ami o lo odi. È nata una leggenda. Era il 2004. Poi ci abbiamo fatto un libro fotografico, sempre con Fredi. Abbiamo rintracciato alcuni vecchi dipendenti della Caroni, ne abbiamo trovati quattordici. Dopo sette anni, vedendo le quotazioni del rum, abbiamo pagato a tutti complessivamente un forfettario corposo. Anche qui, era giusto farlo.

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Come sei arrivato a Triple A, invece?
Quando sono entrato in Velier, era un’azienda che fatturava come un bar, due soci e un dipendente. Nell’88 ho cominciato a importare vini dal Nuovo Mondo. Argentina, Cile, … Stranamente questa operazione è stata amata anche dai produttori italiani, che hanno cominciato a stimarmi. Allora io assaggiavo e piano piano mi rendevo conto che tutti i vini erano uguali. Mi sono chiesto, ma non ci capisco più niente? Io che ero cresciuto in campagna? E intanto ero diventato il guru dei vini del nuovo mondo. Allora ho cominciato a ritornare nei vigneti. Era un momento storico in cui si millantava di aver scoperto questo e quell’altro vitigno, quell’autoctono, pensa te, il Primitivo di Manduria!
Quando il mondo va a rotoli è bello immaginarsi il contadino che cura la vite con i pantaloni di fustagno e che mette la rosa all’inizio del filare. Io, per provocare, avevo messo una taglia sui lombrichi nei vigneti che il Gambero Rosso aveva distinto con i Tre Bicchieri. Nel senso che se mi avessero trovato vita vera, in quei terreni, mi sarei dichiarato soddisfatto. Nel frattempo degustavo vini diversi e cercavo di capire. Immagina che non c’erano libri scritti sull’argomento e su un’agricoltura virtuosa, stavo nuotando in acque sconosciute. A un certo punto mi sono ritrovato a bere degli Château di Bordeaux delle annate tra il Cinquanta e il Novanta insieme a uno Château Musar, un vino libanese molto pregiato. Notai che quello libanese rimaneva invariato nel tempo, gli altri no. Questo perché negli anni Ottanta si sono cominciati a usare lieviti selezionati, che standardizzano il vino. Era un prodotto morto, perché il lievito vive dove c’è la vita e questi venivano aggiunti, non erano sviluppati spontaneamente. I lieviti vanno seguiti come i bambini, ogni processo è diverso.
Quindi, queste tre A?
In quegli stessi anni si stava iniziando a parlare del rating di Standard&Poor, l’Italia prima era AAA e poi è diventata AA, A, poi B e così via. Una sera, ero in Irlanda e abbastanza triste, mi stavo separando. Ho reso un foglietto e ci ho scritto sopra questo, questo Triple A. Mi sono detto che le vere “tre A” erano gli agricoltori, gli artigiani e gli artisti, almeno nel vino. Quello stesso foglietto è stato preso da modello per creare l’etichetta del protocollo. Non ti dico i grandi del vino, quelli che mi dicevano che ero Mick Jagger, che venivano alle mie degustazioni di Champagne e che mi chiedevano di distribuirli. Ma il vino era chimico, era morto. Io lo ripeto: sono un mercante, ho davanti delle persone che bevono, sarebbe stato assurdo comportarsi diversamente, quindi non perseguire la qualità. oRa tutti bevono vini naturali e Triple A. Anche tanti grandi produttori sono tornati a fare vera agricoltura. Questo mi fa molto felice.
Ultima domanda poi andiamo a pranzo: ma davvero hai accantonato il progetto di un ristorante con cucina dei Caraibi?
Forse mi piacerebbe avere un ristorante che faccia ogni settimana una cucina diversa, che offra abbinamenti con gli spirit. Oppure vorrei un posto che chiamerei Normale, perché esserlo, oggi, è anormale. Vorrei una cucina di materia, la più semplice possibile. Un vero pollo alla cacciatora con i pomodori maturi. Mangiare un risotto. Ma tutto dentro segue protocolli. Sto pensando a una nuova definizione per gli epicurei del ventunesimo secolo, chi ha gusto e che sa. Tutto a partire sempre dai gesti positivi nell’agricoltura. Questo termine comprenderebbe tutti: il ristorante che ricerca, tu che vuoi l’uovo della gallina che ha fatto l’amore con il suo gallo…