Leonardo Maria Del Vecchio è più di quel che pensi | Rolling Stone Italia
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Leonardo Maria Del Vecchio è più di quel che pensi

Da tempo non si vedeva un trentenne che si muove sullo scacchiere economico così, senza chiedere permesso. Progetti, interventi, acquisizioni e ora il Twiga a Milano, «un invito a tornare eleganti nel modo di stare insieme». Intervista a un imprenditore che non vuole costruire solo aziende, ma possibilità

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A colpire è l’anagrafe: di persona Leonardo Maria Del Vecchio è prima di tutto sorprendentemente giovane. Interventi, acquisizioni, un indiscutibile protagonismo dentro e fuori le vecchie control room che conosciamo da tutta la vita, era da tempo immemore che in Italia non si vedeva un trentenne muovere l’intera scacchiera della prima linea del Paese senza dover chiedere il permesso.

Ed è questo che fa di LMDV – così d’ora in avanti per ragioni di spazio – la più importante variabile e insieme il più interessante personaggio dell’Italia di oggi, isole comprese. Se accantonassimo voyeurismo, bisogni etichettatori, carico del nome – praticamente il medesimo dell’irraggiungibile capostipite – i bill-trill-sixt-illions, ognuno spari la sua, dovremmo ammettere che l’apparente liceità dell’interesse pubblico verso le gesta di un giovane uomo che di fatto non fa altro che muovere i propri carri armati dalla Kamchatka alla Jacuzia esattamente alla stessa maniera di chiunque altro, non è in fondo così del tutto naturale. Per farla breve: il tipo investe i propri denari dove considera opportuno farlo. Non è richiesta la giustificazione in presidenza per questo, mettetevela via.

Ora: se vi siete liberati del fardello moralistico, evviva. LMDV non è il nepo baby condannato da un’inevitabile fortuna all’imbalsamazione precoce da Consiglio confindustriale o all’attovagliata candida da ambrosettiano meeting lacustre. Tutt’altro. C’è qualcosa di addirittura antagonista in lui, una sfumatura del carattere che lo rende diverso, non assimilato. È interno e insieme outsider. Apocalittico e integrato, avrebbe detto qualcuno. Alla fine estremamente interessante, personalità da rivelare e materia da approcciare laicamente, come in realtà si dovrebbe fare con qualunque cosa a questo mondo.

Milano. Molteplici ristoranti in Brera e adesso un club, erano decenni che non si vedeva un tale attivismo in città.
A volte le passioni diventano opportunità, anche di business. Il primo ristorante l’abbiamo aperto perché volevo un posto dove sentirmi a casa, un luogo non massificato né una trappola per turisti, e in Brera non c’era. Uno dei quartieri più significativi di Milano ridotto a una fiera di mediocrità, con le pizze fredde esposte all’esterno, praticamente abbandonato da chi la città la vive, dato per perso senza opportunità di rimedio. Così nasce Vesta. Subito dopo ci contattano svariati proprietari di locali e viene fuori che di Brera con un po’ di impegno si può in realtà trovare il rimedio. Bisogna crederci però. Fare le cose, non soltanto parlarne. E quindi la spinta viene dal contesto, noi rispondiamo presente, e scommettiamo su via Fiori Chiari quando nessuno lo avrebbe mai fatto.

E com’è andata?
Otto milioni per partire, cinquanta dopo diciotto mesi. Nessun piano perfetto, solo la direzione giusta.

Ora il Twiga. C’era bisogno di una nuova discoteca a Milano?
Da milanese amante di Milano ti dico di sì. Ho vissuto la nightlife e onestamente non andavo più da nessuna parte. Il club secondo me deve essere concepito e inteso come un luogo dove avviene la socialità. Siamo tutti stanchi di vedere gente a cena con i telefoni in mano che fa finta di avere qualcosa di fondamentale da guardare. Per questo al Twiga c’è la no phone policy: esci se vuoi uscire, se vuoi conoscere persone e parlarci. Scambiarti il numero di telefono e non il profilo Instagram. Se vuoi scrollare puoi farlo tranquillamente da casa tua.

Ma Milano è davvero all’altezza della sua rappresentazione o gode soltanto di ottime pr?
Io vado controcorrente e ti dico che onestamente penso sia cresciuta tantissimo e che ci sia un ampio margine ulteriore di crescita. Guarda l’immobiliare. I prezzi stanno salendo ma non sono neanche a un terzo di quello che si paga a Londra, a Parigi o a New York. Quello che manca è l’offerta, perché la domanda è esplosa. In generale a Milano c’è una domanda che aspetta soltanto di essere accolta, in tanti ambiti e settori, e questo significa vitalità.

So che ti diletti a mettere i dischi e che hai un rapporto personale di lunga data con Matteo Milleri, cioè Anyma, il cui padre è nientemeno che l’amministratore delegato di EssilorLuxottica. Insomma, tutto in famiglia.
Matteo è un genio. Ha rivoluzionato completamente quella che prima era solo una nicchia. Lui ha reso accessibile qualcosa che non era commerciale né pop. E in più ci ha costruito intorno uno show che da solo vale la pena di essere visto. Ti ci senti immerso con tutti i sensi, ha alzato il livello a un punto che possiamo tranquillamente sostenere che esiste un pre e un post Anyma. Non so se sia chiaro a tutti l’impatto che ha avuto Matteo sull’industria.

Di sicuro ha avuto un forte impatto su di te. Raccontaci gli inizi.
Per me la musica è sempre stata una specie di bolla. Qualcosa di mio, di privato, dove poter godere della mia intimità e non pensare troppo. Un luogo sicuro dove rifugiarmi, dove avere un momento tutto mio. E certo, Matteo ha avuto un ruolo in questo. Ovunque suonasse se potevo non me lo perdevo. Stavo dietro di lui in console. Guardavo e non mi muovevo da lì per ore. Era come un’eccezione alla normalità, un asterisco alla vita. Ho dei ricordi fantastici. La musica mi ha spesso aiutato nella mia esistenza, non lo dimentico. Per me è un fatto terapeutico. Quando sono immerso nella musica, intendo proprio mentre sto suonando, è come se fossi fuori da me. Non mi succede con nient’altro.

Che cosa ascolti?
Di tutto: da Einaudi ad Anyma, dai Rolling Stones a Fedez. La musica mi piace in generale. Dicono che sia anche bravo ma sono ancora un dilettante. Non ho un mio stile completamente definito. Certo, diciamo che molta ispirazione viene da Matteo, perché è la musica che ho sempre ascoltato e che mi piace di più.

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Oltre alla musica c’è il Cinema con l’ingresso in Leone Film Group.
Io amo il cinema e Sergio Leone è uno dei miei registi preferiti. C’era una volta in America è un capolavoro irripetibile e quando ci si è presentata questa possibilità l’abbiamo colta al volo. Il cinema non è però il mio settore e quando si fa un investimento non lo si fa soltanto sul marchio, ma soprattutto lo si fa sulle persone. Quindi non ho alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno. Ma posso dire di avere un obiettivo molto chiaro in mente: vincere un Oscar.

Fingiamo per un attimo che tu debba fare impresa oggi in Italia, cominciando dalle condizioni di partenza di tuo papà. Ti chiedo: che cosa faresti? Che settore sceglieresti?
Sicuramente non farei il liceo scientifico né il classico e sicuramente non studierei economia, perché lo fanno tutti. Quello che di veramente unico abbiamo in Italia è l’artigianalità. È il nostro patrimonio. I marchi francesi sono i numeri uno, ma dove producono? In Italia. Perché? Perché l’artigianalità, la manualità, il gusto sono cose che abbiamo sempre avuto e che ci trasmettiamo in eredità da sempre. Se non avessi avuto le possibilità che ho oggi, avrei sicuramente fatto le scelte che ha fatto mio padre. Ripartirei dalle mani. Dall’artigianalità, dal saper fare. Per lui non è stata nemmeno una scelta, perché non poteva permettersi l’università, quindi decise di utilizzare i suoi talenti. Mio padre ha insegnato al mondo che talento e disciplina possono trasformare il destino di un uomo e di un Paese. Lui faceva dei ritratti, pochi lo sanno, aveva una mano incredibile perché ha studiato anche Belle arti. Ha iniziato a fare l’incisore di medaglie a Brera durante il giorno e la sera frequentava le Belle arti. Non ha mai detto: «La guerra non mi ha permesso di prendere il diploma, adesso faccio un lavoro qualsiasi per sopravvivere». Ha puntato sui suoi talenti e si è chiesto come farli fruttare al massimo. Lo fece fin da subito: quando era ai Martinitt sviluppò una calligrafia perfetta che gli permise di trascrivere documenti importanti in cambio di un panino in più per pranzo.

È più pericolosa la brama di quelli che si avvicinano o l’invidia di quelli che stanno lontani?
Difficile. L’invidia è qualcosa che comprendo, che ho vissuto da sempre, da quando sono nato, dalle scuole elementari. Quindi la conosco bene. Se mi lamentassi di ciò mi vergognerei di me stesso, perché come potrei lamentarmi dell’invidia per essere nato in una certa famiglia quando ci sono persone che vivono difficoltà incredibili? Quindi di certo non me ne lamento. È una motivazione per dimostrare, invece, che sono molto di più di un semplice “figlio di papà”. La gente non mi vede in ufficio, perché l’ufficio non è un luogo pubblico. Io parlo poco, ma i risultati parlano per me. E i risultati sono il motivo per cui persone con carriere importanti hanno deciso di unirsi al nostro progetto, di lasciare multinazionali e posizioni importanti per accettare questa che comunque rimane una sfida. Una sfida appena nata, ancora tutta da costruire, ma che di sicuro vinceremo.

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